A. Cavaglion

Storico dell'Istituto Piemontese per la storia della resistenza:

"Letteratura e Shoah"

Da W. Laqueur, "Dizionario dell'Olocausto",

ed. italiana a cura di A. Cavaglion, Einaudi, Torino, 2004.

 

Memorialistica Uno dei dati che subito colpisce chi si trovi a studiare la deportazione dall' Italia è la varietà e la plurivocità della sua memorialistica. La bibliografia (1944.1993), pubblicata da A.Bravo e D.Jalla, registra 146 titoli di racconti in prima persona, monografie e antologie, cui andrebbero aggiunte le voci di memoria affidate a singoli contributi: articoli su periodici, opuscoli, numeri unici (A.Bravo-D.Jalla, Un misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia 1944-1993, 1994). Più recentemente un gruppo di ricerca salisburghese, coordinato da Peter Kuon, ha rivolto la sua attenzione al solo corpus di memorie su Mauthausen e ha concluso che i testi di memoria italiani dedicati alle storie di uomini e donne internati in questo campo è inferiore soltanto, ma non di molto, al numero di memorie venute fuori da una realtà, quella francese, numericamente molto più toccata dall' esperienza concentrazionaria.

Un dato sorprendente, ma non inspiegabile, da collegarsi al modo parallelo, benché al suo interno diversamente segmentato, attraverso il quale Italia e Francia hanno sviluppato il rapporto fra memoria e letteratura da un lato, e, dall' altro, fra memoria e storia. In ambedue i casi i racconti in prima persona - diari, autobiografie, manoscritti rimasti inediti ma trasmessi agli eredi, interviste registrate, memorie rilasciate a fini processuali - hanno assolto ad una evidente funzione di supplenza, sostituendosi ad una storiografia e a una critica letteraria singolarmente latitanti. Per molti anni, praticamente fino alla morte di Primo Levi (1987) la cultura italiana non ha ritenuto che la memoria del Lager fosse degna di essere analizzata con gli strumenti della ricerca scientifica, storiografica o letteraria. Nemmeno gli scrittori passati congiuntamente attraverso l'esperienza della deportazione e della Resistenza hanno manifestato eguale consapevolezza rispetto a due fenomeni non pienamente compatibili. Il caso più emblematico viene da Banditi di Piero Chiodi (1946), che racconta la parentesi in Lager dell'io narrante con enfasi minore rispetto all'epos partigiano che assorbe per intero la trama del libro. Si riteneva, in altri termini, che l'esperienza del Lager non potesse essere raccontata che dal testimone, ma a patto che la si tenesse ai margini: "La gente", ha scritto dei reduci dal Lager EIsa Morante, "voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi o dei morti".

La memorialistica, pur così fiorente, è stata per lunghi decenni considerata come un genere "minore" della comunicazione letteraria, non confrontabile con altri terreni di ricerca storiografica.

Scarse le recensioni significative a questi libri di memorie, quasi nulla la loro circolazione; libri va aggiunto stampati nella maggior parte dei casi da editori minori o minimi, non di rado a spese dell'autore, oggi, come è ovvio, introvabili (la Fondazione A.Gramsci di Torino possiede la più completa raccolta oggi inventariati e la mette a disposizione degli studiosi). Levi stesso, dopo aver scritto i suoi primi due libri, Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963) si auto convinse di aver esaurito il suo dovere di testimone: se voleva farsi narratore doveva prendere atto che nella repubblica delle lettere il Lager non aveva diritto di cittadinanza. Volendo far valere la sua abilità di scrittore bisognava in qualche modo piegarsi e scrivere d'altro. Parallelamente, va osservata la latitanza della storiografia accademica, che ha iniziato a considerare la deportazione un argomento di ricerca molto in ritardo rispetto ad altri contesti europei, lasciando pertanto aperti larghi varchi alla memorialistica, che ne ha giustamente approfittato. Ora che da circa un ventennio, la storiografia e la critica letteraria stanno tentando di recuperare il terreno perduto, la memorialistica offre un ricco repertorio di materiali, una vera sinfonia di voci che spesso però mette a nudo contraddizioni derivanti da quei ritardi. Mentre la storiografia si è costruita per lungo periodo sulle traduzioni (da Langbein a Hilberg), la memorialistica, legata molto spesso al genere della scrittura popolare (emblematico il caso di una memoria di deportazione politica, resa con rara bravura, anche espressiva: Andrea Gaggero, Vestìo da omo, 1992) o rifacendosi a una scrittura più colta, ironica, arguta (Sergio Sarri, La scatola dei fili troppo corti, 2000). Rispetto alla storiografia, la memorialistica ha così potuto godere di una speciale rendita di posizione, derivante da minori condizionamenti della politica cui ha saputo tenersi alla larga. Questo rende estremamente interessante la rilettura di testi che posseggono un surplus di franchezza e di spregiudicatezza rispetto alle indagini degli storici. La posizione appartata, lontana dai clamori giornalistici e mediatici, rende difficile la periodizzazione di una produzione sviluppatasi come e dove ha voluto, senza sottostare alle convenzioni ideologiche del momento.

Un primo dato significativo viene dalle voci femminili, cui si devono, forse, i testi migliori, usciti subito dopo il ritorno da Lager, quelli che più resistono all'usura del tempo. Il capolavoro di Levispesso tendiamo a dimenticarlo - è accompagnato da tre capolavori, tutti e tre opera di una scrittura femminile: Luciana Nissim, Ricordi della casa dei morti (1946), che apre squarci psicologici di grande rilievo (l'autrice diventerà a Milano una affermata psicoanalista), ma non disdegna riferimenti letterari "alti", fin dal titolo dostoevskiano; Liana Millu, Il fumo di Birkenau (1947), opera di una delicata ricamatrice del tema della nostalgia, caso insigne di un crepuscolarismo nel senso più nobile del termine; Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo (1946), che ha declinato, come nessun altra ex deportata è stata capace di fare, il tema delicatissimo della maternità e del rapporto madre-figli. "Figure spettrali, come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, impossibili perfino alla comune simpatia" - ha scritto EIsa Morante nella stessa pagina del suo romanzo La storia - i sopravvissuti allo sterminio scrivono subito, di getto, soprattutto le donne: pubblicano libri in genere molto esili, che non raggiungono le cento pagine a stampa, con una forza d'urto inadatta al tempo, con un ritmo volutamente non intonato al momento euforico della Liberazione, quando le loro aspre pagine vengono per la prima volta stampate. La forza espressiva è diventata comprensibile e leggibile soltanto molti anni dopo, ma va riletta nelle prime edizioni, così come Se questo è un uomo va preliminarmente indagato nella sua prima stesura di "prosa petrosa". Si pensi a Mauhausen bivacco della morte di Bruno Vasari (1945), uno dei primi testi di memoria che sia uscito in Italia, opera di un giovane triestino cresciuto all'ombra dei fratelli Stuparich, in un fine libretto dove la scarnificazione dello stile, la prosa scabra sono la cifra espressiva di una memoria che non si accontenta di essere mera deposizione giudiziale, ma vuole ergersi a luogo di osservazione della negazione e dell'abominio. Oppure, un'altra storia triestina, quella di Bruno Piazza (Perché gli altri dimenticano, 1956).

La sola riflessione che si deve fare sulla periodizzazione tocca il primo periodo, e serve a caratterizzarlo non come normalmente si fa, cioè come periodo di rimozione, ma, anzi, come una fase di forte presenza: le memorie più alte ed intense uscirono, tutte prima del 1948 e sono tutte voci, per adoperare una espressione di Levi, "poco disposte al lamento e alla querula". Dopo questa fase, nel campo della memorialistica, tutto procederà in modo casuale. E' vano attardarsi su una o l'altra ipotesi di periodizzazione (o sul ruolo che ebbe, per esempio, lo snodo del '68). La scansione delle fasi non è data da eventi esterni, ma da cadenze editoriali interne alla vita associativa degli ex deportati. Nel 1971 esce una curiosa antologia di testimonianze, nel cui titolo, nondimeno, si riassume ancora una condizione di isolamento e di solitudine (Un mondo fuori del mondo, florilegio di interviste rilasciate alla Doxa a un campione di 317 superstiti) La spontaneità del racconto del testimone sgorga quando deve sgorgare e dopo quella intensa prima emissione del 1945-1948 non subì altri condizionamenti se non di una logica interna. Un ruolo decisivo, di sfondamento, di stimolo ad altre memorie in prima persona, certamente avrà l'apparizione di Si fa presto a dire fame di Piero Caleffi, 1954 e una ventina di anni dopo l'antologia La vita offesa (1986).

Prorompente sarà il ritorno di diari e memorie sul finire degli anni Ottanta, davanti all'insorgere del "negazionismo" e soprattutto davanti ad un curioso, secondo trapasso generazionale. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta non soltanto i testi più celebri, già ricordati, conosceranno una seconda giovinezza e verranno pertanto ristampati da case editrici molto più rappresentative, con o senza pesanti e talora ance discutibili interventi correttivi degli autori (così da creare per lo studioso un problema specifico di critica dei testi in vista di edizioni filologicamente corrette di testi talora iniziati a scrivere dentro il Lager). In questo rinnovato clima si ricordino almeno le meritorie collane di una casa editrice come la Giuntina di Daniel V ogelmann, che ha onorato il ricordo della sua piccola sorellina uccisa ad Auschwitz con una serie di importanti volumi, in italiano e in traduzione. Nuove voci si levano, nuovi testimoni rompono il silenzio. Non per parlare ai propri figli - con i quali spesso hanno taciuto -, ma per parlare ai figli dei figli, ai nipoti, cui dedicano diari e ricordi (un esempio fra i tanti: Alberto Todros, Memorie, 2000).

Davanti all'indicibile, in molte circostanze, la riservatezza di Levi ha fatto per così dire scuola e, va aggiunto, a conferma della logica interna che segna il passaggio da una fase alla successiva, che la stessa morte inattesa di Levi non è stato l'ultimo dei fattori che ha generato la nouvelle vague o, come sarebbe meglio dire, la seconda giovinezza dei testimoni. Levi, proprio perché a lungo considerato solo testimone (o memorialista) e non scrittore, ha lasciato un'imponente eredità di affetti, creando una singolare condizione di affiatamento fra gli ex deportati o meglio, come amava dire citando Coleridge, fra Vecchi Marinai: una consuetudine fatta di sguardi, prima che di parole, capace di espandersi al di fuori della cerchia degli ex deportati ebrei: quelli che non avevano mai scritto prima, si decideranno a scrivere dopo la morte di lui, o a permettere che altri scrivessero in nome loro o in nome di chi non poté scrivere mai. Quella che Lidia Beccaria Rolfi (con A.Maria Buzzone, ha curato un'importante antologia di testimonianze di deportate politiche italiana: Le donne di Ravensbriick, 1978) definì un giorno l'Università del Lager conobbe non pochi discepoli: un Felice Malgaroli (Domani chissà: storia autobiografica 1931-1952) o un Ferruccio Maruffi (Codice Sirio. I racconti del Lager, 1992). La testimonianza si abbina ad altri registri stilistici, anche poetici (L.Belgiojoso, Non mi avrete, 1986), avventurosi (M.Magini, Un itinerario per il Lager: chimere, errori ed apostasie, 1993), talora con accenti picareschi, come la memoria di Marc Hermann, pubblicata con una importante prefazione di Levi (Diario di un ragazzo ebreo, 1984).

 

 

Alberto Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Napoli, L'ancora del mediterraneo, 2002, pp. 77-83.

 

Sulla soglia della casa dei morti

 

In uno degli episodi scritti appositamente per la edizione Einaudi di Se questo è un uomo (1958), confluito nel capitolo "Sul fondo", Levi scrive di non aver dimenticato il volto "grave e mite" di un fanciullo, Schlome, che lo ha accolto "sulla soglia della casa dei morti".

In Se questo è un uomo i libri, soprattutto i loro titoli, hanno una rilevanza tale da confondersi con il carattere dei personaggi, i quali, a loro volta, assumono maggiore spessore quanto più è rilevante il titolo che si trovano cucito addosso. Nascosta fra le pieghe del ragazzo polacco ScWome, personaggio-segnalibro, affiora il ricordo di un capolavoro: le Memorie di una casa morta di Fiodor M.Dostoevskij. Un secondo esempio s'avrà poche pagine dopo, con un altro personaggio-segnalibro, AlbertoVercors, contro cui "si spuntano le armi della notte".

Dostoevskij però non è Vercors, le Memorie di una casa morta sono per Se questo è un uomo una fonte troppo a lungo dimenticata dagli interpreti e dallo stesso Levi, che a partire da un certo momento della sua carriera di scrittore riterrà opportuno dare di Dostoevskij un giudizio riduttivo, dimenticando il debito a suo tempo contratto.

Il libro di Dostoevskij, uscito nel 1862, narra le vicende di quattro anni trascorsi dentro la "casa morta" di Omsk, fra uomini in catene, obbrobriosamente marchiati, vestiti di stracci, rasi i capelli: un' opera autobiografica, un documento artistico e psicologico unico nella letteratura ottocentesca, da cui fu tratto, negli anni della dittatura stalinista un importante film di Vasilij F.Fedorov (Mertvyj dom, 1932). Lo scrittore russo era entrato nel "reclusorio" dopo che il tribunale militare lo aveva condannato alla fucilazione in seguito alla sua partecipazione alla presunta congiura di Petrascevskij. La condanna era stata poi commutata alla pena dei lavori forzati In Siberia.

Mentre Levi, dopo la prima apparizione di Se questo è un uomo (1947), ritornava alla sua esperienza di recluso e tentava di mettere ordine ai ricordi della sua casa morta, Rizzoli pubblicava nella Bur (gennaio 1950) una nuova traduzione del capolavoro russo, tradotto e curato da un nome illustre per la slavistica torinese, Alfredo Polledro, già animatore a Torino, negli anni Venti, della casa editrice Slavia, nonché traduttore dei romanzi maggiori di Dostoevskij, personaggio legato al primo affacciarsi nella cultura torinese di Leone Ginzburg. La riedizione della Bur offre dunque a Levi, nel momento in cui si predispone a plasmare il personaggio-Schlome, l'opportunità di riprendere in mano questo libro. Esistevano già precedenti versioni: la vecchia edizione di Treves, del

1912, che portava un titolo capovolto, contestato da Alfredo Polledro: Dal sepolcro de' vivi s'era poi aggiunto Dal mondo dei morti, traduzione di Augusto Pardini, Sonzogno 1934.

Levi sceglie in Dostoevskij innanzitutto un modello strutturale; lo rassicura il venire a conoscenza che lo scrittore russo narri esperienze vissute e dunque sia, come lui, uno testimone "per conto terzi", lo attrae una tessitura che alterni parti diaristiche a parti riflessive. Al pari, e forse più della Commedia, questo libro rappresenta la cornice topografica entro cui collocare la "casa morta" di Auschwitz.

Le "stazioni" di Se questo è un uomo, con poche modifiche, sono le stesse di Dostoevskij. Si ha l'impressione che il messaggio proveniente "dal mondo dei morti" rappresenti una parte non minimale di un canone della letteratura dell'annientamento: come Rabelais lo è per la fame, London per lo sfinimento fisico, i Salmi per il terrore dell'oblio ("i vostri nati torcano il viso da voi"), "la casa dei morti" rappresenta la fonte cruciale riguardo a un tema per Levi niente affatto secondario: "il martirio per fede".

Il Levi dell'esordio è uno scrittore ricco di riferimenti letterari, il suo primo libro è anche la dimostrazione di un apprendistato: per descrivere il Lager occorre padroneggiare una madrelingua, cimentarsi con i luoghi classici che hanno portato al sorgere di una lingua franca dell' annientamento e della reclusione.

Levi riprende da Dostoevskij alcuni snodi fondamentali: "Prime impressioni" diventa "Iniziazione", l'interludio dell'infermeria è un tratto comune, il capitolo finale, "Un'evasione", narra il gesto liberatorio di un detenuto che cerca la fuga, exemplum di una ribellione possibile come "L'ultimo"; l' "ideale caporalesco di virilità" con cui Alex squadra dall'alto in basso il prigioniero Levi è molto simile all'atteggiamento di altezzosa superbia con cui i prigionieri del reclusorio si fanno gioco della debolezza fisica di Dostoevskij; senza contare la babele linguistica di Omsk, il francese mescolato al russo, ai mille dialetti di ceceni, circassi, tartari.

Talora si tratta di accorgimenti stilistici, necessari per accordare il proprio strumento su note ad entrambi congeniali come la salvaguardia della dignità, la disumanizzazione, il raffronto dentro fuori, la nozione di tempo, la capacità di adattamento, le esperienze vissute "come sogni".

Ma sono piccoli accorgimenti, rispetto al genere di questioni più importanti con le quali si confronta Levi prima di scrivere Se questo è un uomo. Ed è un genere di questioni ben diverso da quello che si vedrà più tardi, negli anni Sessanta e Settanta.

Si tenga in evidenza fin da ora che almeno due importanti episodi della "casa dei morti" di Primo Levi - Kuhn e l'agonia di Sòmogyi -hanno tratto cospicuo alimento da Dostoevskij: il problema al quale Levi cerca di dare una risposta ricorrendo al capolavoro dimenticato dello scrittore russo è il rapporto fede-ragione, o per dirla in termini, dostoevskiani, il problema del "martirio per fede", questione più teologica che filosofica.

Personaggi come Schlome, Steinlauf, Kuhn o Sòmogyi risiedono in una realtà che fa di loro dei simboli, sia delle capacità umane di abiezione sia delle prospettive di riscatto. Il "realismo superiore" di Dostoevskij si traduce nel modo di denunciare il male, mettendo in scena l'affermazione del bene, la possibile apertura del male al bene, l'amore per la vita. Quelle che Dostoevskij chiama "le figure del bene", "i personaggi come idee" rivivono in Lorenzo, in Alberto, in Chaijm l'orologiaio pio.

L'episodio di Kuhn è ricalcato sul ragionamento che, nelle Memorie, Dostoevskij svolge intorno al "martirio per la fede", evocando, in due successive sequenze, la figura di un ebreo ortodosso Issàj Fomic':

 

"Egli era a tal segno rngenuamente presuntuoso e vanitoso che anche quella generale curiosità gli faceva

piacere. Con pedantesca e ostentata gravità egli copriva con una tovaglia, in un cantuccio, il suo minuscolo tavolino, apriva il libro, accendeva due candelette e, borbottando certe parole misteriose (...) cominciava la preghiera. Naturalmente tutto ciò era prescritto dal rituale della preghiera e non aveva nulla di ridicolo, ma ridicolo era che Issàj Fomic', come a bella posta, posasse davanti a noi e facesse sfoggio dei riti". E ancora, in un secondo momento: "Egli aveva per altro una sua salvezza, una sua via di uscita: la preghiera e l'idea del martirio. Il detenuto impazzito, che tanto aveva letto la Bibbia e che si era scagliato con un mattone contro il maggiore, apparteneva anch'egli probabilmente ai disperati, a quelli che l'ultima speranza aveva abbandonato; e poiché vivere del tutto senza speranza è impossibile, egli si era trovato una via d'uscita in un volontario, quasi artificiale martirio" (cito da F.Dostoevskij, Memorie di una casa morta, tr. it. di Alfredo Polledro, Milano, Rizzoli, 1950, p. 148. cfr. anche G.Herling, Un mond à part, Paris, Denoel, 1985, p. 95).

 

Levi è con Kuhn più spietato di quanto Dostoevskij non sia con Issàj, ma il modello è sicuramente questo ed è un grave errore continuare a leggere l'episodio di Kuhn - lo si fa normalmente - come dimostrazione ultima ed estrema dell'agnosticismo volteriano e materialista di Levi. L'eco dostoevskiana dimostra che è vero piuttosto il contrario. Il periodo ipotetico con cui si chiudono capitolo e sezione di Kuhn ("Se fossi Dio..."), non è un periodo ipotetico dell'irrealtà. L'autore non esclude affatto l'ipotesi di essere lui "la voce di Dio", chiamata a giudicare la preghiera di Kuhn non in base a nozioni eteronome, ma per il fatto di possedere un linguaggio comune.

C'è un lato scomodo della questione che non si può non affrontare.

Il Levi della maturità non mancherà mai di ricordarci la sua antipatia per lo scrittore

russo, si direbbe con sospetta insistenza, soprattutto nelle interviste, dove ne contesta la prolissità ("Sarebbe opportuno ridurre i suoi libri a un terzo del loro volume" ) e nei Sommersi e i salvati, quando il discorso svia presto in direzione dei Fratelli Karamazov, ignorando le memorie di Omsk (P.Levi, Conversazioni e interviste, a c. di M.Belpoliti, Torino, Einaudi, 1998, pp. 127 e 236; P.Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, Torino, Einaudi, 1997, a c. di M. Belpoliti, voi. I, p. 1034).

Tanta ambivalenza non può non essere stata condizionata, come si diceva, dal contesto in cui Levi si venne a trovare dagli anni Sessanta in poi. Non si possono tacere i condizionamenti ideologici che Levi dovette subire, inducendolo a rimuovere una fonte come Dostoevskij capace di rendere troppo contigue le memorie del Lager e del Gulag.

Nell'appendice all'edizione scolastica del 1976, Levi cita le Memorie, ma a scopo difensivo, prevenendo l'accusa di commistione fra due totalitarismi che nel '76 non erano assolutamente confrontabili sotto nessun punto di vista. L'eventualità che Dostoevkij possa aver ispirato anche Se questo è un uomo non viene presa in considerazione, il tabù non può essere infranto tali preoccupazioni diventano estremamente visibili nella recensione ai racconti della Kolyma, uscita su "Tuttolibri" in quello stesso 1976, Dai Lager di Stalin un articolo che, non a torto, è stato oggetto di polemiche e aspre rimostranze da parte dei più seri studiosi del totalitarismo: "E' una nazione", scrive Levi a proposito della Russia, "la cui storia risale bene indietro nella storia, molto al di là della Casa morta di Dostoevskij di cui in Salamov è costante il ricordo: una nazione di forzati, fondata su di uno sfruttamento feroce e su di una atavica indifferenza al tempo e al dolore" (Opere cit., I, pp. 1199-1200).

I testi letterari hanno, per fortuna, la buona abitudine di parlare da sé e il tempo rende loro giustizia. L'atto di mettersi "sulla soglia della casa dei morti" - una posizione nella quale si riassume come meglio non si potrebbe lo stile di Primo Levi, il suo modo di osservare il Male "sulla soglia" - supera ogni barriera politica e varca ogni tempo. Non è Insensato supporre che, In futuro, qualche nuovo regime fondato sul terrore e sull'ossequio costringerà a fare ricorso alla "casa morta" di Dostoevsklj chi cerchi un sostegno, come accadde a Levi nel 1947, al suo ritorno a casa. C'è solo da augurarsi che nessun contesto politico così fortemente ideologizzato come quello italiano negli anni della guerra fredda costringa uno scrittore a rivedere le sue fonti.

Resta da dire quanto Dostoevskij - in particolare quel suo libro -fosse famigliare alla cultura torinese; l'influsso è molto percepibile dentro la cultura ebraica, cioè nel mondo di Argon. Le "memorie di una casa morta" erano per così dire integrate In un lessico famigliare, figura simbolica di una incombente tragedia, un modello inferiore solo all'Inferno di Dante.

Del convoglio partito da Fossoli il 22 febbraio 1944 - con Vanda Maestro, Franco Sacerdoti e Primo Levi - faceva parte una figura femminile colta e sensibile, una psicoanalista da poco scomparsa, una delle poche persone che su Levi, dopo la sua tragica morte, seppe trovare le parole giuste per commemorarlo: Luciana Nissim. Un anno prima della edizione antonicelliana di Se questo è un uomo, la Nissim volle intitolarli proprio così, i suoi ricordi: Ricordi della casa dei morti (uscirono nel 1946, con prefazione di Camilla Ravera, in un volumetto di un editore torinese poco conosciuto, Vincenzo Ramella).

Infine non si può dimenticare la parola di Emanuele Artom, che suona quasi profetica il 30 marzo 1941, in una pagina fra le più alte dei suoi diari: "Ieri ho finito di leggere con interesse altissimo questo libro. E' inquadrato come se fosse stato scritto da un uxoricida, ma erompe ovunque la personalità dell' autore". Leggendo le annotazioni del giovane sulla casa morta, affidate ad un testo diaristico straordinario si rimane colpiti dalla lucidità con cui, servendosi di quel testo di Dostoevskij, Artom prefiguri la condizione estrema nella quale stavano per entrare gli ebrei nel 1941.

La pagina del diario, riletta oggi, genera nel lettore una specie di spaesamento. Si parla, in effetti, di Dostoevskij, ma, leggendo, non riusciamo a non pensare che si parli anche quasi per telepatia di Se questo è un uomo: "Il libro", scrive Artom, "dovrebbe conservare un carattere di distacco, di documentario, ma da ogni pagina, da ogni osservazione proprio per questo erompe più significativo lo spirito del protagonista; così come, scendendo a fondo nell' anima umana, esaminando le coscienze, condannando il maggior carceriere più di qualunque carcerato, esaltando la profonda bontà di qualche prigioniero, magari assassino, sorge un quadro psicologico senza veli e pregiudizi di un ricercatore accanito e implacabile. (...) a noi che, superati tempi e istituzioni, lo leggiamo con un più vasto spirito di umanità, si impone un senso di purgatorio purificatore, di serenità, di ottimismo, di speranza per un individuo che ha imparato dal dolore, ed ha trovato della virtù in ogni peccatore"( E.Artom, Diari gennaio 1940-febbraio 1944, Milano, CDEC, 1966, pp. 23-24).

Nel dopoguerra sarà la voce di un filosofo, Luigi Pareyson, a rendere chiaro il motivo di questa fascinazione che si può ben dire generazionale e collettiva (non si può leggere il volume postumo di L.Pareyson, Dostoevskij. Filosofia. romanzo ed esperienza religiosa, a c. di G.Vattimo-G.Riconda, Torino, Einaudi, 1993 senza considerare gli studi qui raccolti, che abbracciano gli anni 1967- 1991, come qualcosa di simile al percorso compiuto da Levi fino ai Sommersi e i salvati)

Pareyson, come poi Levi nei Sommersi e i salvati, ritiene Dostoevskij l'autore che ha saputo mettere in scena "la violenza inutile" e la dimessa normalità degli aguzzini: "Il male non è più Lucifero, l'angelo decaduto, meravigliosamente bello nella sua luce infernale e terribilmente sublime nel bagliore del fuoco: da Satana, splendente della luce fredda e sinistra d'astro notturno o sole nero, si è trasformato in un gentiluomo mediocre e convenzionale, vestito in modo elegante ma non impeccabile" (in particolare è impressionante il cap. di Pareyson, "La sofferenza inutile", pp. 170 ss., che meriterebbe un'edizione "a fronte" con il capitolo quasi omonimo dell'ultimo libro di Levi).

Polledro, il catalogo della sua casa editrice, la memoria delle traduzioni dostoevskiane di Leone Ginzburg - morto dopo reclusione nella "casa dei morti" di Regina Coeli -, la premonizione di Emanuele Artom, la voce sorella di Luciana Nissim atte stano, nella città letteraria di Argon, la presenza di una linea sottile che ha preferito osservare il Male "sulla soglia", anziché penetrarne le viscere urlando al mondo il proprio dolore.

 

 

 

 

Dal sito www.istoreto.it

Rubrica didattica

 

 

Una grammatica di ordinarie virtù

 

Questa relazione, e l'esperimento didattico che ne dovrebbe conseguire, parte da una considerazione che è anche una sfida: un tentativo di uscire dalla situazione di stallo in cui spesso veniamo a trovarci quando vogliamo occuparci di deportazione, assumendo degli obiettivi spesso troppo elevati o meramente simbolici, emotivi. Ciascuno di noi, prima o poi, si sarà accorto della ingombrante monumentalità di un tema che non permette all'insegnante di muoversi con disinvoltura e naturalezza. Si ha spesso l'impressione, suffragata dall' osservazione di percorsi talora controproducenti, che i personaggi di cui trattiamo a scuola vengano presentati per la loro eccezionalità, negativa o positiva: per la loro malvagità, se si parla dei carcerieri e delle loro "anime morte", oppure per la loro eccezionale bontà, se si parla dei prigionieri: personaggi tanto lontani dai canoni della ordinaria umanità da apparirci irreali, inverosimili, in qualche modo impresentabili. Il cinema, purtroppo, non ci ha molto aiutato in questi anni, a partire dalla deludente resa cinematografica operata da Rosi su La tregua di Levi; tanto meno aiutano operazioni come La vita è bella o Schindler's List di Spielberg. Quanto mai opportuno giunge, adesso, Il pianista di R.Polanski, un vero capolavoro, che rifugge ogni monumentalità e convenzionalità del ricordo.

Di solito ogni tentativo di rappresentare la Shoah mette l'accento sul ricordo "nonostante tutto", sul ricordo che trionfa sul massacro. Polanski è riuscito nell'impresa fino ad oggi impossibile di restituirci la speranza di rappresentare l'irrapresentabile esonerandolo da ogni misticismo trionfalistico della memoria. In qualche modo, per quanto possa sembrare paradossale, si esce dalla sala riconfortati.

La letteratura su Auschwitz non può, per sua natura; essere di conforto a nessuno e in nessun modo. Talvolta si tende a dimenticarlo. La visione del Pianista - un'esperienza certo durissima per lo spettatore, soprattutto nella prima metà, un capolavoro assoluto - può essere comparata soltanto a due altri precedenti egualmente riusciti, sebbene formalmente diversi: Notte e nebbia di Alain Resnais e Shoah di Claude Lanzmann; in qualche modo Il pianista costituisce una sorta di inatteso, insperato completamento di quei due capolavori: il risultato, non vi è dubbio, è raggiunto sul piano della pura raffigurazione filmica, diciamo pure dellafiction, ma anche Il pianista non è privo di una sua sobrietà documentaristica.

Come Lanzmann, Polanski sa che nessun trionfalismo della memoria è possibile, per questo il suo film costituisce un antidoto in un momento storico-politico come il nostro, in cui da più parti si ascoltano segnali di insofferenza; non dico, come è ovvio, che questo film serva soltanto per contrastare l'indulgenza facilona de La vita è bella, esso s'oppone al clima da un lato di pacificazione dall'altro di saturazione verso tutto ciò che riguarda la rappresentazione artistica della Shoah. Polanski ha percepito il pessimismo dei nostri tempi rispetto ai limiti della rappresentazione: indirettamente risponde al magniloquente pedagogismo di Spielberg e di Schindler's List, che nella memoria-dovere trovava la propria ragion d'essere e come tale è stato recepito dalla maggioranza dei suoi estimatori. Polanski ha chiari i limiti di quella che Annette Wieviorka ha definito "l'era del testimone" e conosce bene i rischi di ogni abuso della memoria.

Polanski non privilegia il punto di vista di nessuno, tanto meno quello della vittima. Per questa se ne consiglia caldamente la visione con le classi. Nulla gli è estraneo più del lamento fine a se stesso, nulla lo attrae più della evidenza dei fatti (per quanto possa sembrare che vadano in una diversa direzione i fondali di questa sua Varsavia resa spettrale dalla guerra e dai bombardamenti). Polanski ha ricavato un capolavoro da un libro non eccelso di Wladyslaw Szpilman e una trasposizione dalla letteratura al cinema così riuscita è già di per sé, per lo spettatore italiano, un' esperienza demoralizzante se si pensa a come Francesco Rosi ha maltrattato un libro straordinario come La tregua di Levi.

Nella rappresentazione della Shoah - nella letteratura come nel cinema - la linea discriminante passa fra chi ponendosi nelle vesti del pedagogo attribuisce alla memoria un valore assoluto e chi invece, come già Resnais ed oggi Polanski, rappresenta gli orrori di cui l'uomo è capace nella prospettiva di un mondo a venire in cui il ricordo stesso degli orrori divenga inutile. La normalità è data dal fatto che alla fine lo spettatore è persuaso che si possa di nuovo suonare in diretta radiofonica Chopin, senza bisogno di sentire rombanti motori di carri armati mentre scorrono i titoli di coda. Quanto più l'intendimento è a-ideologico, tanto più la narrazione coinvolge e non dà fiato. La gratitudine che si deve al regista consiste nel non averci voluto affidare nessun messaggio sul Bene che trionfa sul Male, ma di averci semplicemente fatto osservare che cosa significa vivere la quotidianità di un crimine assurdo. La ricostruzione della vita quotidiana nel ghetto di Varsavia alla vigilia della memorabile insurrezione non era mai stata trasposta in una pellicola cinematografica con così intensa precisione. La prima metà del film vale i diari e le memorie che in questi ultimi tempi si sono letti e non sfigura, supponiamo, di fronte ad una rappresentazione letterariamente altissima come quella che ci ha lasciato Marek Edelman, anzi in qualche modo la integra e ce la rende più vicina di quanto già non fosse, sicché riesce oggi difficile leggere una memoria su Varsavia senza ripensare al volto del protagonista del film.

Sappiamo che, presentata in classe, la Shoah, disarticolando il consueto rapporto docente-alunno, sviluppa opportunità che non esito a definire straordinarie. Ogni insegnante che abbia lavorato ad un progetto sulla Shoah sa bene che, fra tutti gli argomenti della contemporaneità, questo è forse l'unico capace di accendere, sia pure per un solo istante, un dialogo, o anche solo una scintilla di dialogo: ognuno avrà constatato che, almeno all'inizio del cammino, leggendo un libro o ascoltando un superstite della Shoah, si crea una condizione che non esiterei a definire magica. Scopriamo di avere accesso, finalmente, là dove tutto, di solito, ci è precluso. Quello che finora è mancato nel mondo della scuola, e fra gli insegnanti, è un serio auto-esame, che poi vuoI dire, in breve, rispondere a questa semplice domanda. Abbiamo saputo fare tesoro di quella scintilla per l'apprendimento?

Il problema è che questa condizione di partenza si brucia, le aspettative vengono deluse quando ci si accorge che la cosa non può terminare nella contemplazione di quel momento magico, senza dargli un seguito, un contenuto insomma: in verità, molti insegnanti non si rendono conto di quanto logori l'eccezionalità dell'evento narrato; per come di solito si svolgono taluni esperimenti, non soltanto in Italia, la Shoah viene presentata come un evento trascendente, che si consuma nell'atto stesso in cui la si evoca; dentro una tale immensità di orizzonti il naufragio è probabile, nessuno studente potrà mai essere capace di viaggiare con le sue sole forze: nessun insegnante, nemmeno il più romantico, possiede strumenti tali da consentire stabilità e crescita intellettuale. Prima o poi bisogna cercare di rimettere i piedi sulla terra e qui iniziano le difficoltà.

La proposta di lavorare sulle "virtù ordinarie" nel Lager, per esempio, è certo seducente, anche se a qualcuno potrebbe sembrare un po' troppo ottimista. Mi permetto di rivendicare, con una certa energia, questa porzione di ottimismo, anzi, auspico che essa possa essere immessa in ogni lavoro sulla memoria delle Shoah. Ne ha discusso in varie circostanze, Anna Bravo e ai suoi lavori ora mi richiamo: citando Primo Levi, in uno dei primi convegni dell' Aned torinese, proprio Anna Bravo metteva in guardia dall' atteggiamento per cui anche dal Lager si può trarre qualcosa di buono, se ne può fare esperienza positiva. Il Lager, dice Levi, è solo distruzione, è l'inferno della disumanità: il fatto che qualcuno come lui e come altri ed altre abbia mantenuto, comunque, la propria dimensione umana, non ne ridimensiona la totale negatività.

Non sarei così sicuro, e non mi rassegno facilmente a tanta evidenza, a tanto pessimismo. Nemmeno sono convinto che Levi la pensasse fino in fondo proprio in questo modo che non lascia spazio alla speranza. Bisogna intenderci: quale Levi accogliamo? Quale Levi è meglio adoperare a scuola? Quello ottimista e solare nonostante tutto di Se questo è un uomo oppure il Levi pessimista e disincantato dei Sommersi?

La esperienza del Lager, se bene osservata, aiuta a distinguere i valori positivi del vivere insieme. Non è da tutti condivisa questa impostazione anticonformistica e penso anzi sarà contestata. Vi è per esempio chi sostiene: lo sforzo che dobbiamo fare non è tanto quello di ragionare su quanto è successo, ma come scrive Christa W olf, su "come è stato possibile, su quali sono state le condizioni, le complicità che lo hanno reso possibile". Per questo, si ritiene più utile ragionare sui meccanismi dell'esclusione e della convivenza tra differenze, prima, cioè sul clima, le scelte, le relazioni, le deleghe che permettono poi operazioni di eliminazione: dal "Non potete più vivere fra di noi, non potete vivere come noi", al "Non potete più vivere tout-court". Sono le tesi, note, di molta serissima storiografia, da Hilberg a Bauman, nondimeno mi chiedo: sono queste tesi traducibili in un linguaggio adatto al lavoro che si svolge in classe? La mia sensazione è che le si adotti talora per inerzia, senza valutare fino in fondo le reazioni possibili che tale pervicace insistenza sulla negatività dell' animo umano può produrre nell'allievo, sono sfiorato dal dubbio che tanta insistenza sul Male rifletta il pessimismo del docente, che vive la realtà malinconica della nostra scuola con disagio e non tiene a mente l'ottimismo che invece anima uno studente intorno ai vent' anni.

Qualche anno fa Cesare Cases , elogiando il film Shoah, ne metteva in rilievo proprio il lato per così dire ottimistico, contrario ad ogni "misticismo trionfalistico della memoria". Una sua notazione mi aveva colpito: "Il ricordo è necessario e doveroso solo nella prospettiva di un mondo in cui esso divenga inutile". Sarà un po' demodé il provvidenzialismo lukacsiano di Cases, ma, prima di entrare in classe, un insegnante ha bisogno di una sferzata di ottimismo ed io mi sento più rinforzato da quella prospettiva, piuttosto che dal gorgo di negatività assoluta di cui scrive la Wolf e nego altresì che abbia una sua positività speranzosa la lettura del capitolo di Levi sulla "zona grigia".

L'equivoco, e il conseguente senso di frustrazione, nascono dal fatto che l'insegnante sovente non ha strumenti per comprendere quanto sia importante mettersi in una diversa prospettiva, perlustrare la possibilità che esista la prospettiva di un mondo in cui il ricordo divenga inutile. Vi è in tutto ciò una buona dose di utopia, ma gli insegnanti sanno, per esperienza vissuta sulla loro pelle, quanto sia impossibile rimanere a scuola facendo a meno dell'utopia. Un utile consiglio, che non mi stanco di ripetere, è quello che consiste nel prendersi delle pause, nel non fare della Shoah un microcosmo senza uscite, nel parlare d'altro o meglio nell'affrontare il tema arrivandoci per vie traverse.

Una didattica che si pone obiettivi estremi, oggi a me sembra un' esperienza molto datata e spero di non offendere nessuno se dico che trovo un po' datato e antiquato il modello di un insegnante che tenda a identificarsi nella sentinella di Pompei, che non si stanca mai di ribadire l'affermazione del Male, il trionfo della morte, l'annientamento e lo sterminio. Il veleno di Auschwitz corrode: di qui il mio appello, spesso frainteso, contro "i professionisti della Shoah", la cui impermeabilità al veleno del Lager suscita tutta la mia ammirazione ed anche un pizzico di invidia: io non riesco a mantenere desta la mia attenzione, figuriamoci quella dei ragazzi, lavorando a lungo su Primo Levi oppure su una ricerca sulla deportazione. Le spire, il veleno di Auschwitz sul lungo periodo penetrano dentro di noi, atrofizzano la nostra vivacità, la curiosità, la sensibilità stessa. Vi è chi vi riesce, da professionista, appunto. Ma non sempre la professionalità, nella scuola di oggi, è appagante.

Un facile moralismo, molto diffuso in questi ultimi anni in Italia, un atteggiamento per me molto pernicioso parte dal presupposto contrario: infliggere una storia di malefizi per cercare di scuotere i ragazzi dalla apatia, dall'indifferenza, dalle comodità della società dei consumi. Non è una strada pedagogicamente corretta perché parte da una premessa discutibile.

Sbaglia chi crede che un evento estremo come Auschwitz debba necessariamente produrre obiettivi didattici estremi, irraggiungibili e dunque, per definizione, incomunicabili. In una situazione del genere, il saper fare non potrà che generare delusione: "Noi non riusciremmo mai a comportarci così", è l'obiezione che viene fatta nell'era del testimone. O ancora, per registrare un'altra espressione del senso comune percepibile nei corridoi delle nostre scuole: "Non pensiamo di diventare così cattivi, ma non possiamo nemmeno garantirvi di diventare così buoni".

Agendo sempre sul pedale dei superlativi di segno negativo, sia nella sfera cognitiva sia nella sfera affettiva, alimenteremo una cinica forma di calcolo degli orrori, così come accade quando lavoriamo sul tema della guerra parlando soltanto delle enormi capacità di distruzione dell'uomo, che furono nel Novecento come si sa spaventose. Ci metteremo su una strada a vicolo cieco, piena di insidie, come capita - è capitato - a chi pensa di tradurre in un progetto di classe una ricerca che abbia per oggetto la spogliazione dei beni, la confisca dei beni ebraici: la reazione contraria più comune è il ricorso agli stereotipi medesimi della propaganda antisemita che il docente, pur animato da buone intenzioni, intendeva combattere, senza tener conto che si tratta di casi impressionanti di cupidigia umana, che in certi frangenti, anche in Italia, toccarono vertici estremi di crudeltà, più generalmente ascrivibili alla rapacità dell'uomo, non all'antisemitismo o al razzismo. Mettersi su strade così scivolo se nella fascia della scuola dell'obbligo senza prevedere il cortocircuito,è rischioso: bisogna mettere in conto la rotta di collisione con l'età dello sviluppo che è anche - spesso lo dimentichiamo, anche quando facciamo leggere in classe episodi troppo cruenti - l'età della crudeltà.

La lezione della Shoah potrà assolvere invece ad un compito che risulterà assai semplice se ciascuno nel suo campo farà un passo indietro per uscire dalla logica dei superlativi, delle affermazioni assiomatiche, delle facili emozioni per entrare nell'universo della realtà concreta, del vissuto, in ultimo, della storia. "Capire" è l'obiettivo che aiuta ad andare oltre il semplice "ricordare". Auschwitz non rinuncia affatto alla sua esemplarità se impariamo a coabitare con essa, a servircene come si adopera una lente di ingrandimento, approfittando delle sue smisurate dimensioni per mettere a fuoco le misure infinitamente più umili e grigie della nostra vita, delle nostre scelte, delle nostre modeste speranze.

Certo, il pericolo della banalità è davanti agli occhi di tutti: Georges Bensoussan, uno studioso francese molto acuto, proprio contestando gli eccessi della memoria-dovere, ha detto parole decisive per metterci in guardia contro operazioni ridicole, cui talvolta ci capita di assistere anche in occasione di discorsi serissimi e paludati. E' del tutto ovvio - ma nelle scuole italiane non del tutto si è consapevoli - che dare una risposta morale invece che politica sia un'illusione pedagogica: "Non si può affrontare il percorso ideologico e burocratico dell' assassinio di massa e del crimine di Stato, queste due realtà congiunte, con formulette incantatorie che esortano alla «reciproca tolleranza» e all'«amore per il prossimo nella differenza»". Non solo in Italia, ma anche in Francia si sono viste operazioni ingenue; Bensoussan cita il libro di Jean.F. Forges, Eduquer contre Auschwitz (1997); ciascuno di noi, se libero da preconcetti, avrà avuto modo di toccare almeno una volta con mano come le migliori intenzioni didattiche possano cadere nella banalizzazione: vedere per esempio Auschwitz "in germe" nei fatti anche minimi del nostro presente, individuare e denunciare lo spettro del fascismo nello schiaffo dato a un bambino significa non capire molto della realtà storica.

Nel mondo della scuola questo processo di laicizzazione della Shoah, ormai non più prorogabile, è tutto da inventare. Prevale, fra chi si occupa di "insegnare Auschwitz", in modo del tutto legittimo, non lo nego, una certa prudenza. Temendo di essere accusati di banalizzazione, ci si arrocca sulle consuetudini, le si itera senza rivitalizzarle. Nella scuola i conti vengono subito a galla, alla fine della mattinata, quando suona il campanello, sicché è bene attrezzarsi per tempo, onde evitare che i nostri interventi in un prossimo futuro si trasformino in vuoti gusci, guardati con sufficienza dalla maggioranza dei ragazzi, npn a torto esausta da una tipologia liturgica del ricordo.

Il paradosso è anche una sfida. La domanda che dobbiamo porre è la seguente: dov'è la virtù nel Lager?

Non si parla di minuzie, di confronti banali con la realtà vissuta dal ragazzo che ci ascolta. Si tratta di spiegare che dal Lager il mondo è rinato, l'uscita dal Lager è stata come una seconda creazione del mondo, ci ha insegnato lo stesso Primo Levi in un capitolo del suo primo libro ("Storia di dieci giorni") che dichiaratamente s'ispira a Genesi. E' del tutto evidente che, in una prospettiva come questa, il suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, sia assai poco utilizzabile, troppo calcato il suo pessimismo di fondo.

Fondamentale è invece l'inno alla speranza sulle virtù umane contenuto nel primo libro, in particolare nel capitolo "Storia di dieci giorni", dove si dà conto in termini biblici delle modalità attraverso le quali può realizzarsi una seconda creazione esonerata da sogni ultramondani. L'estremo che Levi ci narra in Se questo è un uomo deve mutarsi in una mirabile lente di ingrandimento, un prodigio della scienza ottica capace di guidarci per mano ad esaminare la realtà in cui viviamo onde ricavare elementari regole di comportamento utilizzabili hic et nunc ("alcuni aspetti dell'animo umano", è detto nella premessa).

Questo progetto, che qui presento in forma ancora molto lacunosa, allo scopo precipuo di raccogliere opinioni e dissensi, ritiene fondamentale uno spregiudicato e illimitato uso della comparazione. Esso rifiuta a priori il principio che la Shoah sia un' entità metastorica non paragonabile a esperienze della quotidianità di un individuo libero. L'unicità non esclude la comparabilità: l'eccezione, lungi dall' essere una categoria paralizzante, è funzionale allo scopo di identificare la comparazione fra regole di vita e modi di rappresentare la privazione, l'arbitrio, la violenza inutile.

Ogni testimonianza dall' estremo (ogni racconto che abbia per oggetto una forma di reclusione o di annientamento fisico e mentale) estende e dilata le regole del vivere insieme e dunque modifica i modi del narrare. La dilatazione è di misura tanto ampia da rendere queste regole facilmente percepibili e commensurabili con la nostra esperienza vissuta. In una qualsiasi forma le ordinarie virtù possono venire ordinate, fino a costituire un alfabeto, una grammatica, il cui valore, proprio perché passato al vaglio dell'estremo, assume una sua logica più stringente nell' esercizio quotidiano di quelle medesime virtù. Dall' estensione abnorme del Lager quelle virtù entrano nella nostra vita di tutti i giorni. Robert Gordon, in un libro molto intelligente su Levi, individua alcune di queste virtù ordinarie, le analizza con precisione di antropologo, cosa che non sarebbe dispiaciuta a Levi: la gestualità, il guardare, la discrezione, l'uso e l'utilità, per esempio. Non si tratta di comparazioni infantili, ingenue come quelle derise da Bensoussan, ma di ben altro, per esempio l'analisi del binomio utile-inutile. Il Lager insegna che è importante darsi uno scopo, ragionare, in prigionia, sugli "scopi della vita" allevia il dolore, così come raccontare i guai passati rende felici. Levi ci ha spiegato che in Lager era importante avere uno scopo, pur semplicemente quello di arrivare fino all'alba di domani o alla prossima primavera.

Gli scopi della vita hanno una loro gerarchia, bisogna imparare a situarli in una graduatoria che sia sensata, non inutile e moralmente corretta. Il referente culturale qui è Manzoni ("il vero, l'utile, il buono e il ragionevole"). Che cos'è utile per una vita migliore? Levi è un uomo pragmatico, figlio del concretismo illuminista: l'esperienza del Lager accentua in lui il desiderio di redigere una nuova tavola di valori morali in cui il pragmatismo assolva ad un compito primario di sopravvivenza fisica, ma non solo. Dirà nei Sommersi e i salvati: "Ma perché, nelle loro razzie furiose, in tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia delle camere a gas? Nel mio convoglio c'erano due novantenni moribonde, prelevate dall'infermeria di Fossoli. Una morì in viaggio, assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più 'economico', lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché inserire la loro agonia nell'agonia collettiva della tradotta?"

Difficile dare conto delle ricchezza di questo percorso suggerito da Gordon, ma ricco di stimoli notevoli per l'insegnante. Gordon si concentra su diverse virtù ordinarie: il senso della misura, della prospettiva, il senso comune, l'ironia ( da non dimenticare che il capolavoro di Levi inizia con la frase "Per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944... "), l'amicizia, il gIOCO.

La sua analisi si traduce per noi, adoperando un linguaggio più scolastico, in una "grammatica di ordinarie virtù": ai suoi densi capitoli teorici se ne potrebbero aggiungere altri: si potrebbe aggiungere un paragrafo sull' errore: lo sviluppo della capacità di riconoscere le conseguenze dei propri errori in un contesto di normalità è reso paradossalmente più facile dall' analisi dello steso problema in un contesto estremo come quello del Lager; insieme, la libertà di prova e dunque la altrettanto vitale libertà di sbagliare, vera discriminante fra una società di individui liberi e una società di reclusi; la coppia infelicità-felicità. Secondo Gordon Levi è un aristotelico, teorizza la limitazione degli eccessi, ci esorta a non ricercare la felicità perfetta per il semplice fatto che aveva avuto modo di constatare che non esiste il suo contrario, la felicità imperfetta.

Oppure in questa grammatica di alfabetizzazione morale non potrebbe mancare la bugia, il mentire. Il Lager insegna molto sui risvolti psicologici, negativi e positivi della menzogna, per esempio il senso quasi religioso della "pietosa bugia", tema che ha una vasta tradizione letteraria e sconfina, anche nella letteratura concentrazionaria, nel terreno del rapporto ragione-fede. Si può mentire, in certe situazioni si deve mentire a fin di bene, per nascondere una malattia, per illudere un compagno condannato a morte certa.

In passato, la comparazione ha assunto connotazioni ideologiche e si è esaurita, quasi sempre, in un dibattito sterile e nominalistico fra diversi genocidi. Sostanzialmente la "comparazione", ridotta in modo quasi ossessivo al binomio Lager-Gulag, è stata praticata, e continua ad esserlo, sulla base di calcoli numerici percepiti ormai dai ragazzi con poca passione, talora solo per curiosità morbosa, certo con distacco, in un computo dell' odio e dell' abominio che ha come unico sbocco l'idea cinica secondo cui la storia del mondo sarebbe una storia di brevi parentesi fra un genocidio e il successivo o un breviario teologico che ha al suo vertice la Shoah presentata come qualcosa di inavvicinabile, comprensibile solo da pochi adepti.

L'idea di "comparazione" che abbiamo in mente è un'altra, molto più semplice e meno ingombrante. E' un'idea che prevede la comparazione fra diversi gradi di eticità, fra diverse formulazioni di norme di comportamento e, in ultima analisi, fra diverse forme di rappresentazione della reclusione e dell'annientamento. Si tratta di una vera e propria estensione a piacere della categoria di "comparazione". Comparazione fra regole di vita e comparazione fra modi di rappresentare la privazione, l'arbitrio, la violenza inutile; le idee che abbiamo in mente sono ancora piuttosto vaghe e per questo ci scusiamo innanzitutto con noi stessi, perché siamo i primi a renderci conto di sconfinare in una sorta di terra incognita.

Intenderemmo declinare il progetto sulla scala dell'apprendimento senza escludere nessuno: dalla scuola dell'obbligo, in specie dall'ultimo anno della media inferiore fino alla preparazione di un percorso tematico interdisciplinare in vista dell'esame di stato per le scuole superiori. Abbiamo in mente un percorso che tenga insieme competenze ed elementi di trasferibilità da una disciplina all'altra, un percorso ancora in gran parte da sviluppare e soprattutto da sperimentare.

Di paradosso in paradosso vorremmo procedere verso una conclusione ottimistica: la Shoah, lungi dall'essere un argomento cupo e luttuoso, non rattrista affatto chi la insegna e chi la studia, può trasformarsi in un veicolo di speranza, in un'occasione rigenerante, in un modo ottimistico di guardare al domani.

 

Il progetto si articola su diversi piani e presenta diverse modalità a seconda di chi ne faccia uso e a seconda delle diverse competenze che ciascun insegnante desidererà mettere in gioco, provando a sviluppare un'idea di partenza comune per tutti, che potremmo formulare così:

 

Ogni testimonianza dall'estremo (ogni racconto che abbia per oggetto una forma di reclusione o di annientamento fisico e mentale) estende e dilata le regole del vivere insieme e dunque modifica i modi del narrare. La dilatazione è di misura tanto ampia da rendere queste regole facilmente percepibili e commensurabili fra loro oltre che con la nostra esperienza vissuta. In una qualsiasi forma queste regole possono venire ordinate, fino a costituire un alfabeto, una grammatica di virtù ordinarie, il cui valore, proprio perché passato al vaglio dell'estremo, assume una sua logica più stringente nell' esercizio quotidiano di quelle medesime virtù. Con la crescita e lo sviluppo delle qualità logiche e delle capacità conoscitive ci si accorgerà che non esiste soltanto una sintassi delle virtù ordinarie, ma esiste un patrimonio culturale comune di conoscenze, di testi letterari e filosofici, cui hanno sempre attinto gli scrittori-testimoni, i sopravvissuti ai genocidi. Obiettivo conclusivo del percorso è stabilire un breve compendio di questa lingua franca dell'annientamento, che ha ispirato scrittori di diverso orientamento ideologico e religioso.

 

Per comodità di chi scrive, ed anche per semplificare il lavoro di chi avrà la pazienza di completare l'esercizio, il progetto si fonda esclusivamente sul testo di Se questo è un uomo di Primo Levi, ma le esemplificazioni che in parte si è cercato di avviare, in modo ancora del tutto sporadico e occasionale, possono allargare il raggio delle letture e dunque variare l'ordine delle virtù che si intende scoprire. Va beninteso precisato che si tratta di un progetto che si fonda esclusivamente sull'uso del documento scritto, della testimonianza scritta, del libro di memorialistica, del reportage di guerra, del racconto o del romanzo: i materiali di lavoro potranno essere tratti da un più ampio raggio di letture, qualcuno, se vorrà potrà lavorare anche sulle immagini, utili come riferimenti generali, e così materiali più diversi.

 

La lingua franca dell' annientamento

 

Vorremmo vedere se tra i modi di rappresentare l'annientamento esiste una relazione, una morfologia, una lingua franca che renda fratelli coloro che, scampati allo sterminio, decidono di dare veste letteraria ai ricordi. In particolare, ci chiediamo se esistano dei paradigmi, delle ricorrenze tematiche, se sia possibile fondare un canone.

Abbiamo scelto alcuni percorsi esemplificativi, partendo, per pura comodità, dal capolavoro di Primo Levi e abbiamo limitato la campionatura ad esempi letterari, ma è possibile un'espansione del progetto alla storia dell'arte, alla filosofia: Levi, a differenza di Améry, era un aristotelicopragmatico, la sua riflessività induce a rileggere l'Etica di Aristotele direttamente in originale, se vogliamo che non ci sfugga nemmeno una sfumatura di un pensiero come questo: "Tutti scoprono più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alle realizzazioni di entrambi gli stati-limite sono della stesa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito". E poco si comprenderanno le sue vere ossessioni - dare "uno scopo alla vita", la violenza inutile, - se non si risale alle più diverse fonti: il pragmatismo inglese, le odi e i cori della tragedie manzoniane, dove troveremo l'embrione della zona grigia nel contagio dell' oppressore sull' oppresso, nel fatto che al secondo non rimanga che "far torto o patirlo". Si tratta di semplici suggerimenti, una traccia per iniziare un nuovo itinerario didattico costruito intorno a pochi, essenziali nuclei tematici: il terrore dell' oblio, lo sfinimento per la fatica, la fame, il binomio fede e ragione.

Il terrore dell'oblio è un motivo che viene dalle Scritture ("Guardati dal dimenticare", Deut. VIII, 11). Si tratta di un vero locus classicus, su cui esistono pagine indimenticabili di J. H. Jerushalmi. Non si può parlare di memoria senza considerare gli abusi dell'oblio. La Bibbia, in particolare i Salmi, offrono materiali propedeutici fondamentali, senza i quali riesce difficile cogliere nelle sue pieghe nascoste l'epigrafe di Se questo è un uomo ("Vi comando queste parole ...0 vi si sfaccia la casa,! La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi"). Si prenda a titolo di esempio Salmi CXXXVII, 7: "Se ti dimentico, Gerusalemme,! si paralizzi la mia destra;/ mi si attacchi la lingua al palato,! se lascio cadere il tuo ricordo". O ancora Salmi LXIX, 22-26: "La loro tavola sia per essi un laccio,/ una insidia i loro banchetti.! Si offuschino i loro occhi, non vedano/ sfibra per sempre i loro fianchi".

Lo sfinimento fisico ha un suo secondo autore di riferimento in Jack London (Il richiamo dellaforesta). Fame vuol dire Pantagruele (Rabelais, Gargantua, II, 9), il modello è il memorabile incontro dei due eroi, Panurge e Pantagruele, dove ci viene dato un numero infinito di descrizioni del pane - compreso l'ebraico lechem - al puro scopo di stimolare le viscere ed evocare uno spropositato appetito.

Fede e ragione in Lager significano infine il "martirio per fede". Il modello letterario è stato a lungo, incredibilmente, taciuto dallo stesso Levi: è il Ricordo della casa dei morti di F.Dostoevskij, un libro fondamentale per la cultura ebraico-italiana, in particolar modo a Torino, dove ebbe molti estimatori (da Leone Ginzburg a Luigi Pareyson) e le prime traduzioni (presso la casa editrice Slavia). Uscito nel 1862 narra i quattro anni trascorsi dal romanziere russo dentro la "casa morta" di Omsk, dove fu recluso, lui intellettuale come Levi e Améry, fra uomini in catene, obbrobriosamente marchiati, vestiti di stracci,. rasi i capelli. E' senza ombra di dubbio il modello strutturale di Se questo è un uomo, contiene i tratti essenziali di un episodio come quello di Kuhn, rivela i tratti psicologici delle "figure del bene" che Levi fa rivivere in Lorenzo, Alberto e Chaijm l'orologiaio. Ricordi della casa dei morti è infine il titolo di un'intensa memoria autobiografica pubblicata nel 1946 da una superstite del Lager molto vicina a Levi: Luciana Nissim.

Agendo sempre sul pedale dei superlativi alimenteremo soltanto un diffuso senso di frustrazione; se ci limiteremo a una cinica forma di calcolo degli orrori non andremo lontano. A scuola, come ovunque, la comparazione delle cifre fra vittime di genocidi è un esercizio avvilente. Altre comparazioni sono più stimolanti. Auschwitz non rinuncia alla sua esemplarità se impareremo a servircene approfittando delle sue dimensioni per mettere a fuoco le misure infinitamente più umili delle nostre curiosità intellettuali.

Esiste una lingua franca dell'annientamento, appresa da coloro che, scampati allo sterminio, hanno deciso di recare testimonianza?

La risposta è certamente affermativa e, nell'insieme, molto semplice da costruire nelle scuole superiori, così da inserirla nella programmazione di letteratura, storia e direi anche di filosofia

E' dunque possibile riempire una tabella con nomi, titoli di opere letterarie e filosofiche: una possibile unità didattica, alquanto artigianale nel suo interno, che costruisca, nelle sue linee fondamentali, la storia di questo affascinante capitolo di letteratura e filosofia fra Otto e Novecento, osservata attraverso il denominatore comune di una sorta di esperanto dell'esclusione: una forma universale della comunicazione del dolore, che affonda le sue radici nella filosofia classica, nell'umanesimo e si prolunga nell'età contemporanea, fino a costituire un comune patrimonio di pensieri e di modi di narrare l'abominio. A questo patrimonio hanno attinto, più o meno consapevolmente, tutti i superstiti (non solo dei Lager) quando si sono accinti a testimoniare.

 

Alcuni esempi:

 

La risposta all'interrogativo di partenza è egualmente affermativa se si cerca di applicare un percorso analogo alla scuola dell'obbligo, dove lo si vorrebbe proporre con opportune varianti, su una scala di più semplici elementi cognitivi. Ovvio che non si possa lavorare sui medesimi contenuti di storia della letteratura o della filosofia citati sopra. Schematicamente bisogna ridiscendere dalla letteratura, dalla storia della filosofia alla grammatica, alla sintassi. Ma è un cammino impervio, che richiede da parte dell'insegnante una enorme fatica per prepararsi da solo un percorso adeguato ed anche richiede un notevole sforzo creativo, di fantasia, che porti ad una "comparazione" adeguata al livello di apprendimento degli alunni più piccoli. Dunque una comparazione più coraggiosa, meno scontata fra documenti di provenienza diversa, fra testi diversi, penso per esempio a reportages giornalistici sull'attualità, testi di inviati sul fronte di guerra oppure confronti con testi narrativi di più semplice leggibilità che raccontino altre forme di reclusione: in un carcere, in un ospedale. Penso al racconto molto noto di Dino Buzzati sull'universo ospedaliero da cui è stato tratto il film con Tognazzi Il fischio al naso oppure a scritture sull'emarginazione che vedo hanno una certa circolazione nella scuola dell'obbligo. Ma anche qui, come sopra, non esistono ricette prestabilite e l'insegnante dovrebbe trovarsi da solo i testi su cui esemplificare le virtù ordinarie che andranno a costituire la sua grammatica personale.

Scendendo nell' età dell' apprendimento potremmo dire, schematizzando e ricorrendo ad una terminologia un po' obsoleta: nella scuola dell'obbligo non si vuole inventare e tanto meno imporre un capitolo di storia della letteratura, si vorrebbero semplicemente fornire le basi per accedere a quei contenuti, facendo una semplice campagna di alfabetizzazione; l'obiettivo è la costruzione a tavolino di un abbecedario di piccole virtù, un tesoretto, si sarebbe detto una volta, di regole condivisibili sui principi della solidarietà, della cittadinanza, della legalità, dell'accettazione della diversità, della responsabilità. Nell'adolescenza credo non si possa, anzi non si debba, imporre letture dall'alto, ma aiutare a riconoscere le virtù che rendono poi possibili quelle rappresentazioni non penso sia un' operazione condannabile. Un conto è dire che vi sono dei precetti e che a quei precetti si deve obbedire, ciò che è insostenibile. Altra cosa è suggerire, consigliare, mostrare che vi sono delle cose che non si fanno e se si fanno producono conseguenze molto visibili a chi le subisce. Se si volesse dire tutto in una formula, si vorrebbe sviluppare nella scuola dell'obbligo la curiosità, il "saper osservare" .

Non si riuscirà mai a comprendere, nell'età matura e adulta, la letteratura dell'annientamento, i valori dell'etica ad essa sottesa, se non si faranno, all'inizio di ogni percorso, già in tenera età, esercizi preliminari che aiutino a riconoscerla e a tesaurizzane il contenuto. Non si fa letteratura se non si conosce la grammatica, l'analisi logica o del periodo. Si può farlo nel modo meno prescrittivi possibile, anche giocando, ma l'obiettivo rimane sempre il riconoscimento di valori universalmente condivisibili e la consapevolezza che esistono delle cose che non si fanno.

Se non si approfitta di quello straordinario laboratorio etico-sociale costituito dalla Shoah un' eredità preziosa rischia di essere sperperata da chi, per sua fortuna, si trova a vivere in condizioni meno gravose, ma non per questo deve essere destinato a non riconoscere le categorie della separazione, della nostalgia, della privazione.

 

1) La gestualità. Uno dei primi elementi di questo alfabeto della reclusione riguarda la gestualità, terreno su cui la psicologia infantile ha lavorato a lungo. Ed è un terreno su cui si potrebbe, con molta cautela, lavorare anche nella scuola elementare. Quali gesti scegliere? Molta letteratura concentrazionaria, ad ogni livello, si connota per una forte gestualità, per l'attenzione ai movimenti del corpo, degli oppressi come degli oppressori. Levi attribuiva un'importanza quasi maniacale ai gesti, superiore certo alla parola, alla congruenza fra gesti reali e loro rappresentazione. Scrisse un memorabile saggio sul pugno di Renzo nei Promessi Sposi e polemizzò a distanza con Manzoni, giudicando inefficace la sua tecnica di tradurre sulla pagina la complessità del gesto, la sua deprimente inespressività. La mano, d'altra parte, è la parte del corpo umano che ritorna con maggiore intensità in Se questo è un uomo.

Qui le regole grammaticali da indicare sono fondamentali: il linguaggio del corpo, l'affettività che il corpo sa comunicare quando il protagonista tace soffrendo. La vicinanza fisica, l'odore dei corpi, il profumo delle stagioni, due veicoli di nostalgia, due occasioni per stabilire il raffronto fra il qui della reclusione e il del mondo libero. Sono infiniti gli esempi che si possono ricavare da qualunque altro testo di memorialistica del Lager, ma, volendo, si può lavorare già con le esperienze fatte comunemente, chiedendo ai ragazzi di osservare la gestualità del testimone che, oggi, verrà in classe: riflettere su come egli muove le mani, gli occhi, osservare il suo modo di guardare e di semplificare con i gesti lo zampillare del ricordo, vedere se memoria e realtà convergano o divergano dalle cose narrate molti anni dopo.

Fanno parte di questo lavoro sulla gestualità discorsi sul modo di vestirsi o di mantenere dignità al proprio comportamento esteriore: nel Lager l'essere, o meglio, il sentirsi uomo nel regno della disumanizzazione è un elemento che può venir tradotto in esempi concreti molto facilmente comparabili alla nostra esperienza. Camminare eretti, non piegare la schiena è per esempio uno degli insegnamenti che viene da un prigioniero austriaco compagno di Levi, Steinlauf, in un profilo modellato sul ricordo biblico di Gedeone, che sceglieva i suoi soldati migliori osservando il loro modo di bere l'acqua al torrente senza flettersi, rimanendo in piedi, portando la mano alla bocca.

Ma sono temi da cui mi sembra difficile approdare a quel senso di speranza e di ottimismo, che dichiaravo in partenza.

Più fruttuoso mi sembra il cammino che porta dalla gestualità alla comicità. Si può ridere anche nella tragedia: è uno dei più alti insegnamenti che ci vengono dall'ebraismo centro-europeo. La gestualità goffa, l'inciampo, la smorfia dettata dalla fame o dal dolore suscitano il riso, finanche la beffa. Ciò non deve scandalizzare: è la finta comicità, quella macchiettistica cui indulge Benigni, a edulcorare la lezione di Auschwitz. Vi è un senso più profondo, e austero, nella capacità che si può attizzare lavorando sul concetto di ridere insieme: per esorcizzare la lontananza, per assaporare piccoli, provvisori allentamenti della tensione. Un insegnamento ben più fruttuoso

 

2) La mitezza Il carattere produce a sua volta ritegno nei comportamenti, il rifiuto, per esempio dell'urlo, gesto estremo, che si può ritrovare in altri testi e utilmente comparare con la classica postura del prigioniero-Levi: in piedi, sulla soglia di una porta che si apre e si chiude senza una precisa ragione, pronto a osservare, teso sempre a capire. Auto-collocarsi "sulla soglia della casa dei morti", secondo la precisa memoria letteraria dostoevskiana, significa scegliere una prospettiva anticonformistica, mettersi da un canto per osservare meglio, senza entrare nelle viscere di una materia che, dall'interno, è incomprensibile, dal bordo può essere almeno osservata nella sua esteriorità, può essere misurata, può insegnare. Nel sapersi collocare in uno spazio comprendere che l'angolatura asimmetrica, sghemba è prospettivamente migliore di quella assunta da chi si colloca al centro, fra i più è una norma fondamentale dell' intelligenza umana, una competenza da assaporare con l'esperienza. Che cosa significa stare dentro la folla o stare fuori a guardare?

Lo sguardo è l'altro elemento su cui insistere; uno sguardo mite, quello di Levi. Ma non tutti gli sguardi che leggiamo nei libro sulla Shoah sono egualmente dettati da mitezza. La prima variante negativa dello sguardo è uno sguardo negato - nel momento in cui ci si trova in difficoltà, nel momento in cui si vive una privazione, anche di dimensioni chiaramente inferiori a quelle vissute dai prigionieri di Auschwitz. Continuare a guardare negli occhi è un ottimo indicatore, un metodo per misurare un'ordinaria virtù, così come il suo contrario, "negare lo sguardo", girarsi dall'altra parte. "Non potersi guardare negli occhi" è un elemento della vergogna altro tema ricorrente nella letteratura sulla Shoah: "Distruggere l'uomo è difficile", dice Levi, "quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Ecco docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete da temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice" (la sottolineatura è mia).

Lo sguardo giudice. Come si attua uno sguardo giudice? Lo sguardo giudice indica una qualità ancora diversa dallo sguardo negato. A che cosa serve giudicare guardando? Il non potersi guardare negli occhi può essere segno di abiezione per quanto si è costretti a vedere ("Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso", "Walter e io abbiamo evitato di guardarci e siamo rimasti a lungo silenziosi"). I tedeschi si caratterizzano per gli sguardi negati, per le schiene voltate,

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non tutti con lo stesso grado di intensità negativa: "L'uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate", "L'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio", fino al celebre verso della poesia in epigrafe: "I vostri nati torcano il viso da voi", che estende alle future generazioni la qualità negativa osservata nel carceriere.

Il Lager è simbolo di cecità, il luogo dove si è costretti a vedere ciò che non si può vedere. Si pensi alla descrizione dell'interprete: "Tutti guardiamo l'interprete, e l'interprete interrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente. come se nessuno avesse parlato"; e ancora a proposito del dialogo con un aguzzino, il dottor Pannwitz: "Quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l'essenza della grande follia della terza Germania".

 

3) Il senso dell'utilità. Il binomio utile-inutile. Nelle superiori l'insegnante potrà partire da una precisa definizione di pragmatismo. Con i ragazzi più piccoli serve sviluppare la capacità a distinguere un'azione utile, produttiva ed economica, rispetto ad un'altra dispendiosa, inutile, solenne, tronfia e vanitosa.

Il Lager insegna che è importante darsi uno scopo, ragionare, in prigionia, sugli "scopi della vita" allevia il dolore, così come raccontare i guai passati rende felici. Levi ci ha spiegato che in Lager era importante avere uno scopo, pur semplicemente quello di arrivare fino all'alba di domani o alla prossima primavera.

Gli scopi della vita hanno una loro gerarchia, bisogna imparare a situarli in una graduatoria che sia sensata, non inutile e moralmente corretta. Sempre per i più grandi il referente culturale qui è Manzoni e si potrebbe aprire un'altra sezione manzoniana nel paragrafo precedente ("il vero, l'utile, il buono e il ragionevole"). Che cos'è utile per una vita migliore? Levi è un uomo pragmatico, figlio del concretismo illumini sta: l'esperienza del Lager accentua in lui il desiderio di redigere una nuova tavola di valori morali in cui il principio di utilità assolva ad un compito primario di sopravvivenza fisica, ma non solo. Dirà nei Sommersi e i salvati: "Ma perché, nelle loro razzie furiose, in tutte le città e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia delle camere a gas? Nel mio convoglio c'erano due novantenni moribonde, prelevate dall'infermeria di Fossoli. Una morì in viaggio, assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più 'economico', lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché inserire la loro agonia nell'agonia collettiva della tradotta?"

Il tema dell'utilità, il dare un senso, uno scopo alla propria azione è un obiettivo fondamentale nello sviluppo di una maturazione scolastica. Così come il ragionare sul rapporto causa-effetto, altra competenza su cui varrebbe la pena ragionare. Il Lager insegna ciò che nella vita di tutti i giorni osserviamo con naturalezza, cioè la mancanza di necessità fra un effetto e la sua causa. Apprendiamo dalle pagine che Levi ha scritto sull'insensatezza del Lager l'idea tutt'altro che estranea al nostro vissuto secondo cui una determinata causa può produrre un numero esasperato di effetti, anche indesiderati. Il tema dell'utilità e dell"'avere uno scopo anche piccolo" conduce al contiguo, egualmente ricco di potenzialità, tema della violenza inutile, cui è dedicato un intero capitolo dell'ultimo libro di Levi.

Il concetto ha ripercussioni nell' esperienza quotidiana di un adolescente. Quale è il confine fra violenza inutile e violenza utile? Dice Levi: c'è una violenza "con qualche radice di necessità" (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una visita medica), ma esiste anche una violenza esagerata, "offensiva per la sua inutile ridondanza". La giornata del Lager è costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie, che rendono maggiormente visibile e individuabile la natura egualmente vessatoria e ridondante, sia pure su scala ridotta, di altre spogliazioni vessatorie cui siamo sottoposti nei nostri movimenti quotidiani. Gli scopi della vita, come i sensi di colpa, sono la difesa migliore contro il vuoto e la morte. Non solo in Lager. Per qualcuno, scrive Levi, la cultura "non era utile a orientarsi né a capire... Cercar di capire, là, sul posto, era uno sforzo inutile... uno spreco di energie che sarebbe stato più utile investire nella lotta quotidiana contro la fame e la fatica" (la sottolinea tura è mia). Per Levi, la memoria di quella letteratura franca cui accennavamo era "un'occasione rara, preziosa come una pietra preziosa", utile a "sentirsi come sollevati dal suolo". Per gli altri "la pietra preziosa" era qualcosa d'altro, una fotografia, un mozzicone di matita (come nel racconto più bello di Liana Millu), un brandello di vestito. E per noi?

 

Non posso per ragioni di spazio fornire e documentare altre possibili vie. Mi limito ad elencare, in conclusione e in forma si semplici appunti, quelle virtù ordinarie che andranno ad infoltire la mia elementare grammatica, i miei moduli di lavoro:

l'errore, la capacità di saper riconoscere le conseguenze dei propri errori in un contesto di normalità e, insieme, l'abilità che consiste nel valutare la libertà di prova e dunque la altrettanto vitale libertà di sbagliare, vera discriminante fra una società di individui liberi e una società di reclusi (è un insegnamento che Levi apprende molto prima di essere deportato, dalla grammatica dell'alpinismo, palestra di chi vuole cimentarsi con la propria libertà di sbagliare).

felicità/infelicità, una coppia duale molto importante. Una prospettiva ricca di implicazioni per la crescita affettiva: Levi è un aristotelico, teorizza la limitazione degli eccessi, ci ha lasciato come monito non una solenne profezia, non amava essere considerato un vate; ci ha lasciato l'esortazione a non ricercare la felicità perfetta per il semplice fatto che lui aveva avuto modo di constatare che non esiste il suo contrario, la felicità imperfetta. E' una linea discriminante molto più sottile e fine quella che separa, nella perfezione o nell'imperfezione, la coppia felicità-infelicità. Scrive infatti in SqU: "Tutti scoprono più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alle realizzazioni di entrambi gli stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito".

la bugia: un tema molto importante nello sviluppo dell'infanzia è la bugia, il mentire. Il Lager insegna molto sui risvolti psicologici, negativi e positivi della menzogna, per esempio il senso quasi religioso della "pietosa bugia", tema che ha una vasta tradizione letteraria e sconfina, anche nella letteratura concentrazionaria, nel terreno del rapporto ragione-fede. Si può mentire, in certe situazioni si deve mentire a fin di bene, per nascondere una malattia, per illudere un compagno condannato a morte certa.

vuole capire-non vuole capire: un' altra riflessione molto fine, legata al punto precedente. E' importante insegnare a capire, ma è altrettanto singolare che ci si possa trovare, controvoglia, nella condizione opposta, di "non volere capire". La curiosità non è tutto, la volontà di capire può coesistere con il desiderio di far finta di non aver capito, per risparmiarsi una sofferenza, ancora in obbedienza dunque al principio di utilità, cui sopra accennavamo; non voler capire significa allontanare da sé una cosa dolorosa, liberarsi dal tormento di una brutta notizia, un tema legato al concetto di rimozione con evidenti esiti psicologici, una virtù ordinaria che non va biasimata, ma coltivata nel suo farsi.

La capacità di secernersi un guscio. di costruirsi una nicchia. Anche questa è una virtù ordinaria, che sa praticare chi vive una condizione di inferiorità o di esclusione, una attitudine che rafforza l'individuo, lo rende capace di difendersi, di proteggersi dalle intemperie dell' esistenza.

senso comune ovvero la condizione dell' essere "un uomo normale di buona memoria incappato in un vortice", secondo la più celebre delle auto-definizioni di Levi. E' forse l'insegnamento più alto, che distingue Levi dagli altri autori di memorie sulla Shoah, ciò che rende il suo pensiero simile a quello dei maggiori filosofi del nostro tempo.

Questo ultimo aspetto facilita il nostro lavoro, e ne rende possibile una conclusione provvisoria: Agamben ha scritto, direi giustamente, che studiare "un uomo comune" è molto più arduo che non lo studiare la filosofia di Spinoza.

Come si riconosce l'uomo comune? Chi è l'uomo comune, che indossi i panni della vittima come quelli dell'oppressore non vi è differenza? Levi è, da questo punto di vista, uno strumento di straordinaria efficacia per fornirci l' abc del senso comune, lo statuto dell'uomo comune.

Estrapolo a caso, dal suo primo libro, una serie di aforismi, che avulsi dal contesto, valgono soprattutto per la vita normale e perdendo ogni allusione al Lager possono comodamente entrare a far parte del nostro lessico famigliare: "Il primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei"; "Come si può percuotere un uomo senza collera?"; "Accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso"; "I privilegiati opprimono i non privilegiati: su questa legge umana si regge la struttura sociale del campo"; "La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente"; "La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana"; "Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano... ma si nascondono, i minori dietro i maggiori".

 

Alberto Cavaglion

 

Nota bibliografica

 

Per la stesura di queste note mi sono servito dei consigli e dei suggerimenti di due amici, Francesca Koch e Riccardo Marchis, che desidero vivamente ringraziare. Per ulteriori riferimenti bibliografici rinvio ai saggi raccolti nella prima parte del mio libro Ebrei senza saperlo, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2002. Una prima applicazione del progetto è nel mio articolo La lingua dell'annientamento pubblicato nella rubrica bibliotec@scuol_ a cura di C.Trucco Zagrebelski, nel sito www.einaudi.it (gennaio 2002).

Il termine "virtù ordinarie" non è mio, ma deriva dalla ricerca di Robert S.C. Gordon, Primo Levi 's Ordinary Virtues [rom testimony to ethics, Oxford, Oxford University Press, 2001 (tr.ital. Roma Carocci, in stampa). Alcune citazioni nel testo sono tratte da un volume di grande utilità, che non ha avuto la risonanza che meritava: Georges Bensoussan, L'eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Torino, Einaudi, 2002. Altre citazioni vengono rispettivamente da: Y.H Yerushalmi, Zakhor, Pratiche, Reggio Emilia, 1983; S.Friedlaender, La Germania nazista e gli ebrei, Milano, Garzanti, 1998; R.Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Torino, Einaudi, 1999 (nuova ed. nei tascabili); V.Klemperer, Testimoniarefino all'ultimo. Diari 1933-1945, Milano, Mondadori, 2000.

 

 

 

 

 

 

Sugli abusi di memoria è d'obbligo il rinvio ad un altro saggio che non è stato molto discusso in Italia, benché tradotto: C.Maier, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione, in "Parolechiave", 9, dicembre 1995, pp. 35 ss., l'ed.originale inglese è 1993, ma, per la realtà italiana, è da tenere presente il primo cap. di A.Rossi Doria, Memoria e storia. Il caso della deportazione, Catanzaro, Rubbettino, 1999, pp.7 ss. Tra i molti scritti di A. Bravo ricordo: Alcune osservazioni aggiuntive su memoria e racconto, in n dovere di testimoniare, Torino, Consiglio Regionale del Piemonte, 1984, pp. 162-171 e, con D.Jalla, Un uomo normale di buona memoria, in P.Levi. n presente del passato, Aned-Consiglio Regionale del Piemonte, Milano, F.Angeli, 1991, pp;

67-78. Si vedano inoltre i saggi confluti nel voI. Le storie estreme. I racconti della Shoah, a c. di A.Deoriti-S.Paolucci-R.Ropa, Chiaravalle (Ancona), L'orecchio di Van Gogh ed., 1999.

La recensione di Cases, citata nel testo, s'intitola Un biglietto per Auschwitz, "L'indice dei libri del mese", giugno 1987, p.17, ed era dedicata al libro C.Lanzmann, Shoah, Milano, Rizzoli, 1987. Non ha perso attualità, nonostante gli anni e i successivi studi del suo autore, il libro di T. T odorov, Di

fronte all'estremo, Milano, Garzanti, 1987. Si ricorda infme, per la varietà dei contributi raccolti, il volume Insegnare Auschwitz, a c. di E.Traverso, Irrssae Piemonte-Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. Di Annette Wieviorka si è fatto riferimento a L'era del testimone,Torino, R.Cortina ed., 1999; di G.Agamben, Homo sacer. n potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. Sulle potenzialità della scuola oggi, ma anche sull' esigenza di un suo cambiamento, molti stimoli vengono dall' agile volumetto di autori vari, coordinato da C.Pontecorvo, La scuola deve cambiare, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2002. Di notevole interesse l'ultimo volume di E. Traverso, La violenza negata. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002.