Anna Foa Docente di storia moderna Università La Sapienza di Roma:
Presenza ebraica in italia
Chi sono gli ebrei italiani? Esistono ebrei italiani? La risposta a questa domanda non è scontata. Comunemente, infatti, si crede che gli ebrei si dividano in due gruppi: gli ashkenaziti, cioè originari della Germania (da Ashkenazi, il nome biblico attribuito nel Medioevo alla Germania), e i sefarditi (da Sefarad, il nome biblico attribuito alla Spagna). Anche in Italia, molti ebrei credono di essere ashkenaziti o sefarditi, e molti immaginano di essere discendenti degli ebrei giunti in Italia con la cacciata dalla Spagna del 1492. In realtà, le comunità italiane sono molto più antiche del XV secolo, e sono per lo più italiane, cioè composte di ebrei che non sono né sefarditi né ashkenaziti ma appunto italiani, muniti di un loro rito diverso da quello tedesco e spagnolo, il rito italiano. Inoltre, lo stesso glorioso ebraismo ashkenazita, che ha la sua culla nella zona renana intorno al IX secolo, deve la sua origine anche allo spostamento verso il Nord di ebrei provenienti dall’Italia. In realtà, nell’alto Medioevo gli stanziamenti ebraici in Occidente sono diffusi e frequenti soprattutto nella zona del Mediterraneo: nell’Italia meridionale fino a Roma, in Spagna e in Provenza. Di qui, comincerà nel corso dei secoli un lento spostamento verso il Nord dell’Italia, la Germania e le zone dell’Europa continentale.
La storia degli ebrei italiani è una storia molto specifica, molto diversa da quella che hanno avuto gli ebrei nel resto d’Europa e in particolare gli ebrei nell’Europa dell’Est e in Polonia, anche se dobbiamo tener presente che la storia della presenza ebraica in Europa è in genere una storia assai diversificata, in cui ogni situazione rappresenta un’esperienza a sé. Con tutto ciò, è possibile individuare alcune specificità italiane. Innanzitutto, gli ebrei in Italia sono in numero molto ridotto (attualmente meno dell’1 per mille della popolazione) e sono sempre stati tali, almeno negli ultimi cinque o sei secoli. Anche nel periodo più vicino a noi, tra Otto e Novecento, quando in Francia, in Inghilterra si è verificata una forte immigrazione di ebrei dall’est Europa, l’Italia non è stata quasi toccata, e la popolazione ebraica italiana è rimasta sostanzialmente stabile. Essi sono quindi una piccola, piccolissima minoranza rispetto al resto della popolazione. Inoltre, gli ebrei italiani hanno sviluppato nel corso dei secoli (per vari motivi su cui torneremo più tardi, in particolare in seguito alla presenza della Chiesa) un rapporto col mondo esterno diverso da quello degli ebrei dell’Europa orientale. Hanno sempre, o quasi, parlato la stessa lingua del mondo esterno, limitandosi al massimo ad aggiungere qualche termine ebraico ai vari dialetti italiani. Gli ebrei italiani non hanno mai parlato l’yiddish tranne che in poche comunità del Nord Italia di derivazione ashkenazita. Ricordate Primo Levi, che nei campi trova che gli altri deportati sono pieni di diffidenza e stupore di fronte a questi ebrei italiani che non parlano yiddish e che sono così diversi dagli ebrei polacchi o orientali. Come si fa ad essere ebrei se non si parla yiddish?, gli viene chiesto.
Ma qual è la storia di questi ebrei italiani, qualem la natura della loro specificità? Gruppi di ebrei sono stanziati sulle coste italiane, nel Mediterraneo già prima del cosiddetto inizio della diaspora nel 70 e.v., la data della distruzione del Tempio. Una comunità ebraica è presente a Roma già nel secondo secolo avanti Cristo, e di questa comunità abbiamo tracce tanto nella documentazione quanto nella storiografia e nella letteratura (sovente, a dir la verità, ostile agli ebrei e alla loro credenza in un solo Dio). La comunità ebraica romana appare come una comunità ampia, molto inserita nella realtà romana, che si fa tramite politico e commerciale tra Roma e la terra d’Israele. Lontana dalle scelte radicali della rivolta antiromana, la comunità sopravvive alle guerre giudaiche. Il riscatto dei prigionieri portati a Roma da Tito dalla Giudea conquistata ne accresce anzi il numero e il ruolo. Sotto l’Impero, con l’editto di Caracolla del 212, gli ebrei che vivono in Italia ottengono come tutti la cittadinanza piena, diventano "cives romani" cittadini romani. E’ questo un elemento molto importante della loro storia, che avr5à conseguenze di lungo, lunghissimo periodo. Infatti, questo diritto di cittadinanza sarà mantenuto nel diritto dell’Impero romano cristiano, nei codici cioè di Teodosio e di Giustiniano, con la conseguenza che nell’area in cui il diritto romano sopravvive, cioè soprattutto in Italia, gli ebrei godranno di uno statuto giuridico decisamente diverso da quello del resto dell’Europa. Questo statuto di cittadinanza, nonostante le vastissime ambiguità e limitazioni di cui si circonda, passa intatto dal diritto romano al diritto canonico e di conseguenza regola lo status giuridico degli ebrei italiani attraverso i secoli del Medioevo e dell’età moderna, sia pur con numerose trasformazioni, fino al crollo del dominio temporale dei papi e all’emancipazione degli ebrei.
Nel primo Medioevo, periodo in cui gli ebrei sono sparsi nel Mediterraneo, l’Italia meridionale è il centro di una presenza ebraica fitta e culturalmente assai importante. E’ infatti proprio attraverso l’Italia meridionale che il Talmud penetra in Occidente. Le fiorenti comunità pugliesi, in particolare, fanno da tramite alla penetrazione della cultura talmudica di Babilonia. Questa penetrazione ha l’effetto di introdurre cambiamenti di grande portata nella tradizione religiosa delle comunità italiane, fino ad allora più vicina alla tradizione palestinese o a quella delle comunità del periodo imperiale. E’ un ruolo decisivo di tramite quello che l’ebraismo dell’Italia meridionale assume in questi secoli, diffondendo il Talmud nelle comunità ebraiche spagnole, in quelle del Mediterraneo e poi attraverso la penisola, verso il Nord dell’Europa. Roma e l’Italia meridionale, quindi, si pongono, fin verso la fine del primo millennio, come i centri principali della diaspora occidentale. Una fonte del XII secolo, il racconto di viaggio di un ebreo spagnolo, Beniamino da Tutela, ci ha lasciato una preziosa testimonianza della presenza ebraica in questo periodo e dello stato e della consistenza delle comunità. All’epoca, essa è ancora assai forte nel Mediterraneo, anche se nelle città renane della Germania si sono già formate, anzi sono al massimo del loro splendore culturale, le comunità ashkenazite. Il fatto che una parte di questi ebrei tedeschi provenga dall’Italia (come i Kalonimos, che sembrano originari di Lucca) testimonia il passaggio verso il Nord di una parte degli ebrei italiani, che portano con sé la cultura talmudica impiantatasi nei secoli precedenti nell’Italia meridionale.
I primissimi secoli del secondo millennio, il XII-XIII secolo, assistono a radicali cambiamenti nella situazione degli ebrei in Europa. A provocarli, le crociate, con il loro seguito di attacchi e distruzioni delle comunità ebraiche renane, e lo sviluppo di forme nuove di antigiudaismo, diverse e assai più pericolose di quelle tradizionali. Appaiono in questo periodo le accuse di avvelenamento dei pozzi, di profanazione dell’ostia e di omicidio rituale, destinate a lunga vita e inserite in un contesto in cui l’ebreo è visto sempre più come un elemento di contaminazione e di radicale diversità, non solo o non più solo di incredulità religiosa. La situazione degli ebrei peggiora ovunque, anche in Italia. Alla fine del Duecento, gli ebrei dell’Italia meridionale sono espulsi o convertiti a forza ad opera della dinastia francese degli Angiò. L’episodio, abbastanza oscuro e in cui è coinvolta la recente istituzione inquisitoriale, sarà poi riassorbito, non senza aver dato un colpo definitivo alla vitalità delle comunità e alla loro ricchezza culturale. All’epoca, si verifica un vero e proprio esodo verso il Nord. Gli ebrei si spostano al Nord anche da Roma, che nel corso del Trecento, durante il soggiorno del papato ad Avignone, diventa una città in decadenza, senza traffici o commerci. Contemporaneamente in seguito alle incessanti persecuzioni che rendono precaria l’esistenza degli ebrei in Germania, gli ebrei scendono dalla Germania in Italia centro-settentrionale. Sono due diversi flussi migratori che si incrociano e che mutano la geografia dell’Italia ebraica: ebrei italiani che salgono verso le città d’Italia centro settentrionale ed ebrei ashkenaziti che scendono dalla Germania, e più tardi anche dalla Francia, verso le città dell’Italia settentrionale e della pianura padana.
Le comunità che nascono da questo duplice movimento migratorio si fondano su basi giuridiche diverse rispetto a quelle su cui si fondava precedentemente in Italia la presenza ebraica, cioè quella sorta di cittadinanza discriminata, dimidiata, sancita dal diritto canonico sulla base della cittadinanza romana. Esse si fondano tutte su di un vero e proprio contratto stipulato con città e comuni, la cosiddetta condotta. Una forma giuridica che assomiglia molto alle carte di privilegio emanate dai sovrani o dai principi tedeschi nei confronti di ebrei, individualmente o collettivamente. Le condotte emanate dalle città italiane sono tutte indirizzate a garantire la presenza in città di uno o più prestatori ebrei, e quindi a venir incontro alle esigenze cittadine di liquidità. Gli ebrei garantiscono l’esercizio del prestito, prestito su pegno indirizzato alle fasce più povere ma anche prestito più consistente al comune, e le città ne regolano le modalità e gli interessi e garantiscono agli ebrei la possibilità di esercitare liberamente il proprio culto e di vivere secondo le loro leggi. Si tratta normalmente di contratti temporanei, per lo più, ma non sempre rinnovati alla scadenza. Ove le città non li rinnovino (e comincerà a succedere sempre più spesso nel XV secolo, in seguito alla predicazione francescana) oppure anche ove gli ebrei preferiscano spostarsi in zone più favorevoli, le comunità cessano di esistere. Normalmente, almeno fino al Quattrocento, per quanto virulenta e fondata su immagini fortemente antiebraiche (come quella che vede negli ebrei "usurai" dei nemici che succhiano, attraverso il denaro, il sangue dei cristiani), la predicazione francescana si rivela inefficace di fronte alle esigenze urbane di liquidità. Passato il predicatore, nonostante il suo prestigio e i consensi che riscuote, le condotte sono di solito rinnovate e la convivenza tra ebrei e cristiani riprende come prima.
Ma cosa vuol dire però convivenza? Cosa intendiamo, tracciando un quadro in cui le persecuzioni assumono, almeno in Italia, un ruolo sostanzialmente marginale e tutta l’enfasi è posta sul rapporto tra ebrei e società circostante? Convivenza vuol comunque dire, nel caso delle comunità di prestatori, una particolare situazione giuridica in cui la città può denunciare la condotta e cacciare gli ebrei. Nello Stato della Chiesa, in cui gli ebrei vivono e sono da sempre una presenza accettata, come anche in quegli stati italiani in cui l’egemonia della Chiesa è dominante, convivenza vuol comunque dire una cittadinanza fondata su un’inferiorità giuridica molto netta e molto precisamente definita. E’ un equilibrio fondato sulla sottomissione, in cui i due piatti della bilancia stanno uno sopra ed uno sotto, come possiamo vedere nell’iconografia diffusissima nelle cattedrali gotiche francesi della Chiesa trionfante e della Sinagoga accecata. La Sinagoga è cieca perché non vede la verità del Cristo, è accasciata perché naturalmente serva. Una servitù morale, evidentemente, che il diritto canonico riassume nella formula di "perpetua servitù. Questa forma di equilibrio che sottende la convivenza delle minoranze ebraiche in Italia è il frutto del rapporto costante con la Chiesa. La presenza della Chiesa è uno dei fattori determinanti del rapporto fra ebrei e il mondo non ebraico in Italia. Ma è anche un fattore di ambivalenza. La Chiesa infatti lancia una sorta di doppio messaggio: il mantenimento della presenza ebraica, e al tempo stesso la necessità assoluta di basare tale presenza su un codificato insegnamento del disprezzo, termine con cui la storiografia ha in anni ormai lontani definito l’antigiudaismo. Di qui, gli insulti inseriti nella liturgia, vere e proprie formule che sembrano perdere la loro violenza proprio perché volte a ritualizzarla, ad esaurirla nel rituale. Ma il messaggio, duplice, mantiene tutta la sua ambiguità e a volte non basteranno le processioni e i rituali ad esorcizzare la violenza dal basso, di masse che non comprendono le sottigliezze dei messaggi ecclesiastici, soprattutto quando i predicatori predicano contro gli ebrei con una violenza che nulla ha di rituale. Facciamo un esempio.
Secondo le norme sancite dal diritto canonico, gli ebrei dovevano stare rinchiusi nelle loro case e non potevano uscire durante la settimana santa. Non sarebbe infatti stato giusto che gli uccisori di Cristo si mostrassero mentre il mondo cristiano ne piange la morte e ne esalta la resurrezione. In Umbria, durante la processione del venerdì santo, i ragazzi cristiani tiravano sassi contro le case degli ebrei, tutte rigorosamente chiuse. In teoria, la violenza non avrebbe dovuto creare vittime, o danni eccessivi. Era accettata, regolata dalla legge e addirittura definita "sassaiola santa". A volte, però, gli ebrei lamentano per iscritto alle autorità cittadine l’età troppo elevata di questi "ragazzi" (altri i danni fatti da bambini di dieci anni, altri quelli fatti da ragazzi di diciotto-vent’anni) o il degenerare delle sassaiole in saccheggi e aggressioni. Ma a volte sono gli stessi ebrei a cambiare le regole: così a Todi, nel quattrocento, ce lo racconta Ariel Toaff nel suo Il vino e la carne, quando un ebreo con tutta la sua famiglia si mette sul balcone della casa e quando cominciano a fioccare i sassi, li tira giù dall’alto del balcone sulla processione, disperdendola. L’ebreo se la caverà con una multa.
Una simile ritualizzazione del disprezzo e dell’ inferiorità finisce molto spesso per determinare un equilibrio, che consente che nella realtà di tutti i giorni ebrei e cristiani vivano gomito a gomito, si parlino, si conoscano, bevano insieme all’osteria. In questo periodo, siamo tra il Trecento e il Cinquecento, ebrei e cristiani parlano, come abbiamo già detto, la stessa lingua. Gli ebrei parlano l’italiano, pensano in italiano, come ci prova l’analisi linguistica dei testi. Anche nell’età dei ghetti, pur con le mura e i portoni, il rapporto fra gli ebrei chiusi nel ghetto e il mondo esterno è un rapporto infinitamente più vicino e più familiare di quello che non è invece nello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale, un mondo privo di barriere, in cui però l’identità dell’ebreo, distante da quella del cristiano, è immediatamente percepibile e riconoscibile.
Invece, per essere riconosciuto, l’ebreo italiano deve portare il segno distintivo. Di origine islamica, imposto nel 1215, ma non applicato fin oltre il Trecento, il segno distintivo - che poteva essere un cappello giallo, un mantello, una rotella cucita sui vestiti, o addirittura, per le donne, degli orecchini a cerchio, mai la stella di David gialla inventata dai nazisti - non ha inizialmente il valore di una umiliazione, ma di un semplice riconoscimento, sia pur basato da parte della Chiesa sulla volontà di impedire eccessive mescolanze dei due mondi. Ben presto però, quando da semplice petizione di principio diviene oggetto delle insistenti predicazioni dei frati, gli ebrei cominciano a vederlo come un elemento di umiliante discriminazione e a condurre una battaglia per evitare di portarlo. Si rivolgono alle autorità chiedendone l’esenzione, lamentano che se portano il segno possono essere presi a sassate dai ragazzini, ottengono di non portare il segno durante i viaggi per evitare di essere aggrediti e derubati. Sulla questione del porto del segno distintivo gli ebrei mettono in atto una lunga resistenza, che non c’è stata invece per i ghetti. La chiusura nel ghetto, infatti, gli ebrei l’hanno alla fine accettata, cercando di limitarne i disagi, di trovare una sistemazione il più possibile favorevole all’esistenza della comunità. Invece sul segno la lotta è stata senza quartiere. Il problema, al di là delle implicazioni sul piano delle possibili violenze, era un problema di immagine e di identità. Gli ebrei italiani, soprattutto in questi secoli, non sono affatto dissimili dai non ebrei. Parlano la stessa lingua, vestono nello stesso modo. Un confronto tra le miniature di soggetto ebraico di area tedesca e quelle di area italiana ci mostra in evidenza la diversità dei due mondi. In area tedesca, gli ebrei sono assolutamente riconoscibili, portano il cappello a punta, sono ebrei a prima vista. Niente di simile nelle miniature rinascimentali di area italiana. Nient’altro che la scritta in ebraico, il fatto che l’immagine faccia parte di un libro ebraico, ci dice che quelle sono immagini di ebrei: le donne vestono esattamente come le donne cristiane di ceto elevato del Rinascimento, suonano strumenti musicali, danzano. Nulla di diverso nella loro raffigurazione rispetto a quella di ambiente cristiano. Si può forse pensare che, al di là delle conseguenze sul piano della sicurezza, ciò che premeva nel fondo agli ebrei era non cambiare questa immagine che, almeno nella vita di ogni giorno, non metteva in primo piano un’inferiorità sancita dalla legge e dalla teologia.
Alle soglie del Cinquecento, dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 e la conversione forzata degli ebrei portoghesi nel 1497, la mappa della presenza ebraica in Europa presenta cambiamenti assai rilevanti. Francia ed Inghilterra sono prive di ebrei già dalla fine del Duecento - inizio del Trecento. Nell’Europa occidentale, la presenza ebraica è così ristretta all’Italia (non tutta, perché il Meridione spagnolo ha espulso anch’esso gli ebrei) e alla Germania. E anche in Germania nel corso del ‘500 tutte le città e gli stati luterani cacciano gli ebrei, che resteranno solo nelle città e negli stati cattolici, anche qui non senza alterne espulsioni e riammissioni. Intanto all’Est, in Polonia, inizia nel ‘500 la grande crescita che in due secoli moltiplicherà la presenza ebraica. Nel corso del ‘500, la maggior parte degli ebrei precedentemente presenti in Europa vivono nel mondo islamico dove hanno uno statuto più "liberale" rispetto a quello della cristianità. In questa Europa, quindi, l’Italia e una parte della Germania sono le uniche parti in cui gli ebrei siano presenti. E l’Italia, con l’istituzione dei ghetti, è anche il luogo di rilevanti cambiamenti del mondo ebraico. Quanto la trasformazione provocata dalla ghettizzazione fosse radicale, e quanto invece consentisse il perpetuarsi delle strutture comunitarie e della coesione interna del mondo ebraico italiano, è tema che gli storici ancora discutono. Il primo ghetto è istituito nel 1516 a Venezia, seguito nel 1555 da quello di Roma, creato da papa Paolo IV Carafa con la bolla Cum nimis absurdum. Le norme di questa bolla contengono una vera e propria teorizzazione della chiusura degli ebrei dentro il ghetto, e consentono di definire quale era il progetto della Chiesa al momento di chiudere dentro porte e cancelli la minoranza che da secoli viveva dentro gli spazi della città papale. In effetti, il ghetto di Roma è molto più di una separazione. Non che l’elemento della separazione non sia presente, ma esso è non lo scopo in sé, quanto la precondizione necessaria a realizzare la soluzione definiva del problema posto dall’esistenza stessa degli ebrei, attraverso non l’espulsione, bensì la conversione. Il ghetto romano è così uno spazio in cui gli ebrei sono rinchiusi al tramonto e liberati all’alba, come quello di Venezia, ma è anche uno spazio destinato ad accogliere e rendere più efficaci possibili le pressioni verso la conversione, l’abbandono dell’errore per la verità. Il ghetto come spazio di conversione, quindi. Creato inizialmente solo a Roma, il ghetto romano, insieme con quello di Ancona, appare presto destinato a raccogliere gli ebrei da tutto lo stato pontificio, un progetto che si realizzerà nel corso della seconda metà del secolo, quando gli ebrei saranno espulsi da tutte le città dello Stato e rinchiusi in questi due ghetti già esistenti. Di qui, sia detto per inciso, il toponimo assunto da tante famiglie ebraiche romane, Di Cori, Di Nepi, Terracina ecc. ecc. L’istituzione dei ghetti, sotto questo profilo, è una scelta complementare, non opposta, a quella dell’espulsione. Nello stesso tempo, la Chiesa inizierà a fare pressioni sugli stati affinché si adeguino a questa ideologia e chiudano i loro ebrei nel ghetto. Il corso del Seicento è così costellato dalla ghettizzazione in tutta Italia. Gli ultimi ghetti ad essere creati, già all’inizio del Settecento, sono quelli piemontesi. L’unica eccezione è Livorno, città in cui gli ebrei sefarditi vengono chiamati dal Granduca di Toscana ad istituire il porto, con la concessione di vivere fuori dal ghetto. A Roma più che altrove, il ghetto è così un’espulsione dentro una sorta di prigione, un recinto in cui gli ebrei sono controllati molto da vicino dall’occhio vigile della Chiesa, in attesa della loro conversione. Una conversione che non si realizzerà mai: ci saranno infatti molti convertiti, ma non quell’abbandono generale dell’ebraismo progettato dalla Chiesa nel Cinquecento.
Ma quali erano i mezzi messi in atto dalla Chiesa per ottenere la conversione degli ebrei? Perché la Chiesa romana, anche nel Cinquecento, cioè al momento del suo massimo sforzo conversionistico, non adotta mai la forza come avevano fatto nel Quattrocento i sovrani di Spagna e di Portogallo. Niente conversioni forzate, almeno in senso stretto. Più tardi, a partire dalla metà del Settecento, le cose cambieranno, soprattutto per quello che riguarda le conversioni dei minori. Succederà allora, a Torino come a Roma, che i bambini siano battezzati, rapiti o portati via, come nel famoso caso del bambino Mortara, battezzato da una domestica cristiana e rapito dall’Inquisizione a Bologna nel 1858. Ma questo è un fenomeno più tardo, che si realizzerà solo quando l’avvento della modernità cambierà radicalmente l’equilibrio tra questi due mondi. Al momento, la Chiesa usa sistemi meno violenti, meno contrari all’idea cristiana di spontaneità della fede: insiste, spinge, fa pressioni, crea incentivi per i convertiti, appesantisce sempre più le condizioni di vita per quanti non si convertono, aumenta le loro tasse, ne riduce gli spazi lavorativi attraverso il moltiplicarsi dei divieti, le cosiddette "interdizioni israelitiche" che Cattaneo denuncerà nell’Ottocento. Gli ebrei sono impoveriti, ridotti a commerciare soltanto in abiti usati. Nel 1682 i loro banchi di prestito vengono chiusi e il ghetto romano si impoverisce enormemente. Tutto questo è rivolto alla conversione, perché al di là delle mura del ghetto, degli spazi ristretti in cui gli ebrei vivono sovraffollati, c’è un mondo che offre agli ebrei tutte le sue lusinghe: il Collegio dei catecumeni per quegli ebrei che vogliano studiare e fare carriera nel mondo della Curia, la costituzione di doti per le ragazze povere, la possibilità di scegliere un mestiere. Di fronte a questa strategia, che rappresenta un vero attacco alla sua identità, il mondo ebraico moltiplica la sua coesione interna. E’ necessario che i conflitti siano ridotti al minimo, perché di fronte alla pressione esterna qualsiasi conflitto interno, da quello famigliare a quello di censo, può trovare sbocco all’esterno, nella conversione. I cristiani, gli appartenenti al mondo esterno non hanno questa opzione, lasciare tutto e passare in un’altra religione, in un’altra cultura, in altre regole sociali. Le famiglie in conflitto, le ragazze senza dote, i giovani privi di eredità non possono trovare soluzioni esterne. Nel mondo ebraico, la lusinga della conversione è subito dietro il cancello, e spesso fa irruzione all’interno, come nelle prediche forzate, a cui gli ebrei sono costretti a recarsi settimanalmente. Chiese e oratori fioriscono subito dietro le mura ristrette del ghetto. In questa situazione, l’equilibrio non può non essere l’obiettivo primario della comunità.
La politica attivamente conversionistica messa in atto dalla Chiesa di Roma nel Cinquecento - non prima, si badi, quando a muoversi erano il basso clero, le chiese locali, i sovrani, ma solo a partire da quella data - è un elemento dirompente di questo equilibrio. In questo momento, e solo ora, infatti, la pressione conversionistica diventa spinta verso la soluzione definitiva della questione ebraica. La pressione, quindi, non si limita a minare l’equilibrio interno alla comunità, ma anche e soprattutto quell’equilibrio tra i due mondi che fino a quel momento, almeno in Italia, aveva funzionato, nonostante i suoi enormi limiti. Nel momento in cui fra i due mondi si determina una pressione non più contenibile, questo equilibrio entra in crisi. La pressione conversionistica, con il suo strumento principe, il ghetto, anche se non riesce ad abolire la presenza ebraica e a mettere in crisi globalmente l’identità comunitaria, condiziona pesantemente la natura del mondo ebraico italiano e ne diventa uno degli elementi costitutivi.
Dopo la Rivoluzione francese, il mondo europeo muta profondamente. In una società laicizzata, anche i rapporti fra mondo esterno ed ebrei non sono più determinati o condizionati dalla Chiesa cattolica. Gli ebrei sono tornati in Inghilterra e in Francia. Mentre si è sviluppato enormemente il mondo ebraico nell’est Europa, si è posto nell’Europa occidentale il problema dell’emancipazione, che la rivoluzione francese ha concesso agli ebrei in nome dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Ma anche gli ebrei tedeschi hanno iniziato un processo graduale di emancipazione, interrotto ma non impedito dai rivolgimenti politici della prima metà del secolo. In Italia, invece, le porte dei ghetti si aprono direttamente sull’emancipazione. Il Piemonte concede agli ebrei, congiuntamente ai valdesi, l’uguaglianza nel 1848, e non tornerà più indietro. L’ultimo ghetto a resistere al processo di modernizzazione è quello di Roma, le cui porte si aprono solo nel 1870 quando Roma diventa capitale d’Italia e crolla il potere temporale dei papi. Nell’ultimo secolo e mezzo della sua esistenza, da quel 1682 in cui i papi avevano proibito agli ebrei l’esercizio del prestito e ad essi era rimasto solo il commercio degli stracci, il ghetto di Roma si era assai impoverito ed era diventato la vergogna dell’Europa. I viaggiatori francesi, tedeschi, italiani che passano da Roma vanno a visitarlo e raccontano della vita miserabile che vi si svolge. Il grande storico Ferdinando Gregorovius ha lasciato pagine straordinarie in cui si descrivono le sue viuzze strette e sovraffollate, in cui si narra della straordinaria abilità delle sue ricamatrici, le donne del ghetto abituate da secoli a riadattare gli stracci e a trasformarli in arredi preziosi per la sinagoga. Ma non si trattava solo delle condizioni materiali. A differenza degli altri ghetti italiani, come quello di Mantova o di Venezia, che ancora fino a tutto il Seicento elaborano e trasmettono cultura, il ghetto di Roma non ha rabbini prestigiosi, intellettuali capaci di trasmettere il mondo ebraico all’esterno e di recepire la cultura esterna dentro il ghetto. Roma è chiusa in un clima soffocante di controllo e repressione, e la stessa lettura dei testi ebraici è stata resa difficile dalla proibizione del Talmud. Da quando, nel 1553, le copie del Talmud sono state arse a centinaia a piazza Campo dei Fiori, sono assolutamente proibiti non solo il Talmud, ma anche la maggior parte dei suoi compendi. Una proibizione comune al resto d’Italia, ma a Roma fatta osservare molto più rigorosamente che altrove dall’occhiuta vigilanza ecclesiastica. E’ una perdita culturale enorme per il mondo ebraico italiano, un’interruzione della trasmissione della tradizione, della normativa quotidiana. Gli ebrei italiani, e soprattutto quelli romani, si riapproprieranno in toto della loro cultura solo successivamente, attingendo dall’esterno e non al loro passato più immediato.
E non è forse un caso che le maggiori polemiche contro il Talmud da parte della Chiesa cattolica appartengano al periodo successivo all’emancipazione, quando la Chiesa, non potendo più bruciare il Talmud a Campo de’ Fiori, dove del resto è stata eretta nel 1889 la statua a Giordano Bruno, dovrà limitarsi a denunciarne a gran voce i contenuti. E’ in questo momento che la Chiesa appoggerà l’accusa di omicidio rituale, che i papi del Duecento avevano invece confutato sostenendone l’assoluta falsità. Ora, l’accusa di omicidio rituale e la denigrazione sistematica dei testi talmudici diventano pane quotidiano della pubblicistica cattolica, una campagna in cui si illustra l’organo dei gesuiti, La civiltà cattolica. Un episodio del 1899 ci illustra questa svolta in maniera chiarissima. E’ allora, in un contesto in cui nell’Europa orientale, in Cecoslovacchia, in Ungheria, si svolgevano processi per omicidio rituale contro degli ebrei e in Russia, c’erano pogrom suscitati dall’accusa di omicidio rituale, che illustri personalità inglesi, anglicane e cattoliche, chiedono al Papa Leone XIII di ripubblicare – e con ciò di ribadirne la validità - le bolle con cui nel XIII secolo Innocenzo IV aveva confutato le accuse di omicidio rituale, ponendo una volta per tutte fine a questa calunnia. Il papa, senza pronunziarsi, passò questa richiesta al Santo Uffizio, che rispose, all’alba del nuovo secolo, nel gennaio del 1900, che non poteva "rendere il parere richiesto".
La vera battaglia della Chiesa di questi anni, in realtà, è quella contro l’emancipazione ottenuta dagli ebrei. Perché l’emancipazione cioè l’uguaglianza piena degli ebrei con i cristiani è qualche cosa che la Chiesa, proprio per il modo in cui è impostato nel corso dei secoli i suoi rapporti con gli ebrei, non riesce assolutamente ad accettare. Per la Chiesa, era un’invenzione dell’odiata modernità, che andava contro tutte le formulazione della tradizione religiosa e del diritto canonico: l’errore che aveva gli stessi diritti della verità. Uno dei motivi per cui la Chiesa non reagisce sostanzialmemente nel corso degli anni Trenta alla diffusione dell’antisemitismo e nel 1938 alle leggi razziali italiane è che queste leggi rappresentavano – anche e non solo - un rovesciamento dell’emancipazione. Questa polemica contro l’emancipazione attraversa la guerra, ed arriva fino al 1945, quando l’abrogazione delle leggi del 1938, una delle clausole dell’armistizio, viene vista con sospetto dal plenipotenziario vaticano, il gesuita Tacchi Venturi. Poi, sull’onda di ricezione della Shoah, inizia un lentissimo processo di revisione e l’emancipazione non sarà più attaccata dalla Chiesa e dai suoi apologeti.
La presenza della Chiesa, nel bene e nel male, si caratterizza così come un motivo essenziale della specificità del mondo ebraico italiano. Se non l’unico, certo il principale, perché in realtà molti altri aspetti della storia degli ebrei italiani dipendono dal complesso e tormentato rapporto con la Chiesa cattolica: chi può dire, ad esempio, quale sarebbe stato lo sviluppo del pensiero rabbinico, senza la soppressione ecclesiastica del Talmud? Moderato, mai incline al misticismo, lontano da qualsiasi istanza di riforma come da qualsiasi tentazione ultraortodossa, l’ebraismo italiano si presenta un po’ come il riflesso rovesciato di quella Chiesa che ne consentiva la presenza e ne auspicava la scomparsa. Fu comunque un vero e proprio cordone ombelicale, quello che legò i papi e gli ebrei. Da parte sua, la Chiesa lo tagliò di netto non nel Cinquecento con il ghetto, bensì nel Settecento, quando cominciò a perdere la sua egemonia nella cultura e nella società italiana. Ma gli ebrei italiani, e in particolare quelli romani, di questo stacco si accorsero solo molto più tardi. Gli ebrei del ghetto di Roma, all’alba del 16 ottobre del 1943, mentre i nazisti iniziavano la razzia, credevano ancora di essere sotto la protezione della Chiesa. Ma la Chiesa aveva smesso da due secoli di proteggerli.