Brunello Mantelli docente di Storia contemporanea Università di Torino
Il lavoro forzato nel sistema concentrazionario nazionalsocialista
Secondo quanto dichiarò Oswald Pohl, capo dell’Ufficio Centrale per l’Economia e l’Amministrazione della SS (Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt – WVHA), nel corso del processo celebrato a carico dei dirigenti dell’istituzione nazionalsocialista di fronte al Tribunale militare americano di Norimberga, alla fine del 1944 il numero complessivo dei deportati che si trovavano nella rete concentrazionaria dipendente dalla SS era di circa 600.000; tra loro ben 480.000 risultavano adatti ad impieghi produttivi (arbeitseinsatzfähig). In base alle valutazioni dell’ex generale SS, 400.000 erano stati effettivamente assorbiti, all’epoca, dall’apparato produttivo del Terzo Reich. 130.000 li utilizzava l’Organizzazione Todt (OT), in lavori di fortificazione e cantieri edili di vario genere; altri 140.000 lavoravano nell’ambito della cosiddetta Commissione speciale Kammler (Kammler Sonderstab); ed infine 230.000 erano impiegati dall’industria privata (quasi totalmente nei settori della produzione di armamenti – Rüstungsindustrie – e della chimica). 400.000 lavoratori schiavi (nella quasi totalità non tedeschi) estratti dai Konzentrationslager erano sicuramente una quantità in sé cospicua, ma rappresentavano appena il 5% dei circa 8.000.000 di stranieri che nello stesso periodo lavoravano in Germania.
Come la storiografia ha ampiamente dimostrato, lo sforzo bellico tedesco è stato reso possibile soltanto dall’impiego progressivamente sempre più massiccio di braccia straniere: nell’autunno 1944 esse costituivano circa il 33% della manodopera al lavoro, con punte del 46% nell’agricoltura e del 36% nel settore minerario. Le cifre ci mostrano perciò un quadro complesso: sicuramente i KL assunsero ad un certo punto la funzione di riserva di manodopera, in un contesto che vedeva l’economia di guerra tedesca soffrire di una fortissima carenza strutturale di forza lavoro, in particolare qualificata:
già nel settembre 1941 l’ufficio tedesco che gestiva il collocamento della manodopera (deutsche Arbeitsverwaltung) comunicò che oltre 2,6 milioni di posti di lavoro erano scoperti; solo nell’agricoltura ce n’era mezzo milione, oltre 300.000 nel settore metalmeccanico, 140.000 nell’edilizia, 50.000 nell’industria mineraria;
ma il loro peso fu relativamente marginale, almeno se considerato globalmente. Diverso può essere il discorso se si prendono in considerazione alcune specifiche attività industriali, tra cui principalmente la produzione delle Vergeltungswaffen (armi vendicatrici: la bomba volante senza pilota V1 ed il missile V2), e la ridislocazione degli impianti a cui si dedicava il Sonderstab Kammler.
Per poter procedere oltre occorre però, a questo punto, mettere a fuoco alcune questioni a mio parere cruciali:
quando i Lager divennero riserve di manodopera? Una funzione del genere fu loro attribuita fin dal loro sorgere nel 1933, oppure la assunsero in seguito? Ed in questo secondo caso, in quale momento? Nel 1937-38, allorché iniziò la deportazione dei cosiddetti "asociali"? Nel 1939, con l’aggressione alla Polonia, Nel 1941, con l’attacco all’Unione Sovietica? Od ancora dopo?
quanto era alta la produttività dei lavoratori schiavi prelevati dai KL? Se la confrontiamo con quella degli operai tedeschi, degli stranieri reclutati negli Stati alleati e nei territori occupati dalla Wehrmacht, dei prigionieri di guerra che cosa se ne può ricavare?
per quanto riguarda le condizioni materiali di vita dei deportati in KL, l’impiego come manodopera coatta corrispose ad un peggioramento od a un miglioramento (ovviamente relativo!) delle loro condizioni di vita? Come variò il tasso di mortalità su base annua (unico parametro tragicamente preciso delle variazioni in merito)?
in qual misura e come influì sulla decisione di impiegare i deportati in KL l’andamento della guerra, ed in particolare lo svilupparsi delle operazioni sul fronte orientale?
Inoltre, occorre tenere presente che non si deve mai cercare una razionalità astrattamente coerente nel procedere di un regime come quello nazista (ma anche, in senso più generale, in tutti i sistemi complessi); in altre parole, possono tranquillamente coesistere nello stesso arco temporale processi di radicalizzazione nelle pratiche sterminatorie attuate in questo o quel territorio occupato e misure tese a funzionalizzare al soddisfacimento della richiesta di manodopera strutture concentrazionarie pensate per tutt’altri scopi. Nel caso specifico del sistema dei KL costruito dalla SS, punta di diamante per altro di un universo concentrazionario nazionalsocialista assai più esteso ed articolato, ci si deve inoltre attendere, per le mille sfaccettature che la rete dei Lager mostra, un panorama fortemente disomogeneo ed assai diversificato al proprio interno. Ogni campo di concentramento richiederebbe, di conseguenza, un’analisi diacronica a sé stante; si possono ovviamente cogliere tendenze generali ovunque riscontrabili, ma solo a patto di essere consapevoli che ogni sintesi non rappresenta altro che una media con forti connotati di astrazione.
E’ altresì necessario tenere ben distinta la posizione degli ebrei: dal tardo autunno 1941, infatti, venne avviata – attraverso la costruzione e la messa in opera di 5 speciali installazioni di morte (Vernichtungslager – VL: Auschwitz-Birkenau, Bełzec, Chełmno, Sobibor, Treblinka) – la loro eliminazione in massa, continuata senza soste fino alla tarda estate 1943, quando anch’essi furono presi in considerazione dalle autorità nazionalsocialiste come possibile riserva per far fronte alla disperata fame di braccia del Terzo Reich e di conseguenza sottoposti alla selezione che separava coloro che apparivano ancora utilizzabili come lavoratori schiavi da quanti (troppo giovani, o troppo vecchi, o donne incinte, od infanti) venivano destinati all’immediata gasazione.
La questione dell’utilizzo come manodopera forzata dei deportati in KL porta altresì alla luce conflitti e contraddizioni specifiche della struttura di potere nazionalsocialista; prima di tutto in quanto caso particolare del più generale problema dell’impiego di braccia straniere che aveva visto contrapporsi, fin dalla seconda metà degli anni Trenta, istanze che si ergevano a custodi e vestali della purezza ideologica e della Weltanschauung nazionalpopulista e razzista, e strutture più propense a dar credito alla razionalità strumentale. Le prime, identificabili con i vertici dell’apparato SS (in particolare l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – Reichssicherheitshauptamt RSHA) e del ministero dell’Agricoltura (guidato da Walther Darré, capofila del ruralismo völkisch), temevano infatti l’indebolimento della stirpe qualora attività fisiche tradizionalmente sinonimo di forza e robustezza (il lavoro dei campi e delle miniere, per esempio) fossero state affidate a stranieri; le seconde, rappresentate dagli uffici civili e militari che si trovavano a gestire materialmente il collocamento della manodopera (e perciò a fare i conti con il problema della scarsità e con le conseguenti pressioni degli imprenditori) mettevano in campo esigenze di natura eminentemente pratica, legate alla necessità di non far calare i volumi produttivi.
Tipicamente, le soluzioni di volta in volta trovate tesero da un lato a ribadire l’unanime ossequio alla dottrina razzista del regime, dall’altro ad accontentare le esigenze immediate dell’economia presentando l’utilizzo di stranieri come soluzione di breve periodo, presa al solo fine di superare strozzature contingenti ma di cui si sarebbe con certezza fatto a meno dopo l’immancabile vittoria finale. Un secondo terreno di scontro, che vide alcuni degli attori poc’anzi presi in esame schierarsi, questa volta, a ranghi rovesciati, si aprì nel corso del 1942, a causa del tentativo da parte della SS di dar vita ad un proprio apparato economico e produttivo, che poteva ovviamente giovarsi della disponibilità di manodopera coatta e praticamente gratuita quale quella disponibile nei KL (a metà di quell’anno circa 95.000); alle manovre dell’Ordine Nero guidato da Heinrich Himmler si oppose, con successo, un’alleanza tra industria privata e burocrazia delle istanze economiche dello Stato, che trovò il proprio mentore in Albert Speer, il potente ministro delle Armi e Munizioni. Alla SS non restò al momento altra possibilità se non quella di appaltare alle imprese braccia che fossero loro necessarie, come si sarebbe ampiamente verificato nell’ultimo biennio del conflitto, anche se non rinunciò mai del tutto alle speranze di poter giocare un ruolo chiave nella produzione di armamenti. La questione fu discussa in un incontro, svoltosi il 15 settembre 1942, tra Speer e Pohl, a cui presero parte anche alcuni tra i loro principali collaboratori. Nel riferirne ad Himmler, il capo del WVHA affermò che le uniche resistenze all’assunzione da parte della SS di compiti di rilevante profilo nell’ambito della produzione di armamenti erano venute da Karl Otto Saur, personaggio tuttavia chiave: proveniente dall’industria privata, Saur era il vice di Speer al ministero e ne guidava l’ufficio tecnico. In fin dei conti, sarebbe stato lui ad avere partita vinta.
E’ opportuno, a questo punto, fare un passo indietro, e ripercorrere la storia dei KL dalla loro prima apparizione sul suolo tedesco, esaminandone vicende, sviluppi, dimensioni, e soffermandosi in particolare sul ruolo che il lavoro coatto ebbe nella varie fasi della loro esistenza. La base giuridica per la costruzione dei KL fu l’ordinanza per la "protezione del popolo e dello Stato" emanata il 15 febbraio 1933 dal Presidente della Repubblica Paul von Hindenburg; il pretesto fu l’incendio del Reichstag. La disposizione introduceva l’istituto della Schutzhaft, detenzione per motivi di sicurezza (dello Stato), dava cioè facoltà alla polizia di arrestare e trattenere in apposite installazioni – al di fuori di qualsiasi controllo della magistratura – chiunque fosse giudicato pericoloso. In tal modo il diritto alla libertà personale garantito dalla costituzione della Repubblica di Weimar risultò vanificato.
La storia dei KL può essere divisa in tre fasi: nella prima, che va dal 1933 al 1936, furono imprigionati soprattutto i militanti delle organizzazioni del movimento operaio, che erano state poste fuori legge. Arrestati da unità delle SA, della SS o da reparti della polizia ufficiale, alla fine di luglio 1933 si trovavano in Schutzhaft circa 33.000 quadri del Partito comunista, di quello socialdemocratico e dei sindacati. Essi vennero concentrati in prigioni provvisorie e in campi allestiti in gran fretta (cosiddetti wilde KL, campi di concentramento selvaggi) per iniziativa sia delle polizie e delle amministrazioni dei diversi Länder, sia dei comandi di reparti SA o SS.
Nella primavera del 1934 questa prima rete concentrazionaria, nata essenzialmente da spinte locali, passò sotto la giurisdizione di Heinrich Himmler, già capo supremo della SS e nel frattempo diventato comandante della polizia di alcuni Länder. Il controllo sui Lager divenne perciò esclusiva competenza dell’apparato SS. Il 4 luglio 1934 Himmler nominò Theodor Eicke, comandante del KL di Dachau presso Monaco di Baviera, ispettore generale dei KL e comandante dei reparti SS che vi prestavano servizio di guardia (SS-Wachverbände, dal 1936 denominate SS-Totenkopfverbände – unità "teschio" della SS – per via delle mostrine che portavano sull’uniforme). Eicke stabilì le norme organizzative fondamentali a cui ogni KL si doveva attenere, fissò regole disciplinari e punizioni, e piazzò parecchi suoi sottoposti di Dachau alla guida di analoghe installazioni. Numerosi wilde KL sorti nel 1933 furono chiusi e si diede vita ad una struttura centralizzata basata su sei grandi campi (oltre a Dachau, Lichtenburg, Sachsenburg, Esterwegen, Oranienburg, e la Columbia-Haus, a Berlino).
Nel settembre 1935 i KL, così ristrutturati, ospitavano in tutto 6.000 prigionieri; il 75% di essi era costituito da militanti politici (buona parte degli oppositori arrestati nelle grandi retate del 1933 era stata nel frattempo scarcerata), gli altri erano criminali comuni, persone senza fissa dimora e mendicanti. Queste due ultime categorie erano entrate nel mirino della repressione nazista dall’autunno 1933. Il lavoro forzato imposto ai deportati era una costante dei KL, ma all’inizio e per un periodo relativamente lungo ebbe essenzialmente un carattere punitivo.
La seconda fase, apertasi nel 1936 e conclusasi nel 1942, fu caratterizzata dall’estendersi della rete concentrazionaria, in stretta connessione prima con la preparazione della guerra e poi con la sua conduzione. Nello stesso tempo il concetto di "prevenzione politica", a cui si era ispirata la deportazione in KL nella prima fase, prese a caricarsi sempre più di connotazioni razzistico-sociali: nemico del Volk (il popolo-stirpe caro ai nazionalsocialisti) non è più soltanto colui che operava politicamente contro il regime hitleriano, ma tutti coloro che si ponevano al di fuori dei valori della Volksgemeinschaft (la comunità di stirpe ad un tempo oggetto sovraindividuale esistente ed obiettivo finale della prassi nazista). La politicità, in altri termini, non risiedeva in ciò che si faceva, ma in ciò che si era. A eccezione di Dachau, i campi strutturati del 1935 vennero sciolti o ridenominati e poi sostituiti da installazioni di dimensioni maggiori: nel 1936 Sachsenhausen, nel 1937 Buchenwald, nel 1938 Mauthausen (nell’Austria appena annessa) e Flossenburg, nel 1939 Ravensbrück (KL destinato alle donne), nel 1940 Auschwitz (nell’Alta Slesia ex polacca), nel 1941 Natzweiler-Strutthof (nell’Alsazia ex francese), nel 1942 Stutthof (nei pressi di Danzica). Nel frattempo, Neuengamme e Groß-Rosen, già sottocampi di Sachsenhausen, erano stati dichiarati autonomi (rispettivamente nel 1940 e nel 1941). Dopo che, nel giugno 1936, Himmler ebbe preso possesso della carica di capo della polizia tedesca, creata appositamente per lui, egli dispose che venissero deportati nei KL i responsabili di numerosi reati comuni, persone senza fissa dimora e prive di lavoro stabile, omosessuali e prostitute, categorie tutte accomunate sotto la definizione di "asociali"; questa nuova ondata di deportazioni ebbe un incremento negli anni 1937 e 1938, allorché il sistema concentrazionario cominciò ad avere anche una funzione economica.
L’attuazione del secondo piano quadriennale (Vierjahresplan), infatti, il cui fine era quello di preparare il paese alla guerra, ebbe come conseguenza la scarsità di manodopera, in particolare nel settore edile. L’apparato SS pensò allora di servirsi dei deportati come lavoratori coatti, per motivi economici ma anche per rafforzare la propria posizione di potere all’interno del Terzo Reich; pertanto, vennero fondate aziende che facevano capo direttamente alla milizia nera, e dal 1937 si cercò di fare in modo che nelle vicinanze dei KL aperti di volta in volta ci fossero cave di pietra o fornaci in cui impiegare i detenuti. Obiettivo era la produzione di mattoni, lastre di granito, materiali da costruzione in vista dei colossali lavori di ristrutturazione, espansione, monumentalizzazione delle città tedesche che il gruppo dirigente del regime aveva in animo di avviare. La produttività dei deportati utilizzati come schiavi era estremamente bassa, data la concomitanza di durissime condizioni di vita e di lavoro ed il carattere assai primitivo delle tecniche utilizzate, ma ciò non costituiva certo un problema dato il costo minimo della manodopera e la sua rapida sostituibilità.
All’inizio della guerra, i deportati erano circa 25.000, ma tale cifra era destinata ad aumentare rapidamente in seguito ai rastrellamenti e alle repressioni nei territori occupati, tanto che dalla tarda estate del 1940 i deportati tedeschi divennero minoranza. Tutto ciò determinò un catastrofico sovraffollamento delle strutture concentrazionarie con un conseguente aumento della mortalità; a Dachau il tasso annuo passò dal 4% del 1938 al 36% del 1942; a Buchenwald dal 10% del 1941 al 19% del 1941; a Sachsenhausen dal 3% del 1938 al 16% del 1941; a Mauthausen, dal 1938 al 1942, addirittura dal 24 al 76%!
Nell’inverno 1941/1942, l’insieme dei KL ospitava circa 60.000 persone: ai deportati di nazionalità tedesca si erano ormai aggiunti cittadini dell’Austria e dei Sudeti annessi al Reich, del cosiddetto Protettorato di Boemia e Moravia, nonché dei paesi europei via via occupati dalla Wehrmacht. Dopo l’aggressione all’URSS, furono deportati nei KL anche numerosi prigionieri di guerra sovietici, la maggior parte dei quali fu uccisa in base al Kommissarbefehl (ordine riguardante i commissari politici) emanato il 6 giugno 1941, due settimane prima dell’attacco, dal comando supremo della Wehrmacht. Il significato economico del lavoro forzato dei deportati in questi mesi crebbe ulteriormente, ma essi continuarono a venire impiegati con assoluta prevalenza nelle officine, nelle fornaci e nelle cave messe in piedi dalla SS; il manufatto di maggior rilevanza prodotto in tal modo furono mattoni, nulla che avesse direttamente attinenza con l’industria di guerra. La produttività rimase, come in precedenza, assai scarsa. Nonostante ciò, fu proprio allora che ebbero inizio gli sforzi del gruppo dirigente SS per giocare un ruolo in settori produttivi chiave per l’economia di guerra.
Nel terzo periodo, che va dal 1942 alla fine della guerra, il sistema concentrazionario venne totalmente asservito all’economia di guerra del Terzo Reich. Le altissime perdite subite dalla Wehrmacht sul fronte orientale costrinsero i dirigenti nazionalsocialisti a sottrarre sempre più manodopera alle attività produttive, in quanto le operazioni militari richiedevano un numero progressivamente crescente di soldati. Si cercò di far fronte al problema prelevando quote via via maggiori di lavoratori (uomini e donne) dai territori occupati, e attingendo alla riserva costituita dai deportati, il cui numero totale crebbe a ritmi esponenziali (nel gennaio 1945, secondo l’ispettorato dei KL i prigionieri in forza erano 714.211).
Le decisioni fondamentali caddero tutte nel primo semestre del 1942, dopo l’arresto del fronte davanti a Mosca e la prospettiva sempre più incombente del passaggio del conflitto da guerra-lampo a guerra d’usura; il 10 gennaio 1942 Hitler emanò l’ordinanza Rüstung 42 (Armamento 1942), che segnò il passaggio ad una vera e propria pianificazione nella produzione bellica; il 1° febbraio Himmler ordinò la costituzione del WVHA come struttura autonoma, in cui vennero fuse le sezioni "Bilancio e costruzioni" e "Amministrazione ed economia" prima facenti capo al comando SS; il 3 marzo egli dispose che l’Ispettorato dei KL fosse incorporato nella neocostituita centrale economica ed amministrativa SS; diciotto giorni dopo, il 21 marzo, venne creato l’ufficio del Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera (Generalbevollmächtiger für den Arbeitseinsatz – la carica fu attribuita al Gauleiter di Turingia Fritz Sauckel); data dallo stesso periodo lo sviluppo del ministero delle Armi e Munizioni, diretto dopo la morte di Fritz Todt l’8 febbraio 1942 da Albert Speer, come centro della produzione di guerra tedesca.
Con la costituzione del WVHA il Reichsführer SS intendeva da un lato approfittare della situazione di carenza di manodopera per rafforzare il ruolo dell’apparato ai suoi ordini, dall’altro impedire che anche l’utilizzo dei deportati in KL passasse sotto il controllo del GBA, di cui si sapeva imminente la costituzione. Lo sforzo di Himmler fu coronato da successo: Sauckel rinunciò ad occuparsi della riserva di braccia costituita dai deportati, ed Hitler approvò il progetto del comando SS di costruire impianti produttivi di interesse militare nei Lager, servendosi come manodopera dei deportati. Nonostante ciò, se si esclude il settore delle costruzioni edili (passato dalla fine di agosto 1943 sotto il controllo del già ricordato Kammler Sonderstab), lo sviluppo delle imprese direttamente dipendenti dalla SS non conobbe nei mesi successivi alcun rilevante passo in avanti: nel settembre 1943 appena il 15% di tutti i deportati (34.000, cioè) lavorava in aziende che facevano capo al WVHA, e la cifra non sarebbe mutata gran che in seguito, mentre la percentuale di coloro che erano utilizzati in installazioni produttive esterne, dipendenti da società private o da altri settori della pubblica amministrazione (come la Wehrmacht) aumentò vertiginosamente.
Preso atto della resistenza dell’industria privata a cedere terreno di fronte alla SS, Himmler accettò, nel settembre successivo, la proposta di Speer di costruire campi dipendenti dai KL centrali (Außenlager) là dove si trovassero fabbriche adibite alla produzione di armamenti. Di conseguenza, l’apparato SS stipulò veri e propri contratti con il ministero delle Armi e Munizioni, e con imprese pubbliche e private per l’affitto di manodopera coatta. Inoltre, il WVHA ordinò la costruzione di numerosi sottocampi nei pressi dei distretti industriali interessati. Una volta definite con precisione le reciproche sfere di potere e competenza, com’è noto l’industria privata non perse tempo a servirsi della nuova opportunità di disporre di manodopera. Ma non erano mancate iniziative in proposito anche in precedenza; tra i primi ad operare in tal senso fu il colosso chimico IG Farben.
Assicuratasi negli anni Trenta il monopolio della produzione delle gomma sintetica (Buna), l’IG Farben decise di procedere, nella seconda metà del 1940, alla costruzione di due nuovi stabilimenti, uno dei quali da piazzare in Slesia. Dopo una serie di sopraluoghi, Otto Ambros, alto dirigente del Konzern, indicò nel gennaio 1941 come località più adatta una piana situata circa cinque chilometri ad oriente del villaggio di Auschwitz. Concepita come un impianto chimico polivalente di colossali dimensioni, in grado cioè di abbattere in notevole misura i costi di produzione, la nuova fabbrica aveva urgente bisogno di manodopera per essere costruita; fu così che Karl Krauch, anch’egli come Ambros tra i manager di punta dell’IG Farben ed inoltre responsabile della produzione chimica nell’ambito dell’autorità del piano quadriennale, si rivolse nel febbraio ad Hermann Göring perché intervenisse in tal senso su Heinrich Himmler. Dalle settimane successive prese perciò corpo l’ipotesi di servirsi come manodopera dei deportati del KL di Auschwitz. Ciò ebbe conseguenze di gran peso, sia a breve, sia a medio termine, sull’evoluzione del Lager; non soltanto, infatti, Himmler rispose positivamente alla richiesta di Göring, ma si recò personalmente ad Auschwitz, dove ordinò al Lagerkommandant Rudolf Höß di portare il numero dei deportati ad almeno 30.000, 10.000 dei quali da mettere in seguito a disposizione dell’IG Farben. Contestualmente il Reichsfüher SS dispose lo sdoppiamento del Lager attraverso l’apertura di un secondo campo in località Birkenau, destinato in origine ad accogliere prigionieri di guerra sovietici di cui si prevedeva un consistente afflusso in seguito al prossimo avvio dell’ "Operazione Barbarossa", ed incaricò il suo braccio destro, il generale della SS Karl Wolff, di prendere contatto con la direzione dell’IG Farben. Il 7 aprile 1941 si svolse un incontro al vertice tra SS e Konzern che definì le modalità della cooperazione. Non ci interessa, in questa sede, ricostruirne il percorso, che si snodò non senza conflitti anche gravi; è importante precisare tuttavia da un lato che la decisione del Konzern di installarsi ad Auschwitz fu presa indipendentemente dalla presenza nelle vicinanze di un KL, dall’altro però che, una volta avvenuta la scelta, la contigua localizzazione fisica di entrambe le installazioni ne avrebbe reciprocamente condizionato lo sviluppo.
Simile la vicenda della Steyr-Daimler-Puch (SDPAG), impresa metalmeccanica austriaca di rilevante interesse militare entrata a far parte, con l’Anschluß (1938) del Konzern "Hermann-Göring-Werke" (HGW), controllato dal maresciallo del Reich. Avendo necessità di manodopera metameccanica per le proprie officine ed edile per i cantieri dove erano in costruzione nuovi impianti il direttore generale, l’austriaco Georg Meindl, riuscì fin dalla primavera del 1941, attraverso contatti con i Gauleiter dell’Alto Danubio e della Stiria, nonché con il Comandante superiore della SS e della Polizia per l’Ostmark, Ernst Kaltenbrunner, a farsi mettere a disposizione dal comandante del KL di Mauthausen circa 300 deportati per le fabbriche di Steyr, distanti circa 30 chilometri dal Lager. All’inizio del 1942 Meindl chiese nuovamente l’aiuto di Kaltenbrunner, proponendogli addirittura di dislocare a Steyr nei pressi delle officine un distaccamento di Mauthausen. Fu accontentato: nel marzo successivo fu costruito nei pressi del nuovo stabilimento di munizioni della SDPAG nel sobborgo di Münichholz un campo di baracche destinato ad ospitare circa 2.000 lavoratori schiavi provenienti da Mauthausen. Si trattò del primo Lager dislocato appositamente nei pressi di un’industria di interesse militare.
Analogamente, anche nel caso della fabbrica di automobili Volkswagen, in costruzione dal 1938 a Fallersleben, in Bassa Sassonia, per iniziativa della potente Corporazione dei lavoratori industriali (Deutsche Arbeitsfront - DAF) guidata da Robert Ley, si cominciò all’inizio del 1941 a parlare della possibilità di utilizzare deportati come manodopera. L’iniziativa in questo caso fu però di Heinrich Himmler, che nel marzo propose alla direzione del cantiere di insediare un KL sul luogo dei lavori. L’offerta fu accettata poiché veniva incontro alla stringente necessità di disporre di manodopera non tanto per la produzione nelle officine, quanto per il completamento della nuova città destinata ad accogliere gli operai della Volkswagen. Venuta meno la speranza di poter ottenere lavoratori civili italiani, come negli anni precedenti, si presero in considerazione ebrei polacchi, deportati dal Generagouvernement o dal Warthegau, e prigionieri dei KL. Data la particolare natura della Volkswagen, direttamente dipendente da una importante istituzione dello Stato nazista come la DAF, una stretta collaborazione con la SS appariva meno problematica; nonostante ciò si sarebbe giunti all’effettivo impiego di deportati solo parecchi mesi più tardi, nel dicembre 1941.
Dopo il riassetto della primavera 1942, la rete concentrazionaria non cessò di svilupparsi, inglobando Lager preesistenti che tuttavia fino ad allora dipendevano da altre amministrazioni (come l’ex campo di detenzione della polizia di Vught-Herzogenbusch, nei Paesi Bassi, il campo di lavoro per ebrei di Cracovia-Plaszów, il campo di sosta per detenuti ebrei di Bergen-Belsen, i campi di lavoro per ebrei situati in Estonia). In questo contesto un ulteriore momento di svolta sopravvenne nell’estate 1943; da un lato cominciarono a ridursi, ad Oriente, le possibilità di arruolamento coatto di manodopera (i cosiddetti Ostarbeiter), a causa del progressivo ritrarsi del fronte dopo la battaglia di Stalingrado, e il GBA non riuscì più a fornire all’economia di guerra tedesca le quote di lavoratori stranieri previste, dall’altro i bombardamenti alleati sulla Germania iniziarono a farsi incessanti, infliggendo alla sua produzione bellica ferite profonde. Con l’avvio dei giganteschi programmi di trasferimento sotterraneo di intere produzioni industriali i KL divennero assai importanti come fonte di manodopera da impiegare senza risparmio nei cantieri; ciò rappresentò da un lato un cruciale cambiamento nelle modalità di impiego nel lavoro dei deportati (contribuendo a ridurne drasticamente le speranze di sopravvivenza), dall’altro un potente incentivo per l’apparato SS ad aumentare ad ogni costo ed in qualunque maniera il numero dei deportati. Non casualmente in quest’ultima fase la percentuale di stranieri detenuti in KL superò il 90% del totale. La dislocazione dell’industria rappresentò inoltre per la SS una fortunata opportunità per riconquistare almeno in parte quello spazio e quel ruolo cruciali nell’economia di guerra tedesca a cui l’Ordine Nero da tempo mirava, e per superare la secca battuta d’arresto con cui aveva dovuto fare i conti nei primi mesi del 1942.
Ulteriori prospettive nella stessa direzione vennero aperte dalla creazione, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 1944, della Commissione centrale per i caccia (Jägerstab). Composto da alti funzionari dei ministeri dell’Aviazione e delle Armi e Munizioni e da esponenti dell’industria aeronautica, lo Jägerstab – di cui fu chiamato a far parte, il 4 marzo, anche Hans Kammler in rappresentanza del WVHA – aveva come compito prioritario di potenziare al massimo la produzione di caccia, individuata come strategica per la continuazione delle ostilità da parte della Germania; a tale scopo occorreva ricostruire in gran fretta le officine distrutte o danneggiate dai bombardamenti alleati, decentrare quelle più esposte, ed accelerare ulteriormente lo spostamento delle produzioni chiave in installazioni sotterranee o comunque sicure. Ciò comportava, ovviamente, un impiego sempre più grande di deportati. Nel giugno del 1944 le industrie chiesero infatti di poter disporre dell’enorme cifra di 250.000 deportati solo per i cantieri dove si costruivano officine protette. Per far fronte ad una domanda di simili proporzioni lo Jägerstab aveva pensato di far ricorso ad almeno 100.000 ebrei ungheresi, una quota dei quali fu effettivamente trasferita nel Reich, in contrasto con la decisione di due anni prima tesa a rendere la Germania judenrein (purificata dalla presenza ebraica), 50.000 italiani, ed altri gruppi minori.
Accanto e parallelamente allo Jägerstab, in quegli stessi mesi si servirono massicciamente di manodopera schiava estratta dai KL le strutture (in parte dipendenti dall’esercito, in parte facenti capo al ministero delle Armi e Munizioni, in parte legate direttamente all’industria privata) a cui era stata delegata la produzione missilistica. All’inizio di aprile 1943 l’ufficio responsabile dell’approvvigionamento di manodopera nell’ambito della Commissione speciale per la costruzione del razzo A4 (Sonderausschuß A4), che si serviva degli impianti di Peenemünde, propose di utilizzare deportati nell’officina che si occupava della produzione di prototipi. La proposta ebbe successo, tanto che pochi giorni dopo una delegazione ad alto livello del Sonderauschuß si recò per un sopraluogo presso le officine della Heinkel ad Oranienburg, dove dall’agosto 1942 venivano impiegati nel lavoro deportati; al momento della visita ce n’erano 4.000. La delegazione diede un giudizio positivo, tanto che all’inizio di giugno partirono le prime richieste indirizzate al WVHA; inizialmente si volevano 1.400 lavoratori schiavi, in prospettiva la cifra avrebbe dovuto salire a 2.500. I primi 200 sarebbero effettivamente giunti alla metà del mese. Di lì a poco si decise di estenderne l’impiego anche negli stabilimenti localizzati a Wiener Neustadt e Friedrichshafen, dove la produzione era già stata avviata. Alla fine di giugno i primi 500 deportati trasferiti dal KL di Mauthausen fecero il loro ingresso nelle officine di Wiener Neustadt; un mese dopo sarebbero già diventati 1.200. Il 22 di giugno anche a Friedrichshafen venne aperto un sottocampo, dove alloggiare i deportati da utilizzare presso la fabbrica Zeppelin, dove era avviata la costruzione di A4.
Nel mese di agosto, in seguito alla decisione presa da Hitler l’8 luglio di dare la massima priorità al programma missilistico, l’impiego di deportati subì un’accelerazione e venne esteso anche alla quarta installazione produttiva, nel sobborgo berlinese di Falkensee. L’ondata di bombardamenti alleati che colpì nella decade centrale di agosto 1943 sia Wiener Neustadt, sia Friedrichshafen, sia infine Peenemünde, persuase il gruppo dirigente nazista da un lato che i nemici fossero a conoscenza dei propri piani missilistici (cosa per altro vera solo in parte), dall’altro della necessità di dislocare in installazioni sotterranee gli impianti, per sottrarli a prevedibili attacchi futuri. Ciò offrì alla SS la concreta possibilità di inserirsi nel programma missilistico, da cui fino ad allora era stata esclusa, ottenendo – questa volta – anche il consenso di Speer.
Non senza contrasti e conflitti di potere, che sfociarono in una sorta di divisione del lavoro tra ministero delle Armi e Munizioni, industria privata ed SS, si decise alla fine di agosto di localizzare il nuovo centro di produzione missilistica nello Harz, a Nordhausen, dove già esistevano officine sotterranee, bisognose solo di ulteriori ampliamenti. Denominato Mittelbau e noto in seguito come Dora, l’insediamento fu immediatamente popolato con deportati provenienti dal vicino KL di Buchenwald; responsabile dei lavori di ristrutturazione fu nominato Hans Kammler, fino ad allora capo del settore costruzioni all’interno del WVHA e da questo momento designato commissario straordinario all’edilizia per la costruzione di missili A4. In quest’ultima funzione egli dipendeva dal ministero di Speer e non dalla gerarchia SS, venendo in tal modo a rappresentare una sorta di anello di congiunzione tra le due istituzioni. E’ significativo ricordare la disposizione che Kammler diede ai suoi sottoposti impegnati nei lavori sotterranei a Dora: "Non preoccupatevi delle vittime umane; i lavori devono procedere senza sosta, e nel tempo più breve possibile". Il modello di Dora venne esteso di lì a poco ad altri impianti deputati alla produzione missilistica: i sottocampi, dipendenti da Mauthausen, di Schlier Redl-Zipf (Alta Austria) e di Ebensee, dove fu decentrata la produzione di Wiener Neustadt. Nell’ottobre 1944, infine, proprio Dora-Mittelbau, fino ad allora sottocampo di Buchenwald, fu trasformato in KL autonomo.
Senza assolutamente trascurare ogni possibilità di recuperare manodopera qualificata tra i deportati, attività in cui profusero notevoli sforzi imprese come la BMW, la Daimler-Benz, la Osram, l’IG Farben, la Volkswagen, e mille altre ancora, va messo in rilievo come si trovassero nella posizione migliore per utilizzare deportati come manodopera schiava quei settori produttivi in cui la razionalizzazione aveva fatto maggiori progressi, e perciò si caratterizzavano per una minore necessità di lavoro qualificato, una più alta meccanizzazione, l’introduzione ovunque possibile di tecniche di montaggio seriale, una maggior presenza di personale addetto alla sorveglianza. Quanto meno nel contesto specifico che si è cercato di analizzare, l’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro aumentò la compatibilità tra produzione ad alta tecnologica ed utilizzo di lavoratori schiavi.
Una questione cruciale, nel dibattito storiografico, è rappresentata dalla questione della produttività; più volte è stato sottolineato l’interesse economico dell’apparato produttivo del Terzo Reich ad utilizzare manodopera straniera in condizioni più o meno forti di costrizione, eppure l’analisi empirica ci mostra come né i lavoratori civili reclutati nei paesi alleati od occupati, né i prigionieri di guerra, né tanto meno i deportati in KL abbiano mai raggiunto la produttività degli operai tedeschi, rimanendone sempre al di sotto di quote significative. Quanto più la condizione della manodopera impiegata si scostava – in peggio – dalla condizione del lavoratore tedesco, tanto più la sua produttività era bassa. Quella dei deportati era perciò, complessivamente parlando, al livello minimo della scala, oscillando dal 5 al 50% rispetto a quella dei lavoratori tedeschi. La decisione di farvi ricorso, ed in modo sempre più esteso man mano che passavano i mesi, va perciò analizzata nel contesto specifico, come unica via per reggere la continuazione dello sforzo produttivo in condizioni sempre più critiche, ed in presenza di una scarsità strutturale di braccia. In questo senso – e solo in questo senso! – essa appare conseguenza dell’applicazione di una razionalità utilitaristica e strumentale che assunse però come vincoli indiscussi (ed indiscutibili) la continuazione della guerra, la logica di stratificazione razziale tipica della Weltanschauug nazionalsocialista, la spinta all’autoconservazione delle strutture burocratiche portanti del regime (SS, Wehrmacht, ministeri, autorità create ad hoc come il GBA, ecc.).
Altrettanta discussione ha suscitato il complesso rapporto tra Weltanschauung razzista tipica del nazionalsocialismo ed espressa al massimo grado dall’apparato SS, e razionalità orientata al profitto attribuita al sistema delle imprese coinvolte nell’economia di guerra del Terzo Reich; come abbiamo visto, conflitti tra i due ambiti non mancarono ed ebbero esiti alterni, mai però essi presero le mosse da questioni di principio circa l’utilizzabilità o meno di deportati nelle officine. Semmai ebbero come oggetto spazi di azione e di gestione del potere. Ovviamente la logica della SS era di natura sterministica; suo obiettivo restava l’annientamento dei Gemeinschaftsfremden, dei nemici della Volksgemeinschaft cioè. Nell’immediato ciò non mancò di suscitare contrasti con le imprese, interessate alla produttività e perciò coscienti della necessità di mantenere i deportati almeno un filo al di sopra dell’inedia, ma sul medio periodo anch’esse si dimostrarono tutt’altro che aliene dal considerare la manodopera schiava un mero fattore di produzione ad alto logoramento, facilmente sostituibile e perciò oggettivamente sacrificabile. Non tanto, si badi bene, in nome dell’ideologia razziale (che pure non pochi dirigenti condividevano), quanto in nome di "razionali" esigenze produttive. Esse trovarono un’ulteriore espressione negli ultimi mesi del conflitto: di fronte all’imminente crollo dei fronti, le imprese si servirono in gran numero di deportati per trasferire impianti e macchinari in vista della futura ripresa postbellica. Accanto alle ben più note "marce della morte", il salvataggio e lo spostamento delle macchine fu anch’esso causa di sofferenze e morti innumerevoli,, non tematizzate peraltro, se non marginalmente, nei procedimenti giudiziari simbolicamente indicati con la definizione di "processi di Norimberga". Ma ciò avrebbe voluto dire porre sotto accusa non questo o quell’imprenditore particolarmente compromesso col regime, ma tutto quanto il sistema delle imprese ed il suo ceto dirigente...
Complessivamente, dal 1933 al 1945 furono deportati nel complesso sistema concentrazionario nazionalsocialista tra 2.500.000 e 3.500.000 di esseri umani; circa due milioni vi persero la vita; come già si è accennato, a seconda dei campi e dei periodi vi furono significative differenze nelle condizioni di vita, e di conseguenza nei tassi di mortalità: nella prima fase la detenzione era relativamente breve (in media meno di un anno), e le condizioni di vita molto dure ma relativamente sopportabili; i decessi erano dovuti essenzialmente ai maltrattamenti ed alle fucilazioni arbitrarie da parte del personale di guardia. Il tasso di mortalità si alzò bruscamente nel secondo periodo, in particolare a guerra iniziata, a causa del sovraffollamento, della riduzione delle razioni alimentari, dell’impiego dei deportati in lavori manuali pesantissimi. Se a Dachau od a Sachsenhausen, almeno fino all’inizio della guerra, le possibilità di sopravvivere erano relativamente alte, a Mauthausen esse furono da subito assai limitate.
Nel corso del 1943, vi fu la tendenza a un generale livellamento dei vari KL; l’impiego massiccio di deportati nell’industria di guerra nei mesi successivi portò tuttavia ad una nuova differenziazione. Se per coloro che erano adibiti a mansioni relativamente complesse nelle officine vi furono dei miglioramenti, dovuti non di rado a razioni supplementari di cibo fornite dalle aziende – che altrimenti non avrebbero potuto contare su un livello di produttività accettabile – lo stesso non si può dire dei deportati utilizzati nell’edilizia o nel lavoro di sterro. Il precipitare della crisi del Terzo Reich nelle ultime settimane di guerra fece nuovamente alzare, a livelli mai visti prima, il tasso di mortalità.
E’ appena il caso di ricordare che, delle diverse fasi di sviluppo del sistema concentrazionario nazista, solo l’ultima, la più caotica e complessa, caratterizzata dalla pratica del lavoro schiavo e – nei fatti – dell’annientamento mediante il lavoro, fu conosciuta dai deportati italiani, piombati nell’inferno del Lager solo dopo l’8 settembre 1943. Anche questo aspetto va considerato tra le cause dell’altissimo tasso di perdite che la deportazione italiana ebbe a patire: non più del 10% infatti sopravvisse al Lager.