La Tregua
di Elisabetta Ruffini
Introduzione
Sollecitata dagli organizzatori di questo seminario a trovare un percorso di lettura all’interno della Tregua, ho accettato la sfida di leggere un libro che, lo confesso, non avrei mai pensato di proporre a degli insegnanti come esempio da inserire in una riflessione su "Letteratura e Deportazione". La mia perplessità nasce di fronte al rapporto che il libro instaura con il lettore e che si impone quale segnale evidente di un mutamento della cadenza della voce del narratore che ritorna a raccontare dopo Se questo è un uomo. Ho deciso quindi di non nascondermi questa perplessità, ma di usarla come punto di partenza, indagarla e interrogarla per far definire il ruolo giocato dalla Tregua nella traversata dello spazio letterario effettuata da Primo Levi per portare testimonianza della deportazione.
Il nostro intervento si aprirà quindi con una presentazione del libro da cui far emergere il suo ruolo nella scrittura e nella carriera di Levi. Potremo quindi addentrarci nell’analisi della struttura del libro e considerare l’intreccio tra blocchi tematici contrapposti e complementari che tessono l’intimità distante tra Se questo è un uomo e La tregua. Arriveremo così a proporre alcuni suggerimenti di lettura del testo che metteranno in luce in che modo nella Tregua si coniuga il rapporto fra letteratura e deportazione.
Presentazione del libro
Il testo della Tregua è stato scritto tra il 1961 e il 1962, benché la sua materia sia stata lavorata a lungo precedentemente. Come già era stato per Se questo è un uomo e come, potremmo dire, è caratteristico del lavoro di scrittore di Primo Levi, il racconto delle avventure del ritorno nasce oralmente. Nella fucina dell’opera di testimonianza di Levi il racconto orale infatti svolge un ruolo fondamentale: esso libera la voce del testimone che si è già cristallizzata d’altra parte in una forma poetica. Non a caso Fortini individuava la poesia in Levi come "il grido di apertura", l’"accordo di preludio" dopo il quale comincia "il discorso implacabile della prosa e della ragione".1 E recentemente François Rastier osservava che la poesia in Levi è il "centro della scrittura", in cui la voce del sopravvissuto testimonia per il testimone e pone la questione di una scrittura che prende la parola in conto di terzi, in nome degli scomparsi.2 Come era già stato per Se questo è un uomo, anche La tregua porta in epigrafe una poesia scritta prima del testo e che ricomparirà autonomamente nella raccolta Ad ora incerta edita nel 1984.
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve e sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawac»
E si spezza in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
1
F. Fortini, L’opera in versi, in Un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, op. cit., p. 166.2 F. Rastier, Ulysse à Auschwitz. Primo Levi, le survivant, Paris, Cerf, 2005, pp. 20-25.
1
3 R. Caccamo e M. Olagnero, Primo Levi, intervista uscita su «Mondoperaio», n. 3, 1984, p. 155.
4 Ibidem
5 P.M. Paoletti, Sono un chimico, «Il Giorno», 7 agosto1963, ora in P. Levi, Conversazioni e interviste, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997, p.104.
6 Si noti che il giro di frase non è chiarissimo e esistono due diverse interpretazioni del rapporto con Galante Garrone: se noi seguiamo M. Belpoliti, non si dimentichi che Ferrero sostiene che "Levi era poi affettuosamente incoraggiato, nel 1961, dall’amico Alessandro Galante Garrone" (cfr. E. Ferrero, La fortuna critica, in Un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, op. cit., p. 313). Nella scia di E. Ferrero anche M. Anissimov, Primo Levi o la tragedia di un ottimista, Baldini e Castoldi, 1999, p. 504 e C. Angier, Il doppio legame, Mondadori, Milano, 2004, p. 515).
7 C. Paladini, A colloquio con Primo Levi, in Lavoro, criminalità, alienazione, a cura di P. Sorcinelli, Il lavoro editoriale, Ancona, 1987, p. 154.
8 Gli incontri erano stati organizzati in occasione dell’allestimento torinese della prima Mostra Nazionale sui lager nazisti, mostra proveniente da Carpi e lì accolta e commentata dall’Aned locale. Cfr. E. Ruffini, Il testimone e la ragazzina, Stefanoni, Bergamo, 2006.
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Ibidem.Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawac»
La poesia è datata 11 gennaio 1946 e nel canzoniere di Levi porta il titolo "Alzarsi". Il motore del racconto della Tregua prende avvio quindi immediatamente al ritorno, all’interno di quel "grappolo di poesie" che coincidono con il lavoro di stesura di Se questo è un uomo, e genera il racconto fin dal 1947-48, subito dopo la stesura del primo libro. Levi stesso farà notare che "gli anni 46-47 erano stati anni felici in cui mi sentivo pieno di potenza e di forza, mi sentivo di ricominciare a vivere dopo un lungo periodo di macerazione"3 ed è proprio allora, accanto e nella scia della scrittura di Se questo è un uomo, che egli comincia a raccontare la storia del ritorno dal lager, dopo aver fissato per iscritto "un puro appunto, come dire, ferroviario. Una sorta di itinerario [...]".4 Innanzitutto Levi prende a raccontare agli amici: in un’intervista del 1963 ricorda che "La Tregua è la storia dei racconti che ho fatto per anni, invariabilmente, agli amici, ai pochi amici che ho qui a Torino, vecchi amici di scuola, sa, ai caffè, a casa mia, passeggiando sul Lungo Po".5 Nel 1986, interrogato da Carlo Paladini, Levi sembra precisare6 che quegli amici, "fra cui lo stesso Antonicelli, fra cui Sandro Galante Garrone", lo hanno incoraggiato a scrivere le storie del suo complicato ritorno, tanto che "avev[a] scritto un capitolo o due fin da allora, nel ’47-’48, quello che ora è il primo capitolo della Tregua."7 Dopo la ristampa einuadiana di Se questo è un uomo nel 1958 e il successo riscosso nei primi incontri pubblici tra sopravvissuti e giovani, organizzati a Torino il 4 e 5 dicembre 1959,8 la storia del ritorno diventa oggetto di racconto nei sempre più frequenti incontri con le scuole e le comunità locali. Proprio qualche giorno dopo gli incontri del 1959, la «Stampa sera» pubblica (19-20 dicembre ‘59) un racconto dal titolo L’ultimo della classe, che poi confluirà nel quarto capitolo della Tregua, e dall’inizio del 1960 Levi, chiamato sempre più spesso a intervenire in pubblico, ritornerà oralmente ai suoi racconti del ritorno che riprende a scrivere nella scia della "nuova vita" di Se questo è un uomo.
Nel ’60, sono stato chiamato da molte parti. A quel tempo lavoravo ancora in fabbrica e non potevo andare nei giorni feriali. Andavo il sabato mattina oppure dopo cena. Questa rinascita di Se questo è un uomo mi ha fatto tornare in mente un progetto che avevo e che era di scrivere il seguito, cioè quello che sarebbe stato La tregua, che sembrava un capitolo diverso, ma complementare.9
Nello stile di lavoro proprio dello scrittore Levi, tutta questa massa e/o riserva di racconti viene quindi lavorata o rilavorata per iscritto come ben attesta "il quaderno di scuola a quadretti, dalla spessa copertina di cartoncino verde
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10 M. Belpoliti, Note ai testi: La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 1419.
11 Cfr. G. Tesio, Tutta l’odissea in un quaderno, «La Stampa – Supplemento», 9 febbraio 1997.
12 P. Levi, Conversazioni e interviste, op. cit., p. 102.
oliva"10 che Giovanni Tesio ha consultato e studiato.11 Qui troviamo infatti, accompagnati ciascuno dalla propria data di stesura, tredici dei diciassette capitoli che costituiscono La tregua. La precisa datazione di questo quaderno conferma quanto Levi fa osservare a Pier Maria Poletti che lo intervista proprio dopo l’uscita del libro:
[...] è venuto il giorno in cui l’equazione fra tempo libero, voglia e pressione degli altri è stata perfetta. [...] Duecento ore di lavoro mi è costata La tregua, un capitolo al mese. Se pensa che posso lavorare solo alla sera, dopo il lavoro in azienda, e che mi occorre in media un’ora buona per cambiare pelle, diciamo che il libro è nato in trecento, quattrocento giorni, vale a dire un anno.12
Il manoscritto è consegnato all’Einaudi nell’autunno del 1962: è immediatamente accettato e il 4 dicembre è stipulato il contratto, dove si indica come titolo del libro Vento alto, modificato poi al momento della pubblicazione in La tregua.
Varrà la pena notare che, secondo l’abitudine dello scrittore Levi, il titolo è estratto direttamente dal testo. Come prima ipotesi veniva ripreso un passaggio del III capitolo, Il greco: "in quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, soffiava un vento alto sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi" e, sulla soglia d’entrata nel racconto del ritorno, sembrava preparare alla condizione magmatica in cui la storia si sarebbe svolta. Il titolo definitivo, La tregua, è ricavato invece dall’ultimo capitolo, anzi quasi dalle ultime battute del libro: "I mesi or ora trascorsi, pur duri di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irrepetibile del destino." Sulla soglia d’uscita del testo, il titolo sembra voler indurre il lettore ad una visione retrospettiva della storia raccontata, presentandola come parentesi di vitalità, che si chiude nell’angoscia del ritorno effettivo all’esistere quotidiano. A questo proposito si osservi la lunga nota che Levi inserisce, nell’edizione scolastica da lui curata, sulla parola "Wstawac" che chiude l’ultima pagina e rimanda alla poesia in epigrafe. Tale parola in polacco significa "alzarsi" e qui torna a risuonare nell’incubo del reduce, attanagliato dalla sensazione di "trovarsi solo al centro di un nulla grigio e torbido" e dalla certezza di essere "di nuovo in Lager e nulla era vero al di fuori del Lager". Levi commenta che questo sogno chiude la pagina e il libro
su una nota inaspettatamente grave, [e] chiarisce il senso della poesia posta in epigrafe, ed a un tempo giustifica il titolo. Nel sogno, il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa («nulla era vero all’infuori del Lager»), e si identifica con la morte a cui nessuno si sottrae. Esistono remissioni, «tregue», come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal «comando dell’alba» temuto ma non inatteso, dalla voce straniera («wstawac» significa «alzarsi», in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono. Questa voce comanda, anzi invita, alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz.
Non so e non ho trovato in nessun testo né di Levi né dei suoi critici la storia e la spiegazione di questo cambiamento (come invece è il caso di Se questo è un uomo). Non sappiamo quindi se è una scelta dell’autore o dell’editore, ma possiamo solo constatare che questo cambiamento rende forse di più facile accesso il titolo e modifica gli equilibri
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13 Cfr. M. Belpoliti, Note ai testi: La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 1423.
14 Cfr. E. Ferrero, La fortuna critica, in Un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Einaudi, Torino, 1997, p. 313; M. Belpoliti, Note ai testi: La tregua, in P. Levi, Opere, Einaudi, Torino, 1997, t. I, p. 1423; F. Vincenti e insieme a loro tanti altri.
15 E. Ferrero, La fortuna critica, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, op. cit., p. 313.
16 Idem, p. 315.
del testo. La parte dell’opera dedicata ai racconti del ritorno, all’odissea del ritorno è in qualche modo risucchiata dalle soglie del testo in cui il narratore, e dietro alle sue spalle il lettore, è portato a fare i conti con i resti del Lager, siano essi reali o simbolici.
Con il titolo La tregua il libro esce presso Einaudi nell’aprile 1963 e a differenza di quanto era stato per Se questo è un uomo in una collana specificatamente letteraria, «I coralli», benché in un primo momento si fosse pensato alla stessa collana «I saggi»,13 in cui era uscito Se questo è un uomo nel 1958. Sulla copertina campeggia un disegno di Marc Chagall e sulla quarta una fotografia di Levi è accompagnata da una presentazione non firmata, ma attribuita unanimemente14 a Italo Calvino. È subito un successo, sostenuto e commentato puntualmente dalla critica.
Non soltanto Italo Calvino presenta il libro e mette a fuoco intimità e distanza tra Se questo è un uomo e La tregua: "libro del ritorno, Odissea dell’Europa tra pace e guerra, [...] seguito di Se questo è un uomo", La tregua è una "storia movimentata e variopinta d’una non più sperata primavera di libertà", segnata tuttavia dalla nota "d’una stretta d’angoscia, d’una non più medicabile tristezza".
Non soltanto Franco Antonicelli, primo editore e amico che aveva ascoltato Levi raccontare il suo ritorno, già il 20 marzo, ancor prima che il libro arrivasse in libreria, è pronto a segnalarlo su «La Stampa», "probabilmente per averlo letto in bozze."15 Dopo aver ricordato l’importanza di Se questo è un uomo, Antonicelli si sofferma sulla Tregua che definisce certo come la "continuazione" del primo libro: "dopo una piccola Iliade, una piccola Odissea, dopo la guerra, il nostos, il ritorno." E tuttavia si chiede: "si poteva continuare un libro come il primo? Non doveva in quel senso, restare Levi l’autore di un solo libro?" e risponde che La tregua non è "una semplice appendice", ma un libro autonomo, pervaso da "un senso interno e unitario [...] il senso di un’incredibile tregua nella storia del mondo." È così che "il torrente di umanità in cui lo scrittore pesca ricordi che vanno dalla macchietta al personaggio", quel "pieno di vita e di tumultuosa vitalità" convive con un finale profondamente disperato. E se Antonicelli coglie qui un modo per "evocare l’angoscia e l’allarme del nostro duro tempo di paura e di spasimante incertezza", si chiede anche perché l’incontro con quelle "migliaia di esistenze incontrate, multiformi ma tutte protese verso una sempre più ampia e più certa liberazione, non debba insegnare a rassicurare che la liberazione non è un termine finale, ma un’ «opera in progresso», una conquista durante il cammino e un cammino che non cessa mai?"
È soprattutto importante, nella scia di Ernesto Ferrero, ricordare che già nell’aprile Paolo Milano recensisce La tregua per «L’Espresso»; ed è una recensione significativa poiché la rubrica di Milano "costituisce uno dei più autorevoli barometri critici dell’epoca".16 L’attenzione e le lodi espresse da Milano ci inducono a sottolineare quanto, a differenza di Se questo è un uomo, La tregua si inserisca nel contesto in cui esce, si integri nell’orizzonte d’attesa dei lettori. Anche Milano, come già Calvino e Antonicelli, prende le mosse a partire da Se questo è un uomo, libro considerato "indispensabile", vale a dire frutto dell’urgenza per un sopravvissuto di rendere testimonianza del passato "inducendo gli altri, noi tutti, a dividerne con lui la coscienza e il ricordo". La tregua, uscito a "tanti anni di distanza", a Milano sembra nascere invece da un’altra urgenza, da un fardello dell’uomo che è tornato: "Primo Levi si deve essere chiesto se si può dire che la vita sua e quella di tutti sia tornata normale". Il "quesito" che muove lo
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17 Idem, p. 318.
18 P. Levi, Conversazioni e interviste, op. cit., p. 102
19 C. Paladini, A colloquio con Primo Levi, in Lavoro, criminalità, alienazione, a cura di P. Sorcinelli, op. cit., p. 155.
20 C. Angier, Il doppio legame, op. cit., p. 517.
21 P. Levi, Conversazioni e interviste, op. cit., p. 102
scrivere di Levi e il suo libro ancora una volta quindi "riguarda tutti [,] verte sul senso da dare a questi nostri anni di tregua" e implica la consapevolezza che la nostra riconquista dell’umano, l’insediamento della vera pace, dipende dalla profondità con cui avremo esplorato gli abissi di ieri e dalle conseguenze che ne avremo tratto." Milano, dopo aver apprezzato il talento del narratore nel ritrarre le figure dei "compagni di odissea", gli abitanti dei paesi attraversati e gli uomini dell’Armata Rossa, sottolinea nella scrittura la cadenza del moralista, tanto che propone di pensare alla Tregua come a una piccola antologia di commenti sul carattere umano, "tanto più preziosa in quanto la sensibilità etica vi si sposa a un gusto dell’indagine in certo modo scientifica". La recensione che si era aperta ricordando come Primo Levi "scrive solo quando la vita lo porta a scrivere", si chiude su un apprezzamento senza esitazioni del libro, il cui massimo interrogativo resta "quale è una vita degna dell’uomo?", e del suo autore, scrittore che dà il meglio di sé alle prese con la storia e capace di resistere alla tentazione di luoghi comuni.
Non seguiamo qui puntualmente le altre recensioni e ci limitiamo, insieme a Ernesto Ferrero, a notare che dopo la presentazione di Calvino, le recensioni di Antonicelli e di Milano "il tono era dato, e gli interventi successivi proseguono sulla stessa linea, tra sincero apprezzamento e perplessità un poco sgomenta per la chiusa sospensiva del libro, che reintroduce un elemento di attesa angosciante".17 Ricordiamo invece che ai primi di luglio La tregua si classifica al terzo posto al Premio Strega, dopo Natalia Ginzburg e Tommaso Landolfi e, in settembre, ottiene il Premio Campiello nella sua prima edizione. La tregua segna così l’ingresso ufficiale di Primo Levi nel mondo letterario ed è innanzitutto lo stesso Levi ad esserne consapevole. Nell’agosto del 1963, prima ancora del Campiello, ma quando già si è classificato allo Strega, Levi osservava infatti che questa nomina "comunque, è stato il mio primo ingresso nel mondo letterario in carne ed ossa".18 E molti anni dopo, nel 1986, a colloquio con Carlo Paladini, ripensando ai suoi due primi libri commentava che il secondo aveva avuto "una funzione notevole. Mentre Se questo è un uomo ha avuto discussione ma non ha mai vinto nessun premio, La tregua appena uscito ha avuto un premio letterario, il premio Campiello; e questo ha avuto un effetto retrogrado, cioè sono aumentate le vendite del primo."19 Secondo Carole Angier, "la pubblicazione [della Tregua], gli portò il cambiamento più grande di tutti: la fama. [...] dopo La tregua né lui né l’establishement letterario riuscirono ad arginare [la sua notorietà]":20 Primo Levi faceva parte ormai del mondo delle lettere anche se, dice Levi, "mi sono accorto di essere un corpo estraneo".21
Non dimentichiamo allora che, dopo La tregua, anche Se questo è un uomo passa in una collana prettamente letteraria e che di entrambe le opere esce l’edizione per le scuole e, a questo punto, proviamo a chiederci come Levi ha vissuto questo suo secondo libro.
La tregua nella storia di Primo Levi
A questo proposito vanno innanzitutto interrogate le interviste, che proprio dopo La tregua cominciano ad essere sollecitate con frequenza sia per grandi che piccoli giornali, sia da affermati che giovani intervistatori. E tuttavia più utile ancora credo sia la Presentazione all’edizione scolastica del libro, che esce per l’Einaudi nel 1965 a cura dello stesso Levi (si noti che questa edizione esce ben prima dell’edizione scolastica di Se questo è un uomo, pubblicata
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22 Oltre che in P. Levi, La tregua, Presentazione e note a cura dell’autore, Einaudi, Torino,1965, la Presentazione si può leggere in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., Pagine Sparse: "Prefazione all’ed. scolastica di La Tregua", pp. 1141-145. È da qui che sono tratte le citazioni che seguono e che non vengono segnalate in modo specifico.
23 È questo il titolo di una conferenza tenuta da Levi nel 1976, ora in P. Levi, Opere, t. I, Pagine sparse: "Lo scrittore non scrittore", pp. 1202-1207.
24 P. Levi, Conversazioni e interviste, op. cit., p. 105.
solo nel 1973).22 Qui Levi racconta il suo diventare scrittore senza averlo mai deciso o voluto, ma perché "condotto da una lunga catena di avvenimenti". È così che ripercorriamo la storia di quel chimico che diventerà "scrittore non scrittore"23 per raccontare agli altri il passato vissuto. È così che rivediamo nascere Se questo è un uomo da un bisogno imperioso di raccontare "la non comune esperienza che mi era toccata in sorte", di non lasciare giacere i ricordi come un "incubo", ma trasformarli in storia da far conoscere "non solo [a]gli amici, ma [a] tutti, [a]l pubblico più vasto possibile". È così che possiamo ripensare alla scrittura di Se questo è un uomo che ha coniugato insieme "furia" e "metodo", che ha travolto il tempo accanto al lavoro e si è manifestata "senza sforzo e senza problemi, con soddisfazione e sollievo profondi e con l’impressione che quelle cose si scrivessero da sole, trovassero in qualche modo una via diretta dalla mia memoria alla carta." È così che vediamo nascere La tregua non come "necessità di raccontare", ma come piacere di raccontare il tessuto multiforme del quotidiano.
Questa esperienza nuova, così estranea al mondo del mio lavoro quotidiano, l’esperienza dello scrivere, del creare dal nulla, del cercare e trovare la parola giusta, del fabbricare un periodo equilibrato ed espressivo, era stata per me troppo intensa e felice perché non desiderassi ritentare la prova. Avevo ancora molte cose da raccontare: non più cose tremende, fatali e necessarie, ma avventure allegre e tristi, paesi sterminati e strani, imprese furfantesche dei miei compagni di viaggio, il vortice multicolore e affascinante del dopoguerra, ubriaca di libertà e insieme inquieta nel terrore di una nuova guerra.
Primo Levi si è fatto scrittore per necessità e crea un narratore nella cui prima emissione di voce sono contenuti in nuce o, forse meglio, implicati e sottesi tutti quei temi che saranno poi resi storie dal gusto di raccontare, dalla sapienza narrativa scoperta e forgiata dal sopravvissuto che si è fatto scrittore per l’urgenza di testimoniare.
Da una parte è facile quindi capire che non può che essere provvisoria la sensazione provata da Levi, una volta finita La tregua: gli sembra di non avere più nulla da dire sui campi sterminio, di non avere più intenzione di scrivere nulla sull’universo concentrazionario,24 come se il narratore nato con Se questo è un uomo potesse essere messo a tacere, come se quel suo primo atto di discorso non implicasse una vita di racconto.
Dall’altra parte è altrettanto facile capire quanto La tregua non [È -sia-] il libro necessario del sopravvissuto, bensì il frutto della necessità di raccontare scoperta dal sopravvissuto diventato scrittore, cioè malgrado se stesso.
Credo si distingua agevolmente che [il libro] è stato scritto da un uomo diverso: non solo più vecchio di quindici anni, ma più pacato e tranquillo, più attento alla tessitura della frase, più consapevole: insomma più scrittore in tutti i sensi buoni e cattivi del termine. Eppure, scrittore non riesco a considerarmi, neppure oggi [...]
Possiamo trascurare in questa circostanza la fiera insistenza di Levi nel sottolineare la sua non completa aderenza alla figura dello scrittore e nel ribadire la sua estraneità al dal fare letteratura per la letteratura, ma notiamo piuttosto che egli ci induce a rilevare una continuità tematica che lega il suo primo al secondo libro, ma anche una discontinuità di fabbricazione che dipende dallo scrittore e non dal narratore e che incide sulla tessitura, sullo stile del libro.
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25 P. Levi, "Lo scrittore non scrittore", in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., Pagine Sparse, p. 1204.
26 Così si legge nella quarta di copertina. Cfr. M. Belpoliti, Note ai testi: Storie naturali, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 1433.
27 Idem, pp. 1434-1435.
28 G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano, 1992, pp. 39-40
Aggiungiamo che nella conferenza significativamente intitolata "lo scrittore non scrittore", tenuta nel 1976, vale a dire dopo l’uscita e il successo anche del Sistema periodico, Levi marca una cesura dopo Se questo è un uomo:
avevo in mano uno strumento nuovo, fatto per pesare, dividere, per verificare; simile a quelli del laboratorio, ma agile, svelto, gratificante. Avevo raccontato, perché non farlo ancora? Il germe dello scrivere mi era entrato nel sangue. Così è nata La tregua, dove ho raccontato il ritorno da Auschwitz..25
Se è d’obbligo notare che la conferenza "lo scrittore non scrittore" può utilmente essere letta come riflessione di poetica, concentriamo qui la nostra attenzione per rilevare che la distanza tra Se questo è un uomo e La tregua colta da Levi, tanto rivolgendosi ai ragazzi di scuola che a un pubblico adulto e eterogeneo, non deve [PERò] far dimenticare quell’intimità tra i due libri di cui l’uscita del terzo è una dimostrazione lampante. Nel 1966 Storie naturali, raccolta di quindici "divertimenti di fantascienza",26 esce sotto uno pseudonimo (Damiano Malabaila) e nel risvolto di copertina l’autore dichiara:
io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio dei libri seri, dedicati a un pubblico serio. Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo [...] non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?27
Di più, sempre nel 1976 ma a Berna, in una conferenza sul tema Esperienze di uno scrittore, Levi giustifica l’adozione dello pseudonimo con il "disagio" e il "senso del timore" provato presentandomi "davanti ai suoi amici ex-deportati con un’altra pelle", proprio perché i primi due libri legati alla e dalla "tematica del Lager" erano stati vissuti "(giustamente)" come "libri collettivi, come i loro libri".28
A questo punto, possiamo tentare di delineare l’interazione tra l’intimità e la distanza che lega La tregua a Se questo è un uomo per determinare il suo posto nella storia della scrittura di Levi.
L’unità tematica per cui La tregua è il seguito di Se questo è un uomo e si apre rimodulandone la fine (o se preferite raccontandone di nuovo l’ultimo capitolo) si sostanzia nella permanenza del tema dell’offesa, introdotta nel mondo dalla guerra in generale e dall’esistenza dei campi in particolare, e si sviluppa in una continuità strutturale determinata dalla figura del narratore che trasmigra dal primo al secondo libro.
Da una parte, nella Tregua il tema dell’offesa si declina come questione dell’eredità dell’offesa, chiaramente posta dal narratore nelle prime e ultime pagine del libro e ripresa, attraverso la minuzia delle note per l’edizione scolastica, lungo tutto il corso della narrazione.
Dall’altra parte, nell’analogia formale, per cui il secondo come il primo libro sono formati da diciassette capitoli in grado di costruire ciascuno un racconto autonomo, si deve certo leggere - (come in più occasioni ha sottolineato Marco Belpoliti - quell’arte del racconto che caratterizza lo scrittore Levi, ma è altrettanto importante rilevare il ritorno della stessa figura di narratore. Si tratta di un narratore extradiegetico e autodiegetico, dal nome "Primo Levi" che inizia a raccontare quando ormai la storia che racconta è già conclusa: il suo atto narrativo si pone quindi fuori dalla diegesi, benché vi sia implicato come personaggio. La coincidenza tra il suo nome e quello dell’autore radica la sua storia nella realtà extratestuale e stipula con il lettore un patto autobiografico. Tale patto non si risolve però nella
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29 Cfr. H. Weinrich, Le temps, Seuil, Paris, 1973, in particolare cap. 2: "Monde commenté, monde raconté"
30 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, "Il Narratore", pp. 273-274.
31 Si rimanda qui alla distinzione di H. Weinrich tra "monde commenté" e "monde raconté", cfr. H. Weinrich, Le temps, op. cit., p. 25-65
32 P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 206.
33 idem, p. 370.
costruzione di una vera e propria biografia, ma funziona come garanzia dell’impegno della sua responsabilità sulla storia raccontata e di fronte al lettore. Per tutto questo, se il narratore coincide con l’autore ed è presente nella storia in quanto personaggio, egli però non è il protagonista della storia, ma colui che è ritornato e la racconta assumendosene la responsabilità di fronte agli altri, perché può rispondere dell’esperienza passata diventata attraverso di lui racconto sulla base della propria esperienza personale. I libri in cui lo sentiamo raccontare gravitano quindi all’interno dello spazio autobiografico, ma restano appunto "libri collettivi". Se è questo il tipo di narratore che aveva iniziato a raccontare in Se questo uomo, quando ritorna nella Tregua non è più frutto della scrittura del giovane bisognoso di raccontare agli altri la sua storia di malefizi, ma di quel giovane ormai diventato adulto, capace di pacatezza e consapevole della propria arte di raccontare. Scompare quindi dal parlare del narratore l’urgenza che lo induce a interpellare direttamente il narratario/lettore come qualcuno che ascoltando la storia narrata è chiamato a imparare a raccontarla a sua volta; scompare l’uso del presente per raccontare un passato che ancora pesa sul presente e lo interroga.29 Si va invece precisando e imponendo la voce del narratore il cui "talento è la vita; la dignità quella di saperla narrare fino in fondo" e in cui riconosciamo "l’uomo che potrebbe lasciare consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto":30 il narratore della Tregua infatti non interpella mai direttamente il suo narratario/lettore e poche sono le volte in cui usa il presente per raccontare il passato, poiché il passato che racconta non è "mondo commentato", ma "mondo raccontato".31 Il narratore di Se questo è un uomo ritorna a raccontare nella Tregua, più che per continuare a portare testimonianza, per fare del passato una storia da raccontare in grado di acclimatare e fare eco a quella sua prima emissione di voce e per contrastarne l’affievolimento.
Per questo, credo che non sia corretto leggere La tregua come opera di testimonianza, ma sia necessario considerarla il racconto in cui il testimone narra il proprio viaggio di ritorno verso il mondo degli uomini liberi all’interno del quale si è compiuto il suo atto di testimonianza. Per questo, ritengo che nella Tregua il tema del ritorno, declinandosi, si rifranga in un duplice tema: il ritrovamento dei rapporti umani che presuppongono un io di fronte a un tu indispensabili perché ci sia dialogo, ci sia racconto e, d’altra parte, la consapevolezza crescente dell’irreparabilità dell’offesa introdotta nel mondo e che rischia di condannare alla solitudine il testimone e la sua storia. Si tratta a questo punto di addentrarsi nella struttura del racconto per verificare come questo duplice tema diventa il motore della narrazione.
La tregua e la sua struttura
La tregua, come abbiamo detto, è costituta da diciassette capitoli che possono essere agevolmente suddivisi in due blocchi: da una parte i primi due, Il disgelo e Il Campo Grande, e l’ultimo, Il risveglio, in cui viene chiaramente posto il tema dell’eredità dell’"offesa",32 dall’altra quelli centrali, dal terzo, Il greco, al sedicesimo Da Iasi alla Linea, che ricostruiscono il viaggio di ritorno, il "viaggio all’in su".33 I due blocchi non mancano di momenti di intersezione, anzi è proprio la loro articolazione che determina la specificità del racconto.
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34 Idem, p. 246, e ed. scolastica nota 3, p. 69.
35 Idem, pp. 309-310 e ed. scolastica nota 1, p. 157.
36 Idem, p. 311 e ed. scolastica nota 1, p. 159.
37 Idem, p. 389 e ed. scolastica nota 1, p. 257.
38 Idem, p. 268.
39 Idem, p. 308.
40 Idem, p. 362. La nota tende forse a disancorare il passaggio dal tema dell’eredità dell’offesa, ma a noi pare invece un chiaro rimando a questo tema, anzi quasi anticipazione della lunga nota finale che chiude il libro su cui ci siamo già fermati.
41 Cfr. idem, il capitolo Il disgelo per esempio, p. 206: "Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rossi e puerili sotto pesanti caschi di pelo"
42 Cfr. idem, p. 208: "Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso [...] Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce e ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà"
43 Nel capitolo Il campo grande, pp. 212-213.
44 Idem, p. 215.
45 Cfr. il capitolo Il risveglio, pp. 393-394: "Il giorno seguente il treno discese su Innsbruck, e qui si riempì di contrabbandieri italiani, i quali, nella carenza delle autorità costituite, ci portarono il saluto della patria, e distribuirono generosamente cioccolato, grappa e tabacco."
46 Cfr. idem, p. 395: "E ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò le due dita enormi e nodose, e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici, augurandoci un buon ritorno e ogni bene. L’augurio ci fu grato, poiché ne sentivamo il bisogno."
47 Ibidem.
48 Cfr. idem, per esempio: pp. 293-294 legandolo ai sogni, p. 299 che si trasforma in inquietudine, frustrazione o terrore a p. 305 e a p. 370 all’annuncio della partenza da Staryje Doroghi, si noti il "ma" avversativo del paragrafo.
Ricordiamo quindi che è lo stesso Levi in qualità di curatore dell’edizione scolastica a segnalare per almeno quattro volte l’emergere del tema dell’eredità dell’offesa: di fronte ai vagoni merci carichi di prigionieri tedeschi alla periferia di Cracovia,34 di fronte alle tradotte delle donne ucraine costrette all’esilio dall’occupante nazista e ora di ritorno "sotto il peso della vergogna [...] senza gioia ne speranza,35 di fronte al "genio della distruzione" visibile nel saccheggio delle caserme in cui è ospitato il campo di raccolta di Sluzk,36 di fronte a "Vienna sfatta" e ai "tedeschi piegati".37 A questi passi possiamo aggiungere almeno la vista di Katowice distrutta dal passaggio della linea del fronte,38 l’incontro con i militari della Wehrmacht prigionieri e striscianti, che chiedono pane,39 il "sogno collettivo [...] che vapora dall’esilio e dall’ozio" suscitato dal numero il Cappello a tre punte.40
Aggiungiamo d’altra parte che nei primi capitoli il tema del "viaggio all’in su" si propone innanzitutto come nuovo rapporto instaurato con i soldati russi41 e i compagni di Lager, in particolare nell’episodio di Thylle pur se intriso da una pesante consapevolezza e una profonda tristezza,42 come passaggio simbolico di fronte a un nuovo bagno, che non era però un "bagno di umiliazione",43 e come ripresa della vita che "ricominciava a scorrere tumultuosamente".44 Nell’ultimo capitolo ancora come fatica del treno in salita verso il passo del Brennero, accoglienza dei contrabbandieri italiani,45 attesa angosciosa del ritorno a casa e saluto fraterno dell’astioso compagno di viaggio, il Moro di Verona,46 e, a casa, come il ricongiungimento con "gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare."47
Precisiamo che l’articolazione dei due blocchi sostanzia la forte anticipazione espressa dal narratore nel capitolo che apre il "viaggio all’in su" ( il terzo, Il greco) e introduce la tensione tra ritorno sognato e ritorno effettivo, che a sua volta implica quella tra reale e immaginario, destinata a ritornare più volte nel corso della narrazione.48
Avevamo sperato in un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci, verso un surrogato accettabile delle nostre case; e questa speranza faceva parte di una ben più grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente ristabilito sulle naturali fondamenta dopo un’eternità di stravolgimenti, di errori e di stragi, dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua, come tutte quelle che riposano su tagli troppo netti fra il male e il bene, fra il passato e il futuro: ma noi ne vivevamo. Quella prima incrinatura, e le molte altre inevitabili, piccole e grandi, che seguirono, furono per molti di noi occasione di
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49 Idem, pp. 229-230.
50 Suggerita anche da M. Belpoliti (cfr. Note al testo: La tregua, in P. Levi, Opere, t.I, p. 1421), la ritroviamo esplicitamente a p. 226 e a p. 314 (declinata come "turbine") e ritorna implicitamente nelle descrizioni dell’organizzazione russa del trasferimento degli italiani da rimpatriare.
51 Idem, p. 242.
52 Idem, p. 245.
53 Idem, p. 394.
dolore, tanto più sensibile quanto meno previsto: poiché non si sogna per anni, per decenni, un mondo migliore, senza raffigurarlo perfetto.
Invece no: era avvenuto qualcosa che solo pochissimi savi tra noi avevano previsto. La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta: ma non ci aveva portati la Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure.49
Infine è da notare che a legare la tessitura del racconto e a annodare i due blocchi tematici al filo unitario della narrazione sono in azione almeno due isotopie: quella del "guerra è sempre" e quella dello "sguardo".
La prima è piuttosto circoscritta e forse non si può definire una vera e propria isotopia: essa emerge in relazione alla scelta del titolo e al significato ad esso attribuito, mentre è sicuro che la permanenza del titolo Vento alto avrebbe probabilmente messo in evidenza quella del "caos".50 È significativo però notare che l’isotopia "guerra è sempre" emerge nel capitolo Il greco quale filosofia di vita e insegnamento che Mordo Nahum dispensa all’io narrante e riemerge qualche pagina dopo come commento all’esperienza vissuta direttamente da quello stesso io narrante.51 A Trzebinia, sulla via di Katowice, il treno si ferma e il narratore, scendendo, si accorge di essere forse "uno fra i primi vestiti da "zebra" a comparire in quel luogo" e si trova attorniato da un "fitto cerchio di curiosi che lo interrogavano". Da questo gruppetto esce "un borghese [...] un avvocato" che si pone come interlocutore e interprete: "Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. [...] L’avvocato traduceva in polacco" e il narratore, benché non sappia il polacco, sa come si dice in questa lingua la parola "ebreo" e si accorge che l’avvocato nella sua traduzione la rendeva con la parola "politico". "Stupito e quasi offeso" chiede quindi spiegazioni: "C’est mieux pour vous. La guerre n’est pas finie – Le parole del greco. Sentii l’onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra gli uomini, del sentirsi vivo rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco, al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre."52 A partire da questo momento, a partire dall’inizio del viaggio all’in su, capiamo che l’isotopia della "guerra è sempre" emerge implicitamente come consapevolezza nelle domande assillanti che preparano il ritorno nel mondo degli uomini liberi. Per esempio potremmo rintracciarla alla fine del testo, là dove, attraversando il Brennero, il narratore si interroga sulla forza necessaria a ritornare
Dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà?53
L’isotopia dello "sguardo" irradia invece tutto il racconto, tanto che potremmo dire che La tregua è il romanzo della riconquista dello sguardo, dell’esercizio dello sguardo dopo l’esperienza di Auschwitz, passata con gli occhi puntati per terra in una sospensione di sguardi. Non possiamo qui riprendere i tanti, tantissimi luoghi in cui l’isotopia riemerge e ci limitiamo soltanto a due osservazioni.
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54 Idem, p. 228.
55 Idem, p. 260.
56 Idem, p.
57 idem, p. 253.
58 Idem, p. 374.
59 Idem, p. 347.
60 Idem, p. 215.
61 P. Levi, Se questo è un uomo, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 168.
62 Per le citazioni, che si potrebbero moltiplicare, idem, p. 24, 64 , 145, 146.
63 Cfr. P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 350-352.
In primo luogo, nell’emergere di questa isotopia vale la pena fissare alcuni punti cardine. La narrazione comincia con uno scambio di sguardi, quello tra i quattro russi della pattuglia dell’Armata Rossa che entra in Auschwitz il 27 gennaio e i prigionieri sopravvissuti:
Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri
Il rapporto con il mondo degli uomini liberi riparte da un faccia a faccia che non è facile sostenere, come dimostrerà di lì a poco il primo incontro con i civili che "ci guardavano con facce chiuse" 54 e poi quello con la popolazione di Katowice che "ci guardava con simpatia".55 Nello stesso tempo, riabitare il mondo da uomini liberi significa scambiarsi degli sguardi divertiti, imbarazzati, impauriti, ma anche ricercare lo sguardo e conoscerne il peso o il rifiuto. Ricorderemo con ilarità gli sguardi scambiati tra l’io narrante, Cesare e la comunità del villaggio sulla strada per Staryje Doroghi;56 riproveremo il turbamento del narratore di fronte allo sguardo di Galina, "ancora quasi infantile, in cui pietà incerta si accompagnava con una definita repulsione"57, preludio delle "ore passate con lei, delle cose non dette, delle occasioni non colte";58 ritroveremo l’apprensione del narratore sotto gli sguardi di curiosità del russo "piccolo e nerboruto" che si avvicina al fuoco e alle "patate organizzate da Cesare".59 Ritroveremo invece tutto il peso della storia di Hurbineck in quel suo sguardo che i sopravvissuti, ormai uomini liberi, non riescono a reggere: "la parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena".60
In secondo luogo, occorre allora di sottolineare che il significato e l’importanza dell’isotopia dello "sguardo" si coglie agevolmente solo se teniamo presente Se questo è un uomo. Lì il narratore raccontava il tempo in cui "l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo".61 Lì il narratore era impegnato in un esercizio dello sguardo che capovolgeva lo sguardo proprio delle SS per ritrovare in ognuno dei "fantocci rigidi fatti solo di ossa", dei "vermi vuoto d’anima" un destino individuale, nel "gregge abbietto", negli uomini "domati e spenti", "curvi e grigi" sulla piazza dell’appello volti e storie singolari.62 Ora, nella Tregua, l’esercizio dello sguardo è diventato esperienza dei personaggi in un mondo che ritorna a vivere dopo il Lager e in quanto tale è raccontata dal narratore. Il riaccendersi tra i personaggi dell’abitudine allo sguardo diventa quindi il segno più tangibile di un cambiamento dopo l’annullamento del rapporto tra uomini che ha caratterizzato il tempo del Lager. Nell’isotopia dello sguardo si tratta allora di cogliere quel ritornare uomini di fronte agli uomini in cui si radica la possibilità di ogni rapporto da uomo a uomo in grado di trasformarsi nell’io e nel tu di una comunicazione a venire. È così che se nell’incontro con Flora risentiamo affiorare la vergogna del tempo senza sguardo del Lager,63 nel passaggio per Monaco sentiamo tutto il bruciore di un’assenza
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64 Idem, p. 206-207.
di sguardo che sembra essere una rimodulazione dell’incubo della narrazione fatta e non ascoltata, preludio o anticipazione della difficoltà a trovare ascolto per la propria storia nel mondo del dopoguerra.
Ci sembrava di avere qualcosa da dire, enormi cose da dire, ad ogni singolo tedesco, e che ogni tedesco avesse da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di scacchi al termine della partita. Sapevano, «loro», di Auschwitz, della strage silenziosa e quotidiana, a un passo dalle loro porte? Se sì, come potevano andare per via, tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di una chiesa? Se no dovevano, dovevano sacramente, udire, imparare da noi, da me, tutto e subito: sentivo il numero tatuato sul braccio stridere come una piaga.
Errando per le vie di Monaco piene di macerie [...] mi sembrava di aggirarmi tra torme di debitori insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa, e rifiutasse di pagare. [...] Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare con umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta [...]
Passiamo ora a considerare separatamente i due blocchi tematici.
Il tema "dell’eredità dell’offesa" è l’eredità di Se questo è un uomo e sottende la necessità di fare i conti con i resti del Lager. Il tema, ricordiamo, è posto esplicitamente nel primo capitolo, Il gelo, proprio in questi termini:
Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo di gioia e di doloroso senso del pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché ed è questo il privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abbietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua in odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come improvvisa ondata di fatica morale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione.64
Tre osservazioni allora si impongono.
Innanzitutto, il primo capitolo non soltanto ci porta a risentire la voce del narratore di Se questo è un uomo, ma costituisce una rimodulazione delle sue ultime pagine. Il narratore della Tregua torna a raccontare l’arrivo dei soldati dell’Armata Rossa, su cui il narratore di Se questo è un uomo chiudeva la sua narrazione; in questo modo non solo si fa riconoscere come lo stesso narratore-personaggio, ma mostra anche la sua attitudine a raccontare di nuovo o, altrimenti detto, l’attitudine dello scrittore alla riscrittura. Non possiamo certo qui approfondire questo tema, ma si tenga presente che la riscrittura è una delle cifre caratterizzanti lo scrittore-testimone Levi e in essa affiora quell’esercizio di memoria che spinge a ritrovare sempre un altro "frammento di mondo" da far diventare racconto e protegge dalla sclerotizzazione in immagini fisse e stereotipate.
In secondo luogo, l’affermazione del tema dell’eredità dell’offesa è del narratore che dà parole a un sentimento provato in modo confuso dai personaggi. La consapevolezza dell’offesa appartiene al dopo, non al prigioniero, non al sopravvissuto appena liberato, ma all’uomo ormai libero, che si è confrontato con la vita dopo il Lager.
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65 Così è segnalato e firmato l’articolo Deportati anniversario apparso nell’aprile del 1955 su «Torino, rivista della città e del Piemonte», n. 4, ora in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., pp. 1113-1115.
66 P. Levi, Il sistema periodico, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p.
67 P. Levi, Deportati anniversario, in «Torino, rivista della città e del Piemonte», n. 4, aprile 1955, ora in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 1113. Tutte le altre citazioni che seguono sono tratte dallo stesso articolo.
Infine è necessario ricordare che nella prima metà del 1955, il "prof. Primo Levi",65 allora scrittore di un libro che a lui "sembrava bello, ma nessuno leggeva",66 era stato incaricato dal comitato torinese per la celebrazione del decennale della liberazione di scrivere un pezzo per il numero speciale della rivista «Torino, rivista mensile della città e del Piemonte». In quella circostanza Levi con fermezza denunciava il silenzio che, a dieci anni dalla liberazione dei Lager, era caduto sull’argomento: "è triste, ma significativo dover constatare che almeno in Italia l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla più completa dimenticanza".67 Constatava con chiarezza che "dei Lager, oggi, è indelicato parlare" e quindi si interrogava sulla necessità di testimoniare e sulle ragioni del silenzio. Dopo aver esplorato il silenzio "frutto di coscienza malsicura, o addirittura cattiva coscienza", Levi passava quindi ad analizzare un altro silenzio, "il silenzio del mondo civile, il silenzio della cultura, il nostro stesso silenzio" e qui emergeva il tema dell’offesa declinato come vergogna provata di fronte all’offesa commessa (quella che il narratore di La tregua leggerà nei visi dei russi alla vista dei resti di Auschwitz).
[Questo silenzio] non è dovuto solo alla stanchezza, al logorio degli anni, al normale atteggiamento del "primum vivere". Non è dovuto a viltà. Vive in noi una istanza più profonda, più degna, che in molte circostanze ci consiglia di tacere sui Lager, o quanto meno di attenuarne, di censurarne le immagini, ancora così vive nella nostra memoria.
È vergogna. Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera.
Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?
Negli anni 60, sappiamo, l’attenzione portata alla deportazione e i campi cambia: ne sono sintomi sia la "rinascita" einaudiana di Se questo è un uomo che il successo delle serate d’incontro tra giovani e deportati del dicembre del 1959. Tuttavia, nella decisione di Levi di riproporre questo tema in un libro dall’andamento picaresco e di sottolinearlo con la scelta del titolo La tregua crediamo doveroso leggere l’ombra dell’incubo di non essere ascoltati e la consapevolezza dei rischi di ritualizzazione impliciti e connessi a un ruolo sempre più centrale e mediatico del testimone e della sua storia: essere lasciati parlare o chiamati a parlare, sembra ricordare Levi, non coincide automaticamente con il venire ascoltati.
A questo punto, ci resta da osservare che il blocco tematico "dell’eredità dell’offesa" consente almeno tre piste di accesso che sono altrettante suggestioni di lettura.
In primo luogo, questo blocco tematico propone esplicitamente di fare i conti con i resti di Auschwitz, materiali e simbolici.
Da un punto di vista storico, può risultare interessante soffermarsi sull’arrivo dei Russi e, partendo dalla lettura del faccia a faccia con i soldati dell’Armata Rossa e della descrizione del campo (pp. 205-207 + 209-211 +, al limite, 212-214), considerare il 27 gennaio 1945 e ricostruire la storia dello choc provato dai liberatori. Si potrà così constatare come la liberazione del campo di Auschwitz, se è oggi per noi una data significativa e parlante, all’epoca
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68 Si suggerisce a questo proposito la consultazione del catalogo La memoria dei campi a cura di C. Cheroux (2001) e di quello La libération des camps et le retour des déportés : l'histoire en souffrance, a cura di Marie-Anne Matard-Bonucci et Edouard Lynch (1995)
69 P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 215.
70 Idem, p. 216.
71 Ibidem.
non fece "notizia": se apparve qualche breve trafiletto nella stampa francese, nel nostro paese non furono i giornali dell’Italia liberata a darne notizia, ma inavvertitamente la notizia trapelò sulla prima pagina di un giornale controllato dalla censura della Repubblica di Salò come il Corriere della sera (29 gennaio 1945). Questo articolo rendeva conto dei combattimenti lungo la linea del fronte e resta per noi oggi la prova di come Auschwitz fosse allora per la società civile "una parola priva di significato". Si dovrà certo ricordare che Auschwitz non fu il primo campo ad essere trovato dagli alleati, benché la sua "liberazione" impose per la prima volta ai russi di fare i conti non solo con i resti dello sterminio (come era già successo per esempio a Majdanek), ma anche con i sopravvissuti (i pochi abbandonati nella precipitazione della evacuazione perché malati). Sarà però soprattutto interessante considerare insieme ai ragazzi quanto la liberazione dei campi diventi fenomeno mediatico soltanto dall’aprile del 1945 per una scelta politica precisa. George Patton e Dwight Eisenhower visitano il campo di Ohrdruf, sotto campo di Buchenwald, il 12 aprile: l’uno è preso da malore, l’altro dichiara di non aver mai provato uno choc così profondo e decide che "tutto il mondo deve sapere". A partire da quel momento i giornali del mondo libero si riempiono di immagini dei campi e credo possa essere interessante studiare con i ragazzi l’uso e gli effetti che questa emorragia di immagini provoca nella costruzione della consapevolezza collettiva dell’esistenza dei campi.68
Dal punto di vista letterario può dimostrarsi interessante concentrarsi sul discorso di Olga che, nel secondo capitolo, porta testimonianza di fronte al narratore-personaggio della fine dei passeggeri del suo vagone e di Vanda in particolare (pp. 223-224). Si tratta del riassunto che il narratore fa di un racconto nel racconto (un racconto di secondo grado, metadiegetico), che noi lettori non sentiamo pronunciare direttamente dal narratore intradiegetico, Olga, di cui tuttavia vediamo descritti l’attitudine e il portamento assunti nell’atto narrativo. Questo racconto di secondo grado rimanda direttamente a Se questo è un uomo e permette di porre l’attenzione su come la voce del testimone sia attraversata dalle voci degli altri per cui esso testimonia. Sarà quindi necessario andare a recuperare il passaggio di Se questo è un uomo dedicato all’arrivo del convoglio partito il 22 febbraio da Carpi (p.10 "Con l’assurda precisione..."-15 "più nulla") e osservare come nella Tregua compaia il nome di Vanda, nome allora taciuto, e la donna acquisti con il nome anche un volto. La scrittura lavora sulla memoria e la storia si tesse attraverso la sovrapposizione dei racconti che incitano ad un esercizio continuo della memoria.
La seconda pista di lettura all’interno del primo blocco tematico propone di concentrarsi sulla figura del narratore-testimone. Si tratta di addentrarsi nel passaggio forse più letto e struggente della Tregua, quello dedicato alla figura di Hurbinek, "un figlio della morte, un figlio di Auschwitz".69 La storia di Hurbinek è la storia degli ultimi giorni di vita di un bimbo che "non sapeva parlare e non aveva nome", probabilmente nato nel Lager e che "morì ai primi giorni di marzo del 1945, libero ma non redento".70 Nelle brevi pagine che gli sono consacrate (pp. 215-216), il narratore di fronte alla sua storia e a noi lettori si assume esplicitamente il compito di testimone perché "nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole".71 Con questo passaggio a livello extradiegetico, il narratore rivendica il suo ruolo di testimone davanti al lettore affinché la storia di Hurbinek non vada persa e, nello stesso tempo, introduce la questione della testimonianza come un raccontare in conto di terzi, per dare volto e storia a
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72Idem, p. 370.
73 P. Levi, La tregua, ed. scolastica 1963, p. 233.
quanti la logica del Lager ha distrutto. Non soltanto quindi la voce del testimone si carica del peso della storia degli altri, ma la sua urgenza, la sua necessità si radica nella storia degli altri per cui egli comincia a raccontare. Gli altri popolano la voce del narratore che, come insegna con l’episodio di Hurbinek, non intende comunicare una rivelazione, ma raccontare la storia di uomini e di donne che vissero e morirono, per farne una storia da condividere con altri uomini e donne.
Ed arriviamo così all’ultima suggestione di lettura. L’ultimo, breve, capitolo, Il risveglio, (pp. 392-393) e in questo in particolare l’incontro con i tedeschi (pp. 392-393) e il ritorno alla vita con "la gioia liberatrice del racconto" (p. 395) ci permettono di considerare quanto la voce del testimone non soltanto sia attraversata dalla voce degli altri, ma abbia bisogno degli altri per realizzarsi in quanto testimonianza. La testimonianza in quanto atto narrativo in cui il narratore impegna, di fronte agli altri, la propria responsabilità sulla storia che racconta ha bisogno di una risposta in eco che la certifichi e l’accrediti in mezzo alla collettività alla quale il testimone si rivolge. Senza una risposta in eco da parte dell’interlocutore, ogni sforzo del testimone per strappare le parole al silenzio naufraga: il passato non diventa storia da condividere e assumere collettivamente, ma resta esperienza privata, costretta nella singolarità del dolore di chi lo ha vissuto. A questo proposito può essere interessante recuperare l’episodio del sogno della narrazione fatta e non ascoltata in Se questo è un uomo, ma anche corredarne la lettura con un approfondimento esterno e filosofico rinviando a Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio (Seconda parte, Capitolo I, Paragrafo III, La testimonianza).
Passiamo ora a considerare il tema "del viaggio all’in su": esso è il capovolgimento di Se questo è un uomo e segue l’apprendistato dei sopravvissuti nel mondo ritrovato degli uomini liberi. Il tema è posto esplicitamente nel quindicesimo capitolo, Da Staryje a Iasi, in questi termini:
Avevamo resistito, dopo tutto: avevamo vinto. Dopo l’anno di Lager, di pena e di pazienza; dopo le malattie e la miseria di Katowice; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso agli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque in viaggio all’in su, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi, e questo poneva fine al torpore della lunga estate, alla minaccia dell’inverno prossimo, e ci rendeva impazienti, avidi di giorni e di chilometri.72
È lo stesso Levi a far notare nell’edizione scolastica che
queste immagini si ricollegano all’altra, di «giacere sul fondo», che segna tutte le pagine del primo libro di Primo Levi, Se questo è un uomo di cui La tregua, come si è detto, è seguito e risoluzione. Cfr. Se questo è un uomo, ediz. 1963, pp. 16 e 29.73
Se il tema dell’"eredità dell’offesa" tesse la continuità con Se questo è un uomo, quello del "viaggio all’in su" segna lo scioglimento della storia che là si racconta.
Non bisogna dimenticare che tra i titoli pensati per Se questo è un uomo figurava Sul fondo e che Sul fondo è il titolo del secondo capitolo di quel libro, che segue Il viaggio e precede Iniziazione. Il capitolo Sul fondo funge da soglia all’ingresso nella vita del campo e, se consideriamo che il capitolo Iniziazione è stato aggiunto nel 1958, quasi ad allungare il tempo d’ingresso nel racconto della vita del Lager, possiamo dire che lì si compie il rito di iniziazione dei prigionieri.
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74 P. Levi, Se questo è un uomo, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., pp. 20-21.
75 Idem, p. 21.
76 Idem, p. 30.
77 A questo proposito, credo possa essere interessante suggerire la lettura di Se questo è un uomo come un romanzo di formazione a rovescio, nel quale l’apprendistato del narratore-personaggio alla vita del campo diventa il filo rosso con cui il lettore si addentra nella conoscenza del Lager.
È qui che avviene descritta la doccia, la rasatura dei capelli, l’assegnazione dei nuovi vestiti:
Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinnanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi [...]
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e si ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo saremo difficilmente capiti, ed è bene che sia così. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti che anche il più umile dei mendicanti possiede [...]
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere anche se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.74
È qui che avviene il rito del tatuaggio:
siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro. [...] Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria [...]75
È qui che, sulla soglia del racconto della vita del Lager, il narratore formula un’anticipazione forte e perentoria.
Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire.
...E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi, da anni, il problema del futuro remoto è impallidito, ha perso ogni acutezza, di fronte ai ben più urgenti problemi del futuro prossimo: quanto si mangerà oggi, se nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone.
Se fossimo ragionevoli, dovremmo rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente in conoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed è esattamente priva di fondamento reale.76
Lungo le pagine di Se questo è un uomo, nello svolgersi della storia, il narratore-personaggio da apprendista della vita del campo diventerà un vecchio Haftling, con la saggezza propria di un vecchio Haftling: imparerà a "non cercare di capire", a non porsi e non porre domande, a vivere nel tempo in cui "mai" si dice "domani mattina".77
Affrontato dal tema del "viaggio all’in su", La tregua diventa quindi il racconto di un’inversione che agisce sul tempo, sul fare e quindi sull’essere dei personaggi. Il narratore-personaggio da apprendista alla vita del Lager, diventa apprendista alla vita del dopo-Lager, e i lettori dietro alle sue spalle sono spinti a diventare spettatori di questo ritorno al mondo detto "civile".
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78 Idem, p. 15.
79 P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 210.
80 Idem, p. 213.
81 Idem, pp. 212-213.
82 Idem, p. 376.
83 P. Levi, Se questo è un uomo, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 160.
84 Idem, pp. 105-111.
A questo proposito, si impone un’osservazione: La tregua è scandita da due riti di passaggio importanti, ciascuno accompagnato dal suo Caronte (si ricordi quale era stato l’autista dell’autocarro alla fine del capitolo Il viaggio di Se questo è un uomo78).
Il primo di questi passaggi è collocato nel blocco tematico dell’eredità dell’offesa: è il passaggio dal campo di Buna-Monowitz al campo grande di Auschwitz I sul "carretto guidato festosamente da Yankel",79 da cui le "braccia robuste di due infermiere sovietiche" aiutavano i sopravvissuti a scendere per avviarli verso le procedure di un bagno compiute da "mani pietose, ma senza tanti complimenti."80 È qui che il narratore anticipa lo svolgersi di un altro "bagno funzionale, antisettico e altamente tecnicizzato" e commenta esplicitamente la funzione simbolica di questa procedura:
come ad ogni svolta del nostro così lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti da un bagno, quando di tante altre cose avevamo bisogno [...] Ma in esso [...] era agevole ravvisare, dietro quell’aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera, di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio.81
L’anticipazione rimanda al trattamento al DDT con cui "sotto questa specie di purificazione e di esorcismo, l’Occidente prese possesso di noi", preceduto dall’incontro con la jeep dalla stella bianca, guidata da un nero che gridava "Si va a casa, guaglioni!", e dal "trasloco dagli sconnessi vagoni con scartamento sovietico ad altri, altrettanto sconnessi con scartamento occidentale".82 Sarà allora interessante rilevare dalla lettura attenta di questi brani la consapevolezza che il passaggio al mondo libero non è il passaggio tout court alla libertà, ma l’ingresso in un mondo strutturato secondo proprie abitudini e proprie logiche, sotto il controllo più o meno rigido dell’autorità costituita.
A questo punto restano da suggerire tre piste di accesso al blocco tematico del "viaggio all’in su" che possono costituire altrettanti inviti alla lettura.
Innanzitutto, il capovolgimento, o se preferite lo scioglimento, che il blocco tematico del "viaggio all’in su" costituisce rispetto a Se questo è un uomo è da cogliere nella conquista di una percezione del tempo e dello spazio, non più schiacciato sul presente grigio e chiuso su se stesso del campo. Ricordando che in Se questo è un uomo il solo colore usato è il grigio fino all’evacuazione del campo, quando compaiono i colori della coperta da cui Maxime ritaglia giacca, brache e guantoni per il narratore-personaggio e Charles,83 suggeriamo per contrasto la lettura della descrizione del bosco intorno alla Casa Rossa di Staryje Doroghi (pp. 334 "A nord della Casa Rossa"-335). Ricordando come nel campo appropriarsi del tempo sottraendolo al ritmo del Lager è atto di sabotaggio e di resistenza, come sottolineato nell’episodio del Canto d’Ulisse,84 invitiamo a rileggere l’incipit del capitolo Le vecchie strade (pp. 324-327). Si faccia qui attenzione al sintagma "Potevamo farle e le facemmo, con gioia puerile"
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85 Idem, p. 108.
86 P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 346.
(p. 324), in cui riecheggia il "non possiamo farlo? Possiamo."85 del capitolo di Se questo è un uomo e ricongiunge il tema del "sentirsi ridiventare uomini" non soltanto con l’esperienza passata e il ricordo dello sforzo di restare uomini nonostante il ritmo del campo, ma anche con la libertà dell’uomo in quanto consapevolezza del proprio presente e possibilità di inventare e intrecciare il tessuto dei propri giorni. In una prospettiva più specificatamente letteraria è interessante notare come nei due episodi si intrufolino i libri: là il Canto di Ulisse, qui "Michele Strogoff e [...] altre lontane letture". Se in Se questo è un uomo raccontare il canto di Dante a Pikolo, improvvisando una lezione di italiano, diventa un atto di insubordinazione che apre lo spazio di un rapporto da uomo a uomo all’interno del ritmo inumano del campo, nella Tregua il ricordo di Michele Strogoff e di altre lontane letture diventa la riserva di parole e di fantasia necessarie per instaurare un rapporto tra uomini diversi e lontani, che solo il caos della fine della guerra ha avvicinato. Una prospettiva metatestuale potrà a questo punto suggerire quanto la letteratura sia per lo "scrittore non scrittore" non un campo specifico del sapere in cui esercitare la propria arte, ma spazio di dialogo con gli altri uomini, in cui inventare e trovare i termini e le condizioni per una comunicazione tra uomini.
Un’altra pista può essere offerta dalla lettura dell’incipit di Vecchie strade che rimanda alla questione del lavoro, di cui Levi, come testimone dei campi, ha sempre sottolineato la centralità per lo studio e la conoscenza dell’universo concentrazionario. In Se questo è un uomo la demolizione dell’uomo si compie al ritmo implacabile di un lavoro che svuota, annulla, uccide.
Nel "viaggio all’in su" il ridiventare uomini passa attraverso l’inventarsi una propria forma di lavoro quale espressione di sé, del proprio ingegno e della propria fantasia. Nonostante la condizione di limbo, di ozio forzato, quasi tutti i personaggi sono ritratti impegnati in qualche lavoro, come se raccontare un personaggio coincidesse con il raccontare il suo lavoro o una sua avventura di lavoro. Esemplari in questo caso sono il greco e Cesare, entrambi maestri nell’arte del vendere, tra i mestieri più facili e comuni, eppure ciascuno dotato di un’arte diversa, poiché quando il lavoro diventa espressione dell’ingegno dell’uomo esso si rifrange e si diversifica nei mille caratteri e modi di essere degli uomini. La stessa osservazione si potrebbe fare per i due medici, Leonardo e Gottlieb, e infine tra gli esempi minori per il Cantarella (p. 336) e il macellaio clandestino (p. 344), più macchiette che personaggi, ma entrambi ricordati per il loro mestiere.
Altra importantissima pista per affrontare "il viaggio all’in su" è quella dell’incontro con gli altri, interlocutori di una comunicazione possibile.
Fin dalle soglie del viaggio, il narratore-personaggio fa notare come "il bisogno di contatti umani è da annoverarsi fra i bisogni primordiali" (p. 241) ed è appunto questo stesso bisogno a ritornare con urgenza nella vita di "ozio integrale" di Staryje Doroghi:
Come sempre avviene, la fine della fame mise allo scoperto e rese percettibile in noi una fame più profonda. Non solo il desiderio della casa, in un certo modo scontato e proiettato al futuro: ma un bisogno più immediato e urgente di contatti umani, di lavoro mentale e fisico, di novità e varietà.86
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87 P. Levi, Se questo è un uomo, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 167.
88 Idem, p. 138, ma leggi fino a p. 140.
89 P. Levi, La tregua, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 306.
Il ridiventare uomini è imparare a riscoprire nelle persone che stanno intorno uomini o donne con cui può diventare possibile parlare e scambiarsi storie. Gli esempi sono tanti e non ne suggerisco che due poiché possono essere facilmente collegati a episodi di Se questo è un uomo.
Il primo è quello che vede l’arrivo del greco e del narratore-personaggio presso la caserma di Cracovia requisita dai russi e piena di militari italiani (pp. 234 "La periferia di Cracovia"-236): il cuore dell’episodio è la trasformazione del greco in narratore di storie di guerra e il dialogo con i militari sulla campagna di Grecia. Superando le divisioni che la guerra aveva innalzato tra loro, i militari italiani e il greco si ritrovano intorno al racconto della guerra vissuta da uomini, costretti a combattersi, ma pronti a escogitare soluzioni per non morire. L’episodio è l’occasione per il narratore-personaggio di cogliere una "umanità insospettata" nel greco che si dimostra capace di creare in pochi minuti di conversazione "un’atmosfera". Sarà interessante allora ritornare sulle ultime pagine di Se questo è un uomo là dove la percezione di ridiventare uomini si manifesta intorno a un fuoco nei racconti scambiati con Charles e Arthur, racconti di guerra e di Resistenza e di domeniche passate nei Vosgi.87 Il racconto come trasmissione dell’esperienza vissuta unisce uomo a uomo, aprendo all’intimità della parola scambiata.
Il secondo episodio è quello dell’incontro con le due ragazze ebree, profughe di Minsk e in viaggio anche loro verso casa, incontrate nella stazione di Proskurov, nel percorso che sembrava dovesse portare i superstiti italiani ad Odessa e che invece si arenerà prima nel campo di raccolta Sluzk e poi a Staryje Doroghi. Ricordando quanto la condizione di Haftling aveva pesato sul narratore-personnaggio e i suoi due compagni chimici che di fronte alle giovani ragazze del laboratorio della Buna si erano sentiti "sprofondare di vergogna di imbarazzo",88 si deve cogliere invece in questo episodio della Tregua l’ardire del narratore-personaggio e di Cesare che si rivolgono alle giovani e intavolano con loro una discussione, nonostante l’yiddish sconosciuto e grazie alla volontà caparbia di scambiarsi le proprie storie di casa e di esilio (pp. 302 "Ora,..."-304).
Infine, un’ultima osservazione: "il viaggio all’in su" si svolge secondo il periplo indicato dalla cartina inserita nel testo per una ferma richiesta di Primo Levi. Dopo il trasferimento da Buna-Monowitz ad Auschiwtz I, la breve incursione a Cracovia si chiude a Katowice, nel campo di raccolta di Bogucice da dove riprenderà il lungo errare che riporterà i sopravvissuti italiani in patria solo l’11 ottobre 1945. La partenza speranzosa per Odessa si dimostra un’illusione a Zmerika, dove il gruppo di italiani proveniente da Katowice ingloba un "altro convoglio di italiani proveniente dalla Romania"89 e diventa l’ingente gruppo di profughi (1400) che, dopo aver varcato la Beresina, è allogiato per qualche giorno nel campo di raccolta di Sluzk (pp.311-317) e quindi si arena nella Casa Rossa di Staryje Doroghi (pp. 318-368). Da qui, il viaggio riprende solo il 15 settembre 1945, il gruppo ripassa per Zmerika (p. 375), quindi, attraversata la Bessarabia, entra in Moldavia e sosta a Iasi (p. 376-377), passa le Alpi Transilvane, ridiscende su Brasov (p. 381), sembra arenarsi ancora a Curtici (p. 383-385), quindi entra prima in Ungheria, scivolando verso la periferia di Budapest, poi in Austria, dove si incaglia nella periferia di Vienna (p. 387-388) per attraversare la linea di demarcazione a Saint Valentin, a pochi chilometri da Linz (390). Quasi a casa un’ultima imprevista e imprevedibile deviazione: l’attraversamento di un altro confine, quello tedesco, e la tappa a Monaco, prima di attraversare il Brennero. Notiamo che tutto questo lungo periplo è segnato dal sentimento della nostalgia
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90 P. Levi, Se questo è un uomo, in P. Levi, Opere, t. I, op. cit., p. 60.
che riemerge periodicamente (p. 280, 316, 334, 342) a ricordare che il "viaggio all’in su" è l’esilio, è uno degli esempi del peregrinare attraverso l’Europa dei sopravvissuti italiani che, ricordiamolo, furono, di regola, gli ultimi a ritornare a casa dai campi.
Possiamo allora concludere con una semplice e rapida osservazione.
L’intimità distante che lega Se questo è un uomo alla Tregua mette in luce la voce del narratore-testimone di cui scopre due caratteri essenziali. Il narratore che testimonia della vita del campo è un narratore che racconta destini individuali, storie di uomini e di donne: non dà lezioni, non dà ricette buone per tutti, racconta gli altri consapevole che questo suo raccontare significa invertire la logica del campo, perché "tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e piene di una tragica sorprendente necessità [...] sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di un nuova Bibbia?".90 È così che per il sopravvissuto che si fa narratore il racconto è la vendetta e la scrittura una riscrittura sempre da ricominciare e da rimodulare nel dialogo con gli altri e nell’esercizio della memoria. È così che il sopravvissuto che si fa scrittore non può, forse, che essere l’autore di un unico libro che si riscriverà nel corso e al ritmo del resto della sua vita poiché per lui ormai vivere significa raccontare. È così che La tregua permette di accostare obliquamente la voce del sopravvissuto testimone in quanto scrittore, sentendolo raccontare il viaggio di ritorno verso quel mondo libero in cui ha compiuto il suo atto di testimonianza.
ANED TORINO
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