Alcune riflessioni storiografiche in merito agli studi sulle donne nei lager

Anna Bravo

Prefazione al libro

Essere donne nei Lager

a cura di Alessandra Chiappano, Firenze, Giuntina

L’ondata di studi su deportazione e genocidio, che da tempo si sta intrecciando a quella degli anni ottanta e dei primi anni novanta, è ormai piuttosto ricca. Ma ogni nuovo libro, purché ben pensato e ben costruito come questo, riattiva la sensazione confortante che il relativo isolamento di quella fase sia un reperto del passato –una sensazione simile, credo, devono aver provato i rarissimi studiosi e studiose degli anni 50-70 (loro sì veri pionieri, da Valeria Morelli a Giuliana Donati a Vittorio Giuntella a AndreaDevoto1 di fronte all’affacciarsi di una seconda generazione di ricercatori,quella di cui faccio parte.

A me Essere donne nei lager offre una gioia speciale, perché rafforza un’impressione cui tengo molto: nella «terza ondata» le storiche sono forse più numerose degli storici, e in maggioranza hanno scelto di studiare l’esperienza delle ex prigioniere, scrivendo con loro e di loro,intervistandole, filmandole con scienza e coscienza. Questa svolta è in parte è il frutto di un cambiamento interno alla storia delle donne, dove si è abbandonato da anni e anni l’iniziale rifiuto dei binomi che accoppiano il femminile all'uno o all'altro snodo storico – donne/guerra, donne/lavoro,donne/resistenza e così via. Ma non solo. Hanno contato la disponibilità delle ex deportate, il lavoro politico/culturale del Cdec, dell’Aned, degli Istituti della Resistenza, di istituzioni rappresentative. Hanno contato la narrativa, il cinema, la tv e i nuovi media. E la crescita di una storia interessata alle culture, ai simboli, alle mentalità, che sembra congeniale a molte ricercatrici.Ma nella comunità disciplinare il dibattito è ancora scarso. A differenza che negli Stati Uniti, per esempio, in Italia si è discusso ben poco sulla applicabilità della categoria di genere alla deportazione e al genocidio. Forse perché - voglio credere- nell’attenzione delle storiche alla fisicità delle prigioniere si esprime un’affermazione forte: negare il peso dell’essere donne (e uomini) equivarrebbe a negare il corpo, la prima e l’ultima «specificità» di ciascuno. O piuttosto perché – devo ammettere –da noi gli studi di genere non hanno un rilievo paragonabile a quello della situazione americana. C’è allora il rischio, a volte ben mascherato, che la prigionia femminile resti una enclave a denominazione incerta. Deportazione e genocidio -si è detto con ragione - travalicano le categorie storiografiche,specie della storia politica, esigono uno sguardo più complesso e per certi aspetti più «indisciplinato». È vero che gli approcci si sono evoluti, che lo stesso concetto di rigore, con la sua aura militar-penitenziale, comincia a essere sostituito da quello di cura, vale a dire di rispetto vigile e affettuoso per i temi, i soggetti, le fonti. Eppure alcuni storici, parlando di testi sulla deportazione, in particolare di donne, ne lodano soprattutto la sensibilità,quasi fosse un meritevole valore aggiunto anziché la via maestra del fare storia. Per analogia mi viene in mente il dibattito sulla medicina, dove spesso l’«umanità» dell’operatore compare come esigenza di ordine etico,mentre è invece la chiave della diagnosi e della terapia. IL medico cattivo è soprattutto un cattivo medico, così come il docente cattivo, incapace di creare un clima in cui lo studente possa esprimersi, è un cattivo docente.

Gli studi sulle donne in prigionia sono uno dei laboratori per costruire una idea nuova di professionalità, più ricca e più esigente, che realizzi il sempre citato, e di rado applicato, principio secondo cui l’oggetto della storia non sono soltanto i fatti, le situazioni, i documenti, ma anche il modo in cui chi fa ricerca li vive e ne è cambiato. Questo libro brillantemente eterogeneo è una tappa rilevante. Tocca temi oggi cruciali,unisce ricerca qualitativa e quantitativa, linguaggio letterario, storico,antropologico, registri dell’oralità e registri della scrittura. Porta prospettive interessanti in un momento in cui il lavoro ha più che mai bisogno di impulso e di un retroterra solido. Sarà utile nella riflessione storiografica e nella didattica.  Ma non diamo per scontato che abbia l’eco che gli spetterebbe. Mi permetto di citare una ricerca cui ho partecipato2, un censimento degli scritti di memoria della deportazione dall’Italia: dei 30 libri usciti fra il1945 e il '47, quelli di donne sono soltanto cinque (di Liana Millu, Frida Misul, Luciana Nissim, Giuliana Tedeschi, Alba Valech Capozzi3); e non basta a darne ragione il minor numero di deportate e di sopravvisssute. Il punto è che per i testi femminili si usavano criteri di rilevanza ancora più selettivi di quelli applicati agli scritti di uomini – criteri di mercato e politico-ideologici piuttosto che culturali. E per motivi simili questi primi libri di donne (e non solo di donne) non sono riusciti per anni a varcare i limiti della dimensione locale o di un pubblico forzatamente ristretto, né hanno avuto il supporto di recensioni autorevoli, capaci di creare ilsuccesso di un'opera e di favorire la pubblicazione di altre sullo stesso tema. Eppure alcuni sono grandi prove narrative, come lo sono molte interviste orali.

Oggi in Italia nessuno o quasi ritiene sensato assimilare l’esperienza delle prigioniere e dei prigionieri. Nessuno o quasi pensa più che esista un unico soggetto universale, quello maschile, intestatario esclusivo della politica e della filosofia – o, se lo pensa, si astiene dal dichiararlo apertamente. In generale, si pubblica molto di storia delle donne, dalle grandi collane e repertori a piccoli (di formato) libri di memorie – si sa chele lettrici sono più numerose dei lettori, che la narrativa e la saggistica femminile incontrano spesso una buona accoglienza. Eppure non tutte le strettoie sono dissolte. Mi limito a citarne due. La prima: esiste ancora una tendenziale compartimentazione della ricerca in cui le storiche studiano le donne (e spesso gli uomini nella loro specificità maschile), gli storici ritengono di studiare la storia «complessiva», in teoria tutto, ma spogliato dell’orientatore originario dell’esperienza umana, il genere sessuale cui si appartiene. Questa divisione dei ruoli, felicemente smentita sia da Essere donne nei lager, dove compare anche uno storico,sia dai lavori di altri benvenuti studiosi, è ben presente nella contemporaneistica italiana, e tocca vari ambiti di ricerca, impoverendoli:cosa sarebbe una storia in cui gli ebrei si occupano degli ebrei, i cattolici dei cattolici, i siciliani dei siciliani, i gay dei gay, i valdesi dei valdesi, e così via?

Il secondo ostacolo discende dal primo, con una dose di inerzia aggiuntiva: non molti degli storici uomini leggono gli scritti di donne sulle donne, neppure quando incrociano da vicino le loro ricerche – per fortuna i migliori lettori sono spesso i migliori autori, e in questi anni parecchi hanno ambiato atteggiamento. Ma se in molte pubblicazioni, di uomini e di donne, si fa il conto degli studiosi e delle studiose citate, si vede che spesso prevalgono i primi. Corporativismo maschile? O, per le donne, bisogno di una legittimazione in più, letture meno accurate dei testi femminili,desiderio di sentirsi a propria volta pioniere?  Sono problemi aperti; ne ho fatto cenno perché penso che questo libro meriti di essere accompagnato, sostenuto, citato, "reclamizzato", in modo che non sprofondi nella folla di titoli che si susseguono sui banconi delle librerie. Io gli auguro tanti lettori e lettrici, un posto di spicco nella letteratura su deportazione e genocidio – e lunga vita.

 1 Andrea Devoto, Bibliografia dell'oppressione nazista fino al 1962, Olschki, Firenze 1964; Valeria Morelli, I deportati italiani neicampi di sterminio: 1943-1945,Scuole Grafiche Artigianelli, Milano 1965; Giuliana Donati, Ebrei in Italia: deportazione, resistenza,Giuntina, Firenze 1965; Vittorio. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Studium, Roma 1979.

2 Anna Bravo-Daniele Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia,Franco Angeli, Milano 1994.

3 Liana Millu, Il fumo di Birkenau, La Prora, Milano 1947; Frida Misul, Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzescadelle realtà, il più realistico dei romanzi, Stabilimento poligrafico Belforte, Livorno 1946; Luciana Nissim, Ricordi della casadei morti, in L. Nissim – Pelagia. Lewinska, Donne contro il mostro, Ramella, Torino 1946; Alba Valech Capozzi, A 24029,Soc. An. Poligrafica, Siena 1946; Giuliana. Tedeschi, Questo povero corpo, Editrice Italiana, Milano, 1946. Si tenga presenteche questi cinque testi sono stati tutti recentemente riediti