Presentiamo un saggio di Giorgio Sacerdoti, introduttivo al tema dei rapporti fra Stato e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e una bibliografia essenziale di fonti e studi sull'argomento, a cura della della biblioteca del CDEC.

 

L’INTESA TRA STATO E UNIONE DELLE COMUNITÀ

EBRAICHE DEL 1987 E LA SUA ATTUAZIONE

di GIORGIO SACERDOTI

1. IL CONTESTO POLITICO E NORMATIVO DELLA CONCLUSIONE DELLE INTESE

Le prime intese con le confessioni diverse dalla cattolica in base all’ art. 8 della Costituzione sono state stipulate nel 1984-87. L’intesa ebraica segue di poco quelle con Valdesi e metodisti,Assemblee di Dio e Avventisti. Il negoziato era iniziato nel 1982 ma entrò nel merito solo a partire dal 1985. Firmata il 27 febbraio 1987 tra lo Stato e l’Unione delle Comunità, allora ancora chiamate«israelitiche», è stata attuata con la legge n.101 del 8 marzo 1989. È quindi trascorso un arco di tempo sufficiente per esprimere valutazioni sulla sua applicazione nella pratica e sulla sua incidenza sulla vita dell’ebraismo italiano, sulla posizione degli ebrei e per riflettere sulla sua incidenza nello sviluppo della vita civile italiana. Non si può non ricordare il ritardo di oltre 30 anni rispetto alla Costituzione, con cui le intese videro la luce, compresa quella ebraica, cosa tanto più singolare se si pensa all’impegno degli ebrei per l’istituzione della repubblica democratica dopo la tragica esperienza del fascismo, col suo portato di discriminazioni, persecuzioni e morte(1).Le «intese» con le confessioni diverse da quella cattolica previste dall’art. 8 della Costituzione per disciplinare i reciproci rapporti tra queste e lo Stato dovevano, secondo i costituenti, costituire uno strumento di equilibrio e di uguaglianza di trattamento, almeno formale, rispetto alla Chiesa cattolica che già godeva della disciplina particolare pattizia, basata sul Concordato e in parte anche sul Trattato del Laterano del 1929 che la Costituzione ha riconosciuto nell’art.7.Mentre permaneva il regime del 1929, che definiva addirittura la religione cattolica quale religione di Stato, la disposizione dell’art. 8 che prevedeva la stipula delle intese rimase a lungo lettera morta a causa del contesto politico, che non consentiva allora di concludere accordi con rappresentanti delle altre fedi all’insegna della pari libertà e uguaglianza dei culti. Col progressivo cambiamento dei costumi, con l’affermarsi della laicità anche nella vita quotidiana specie a seguito dell’introduzione del divorzio confermato dal referendum, diventava evidente quanto fosse superato il regime del 1929. Bisogna ricordare che i negoziati con la Chiesa si trascinano per moltissimi anni senza costrutto, cosicché non possono svilupparsi seriamente neppure i contatti (non erano vere trattative) aperti da successivi governi coi Valdesi e con l’Unione delle Comunità israelitiche (addirittura sin dal 1976). Lo precludeva un contesto di disparità se non di discriminazione sotto il profilo dei diritti individuali così come in relazione al trattamento degli enti religiosi e dei finanziamenti, che le confessioni minoritarie non intendevano avallare. Solo nella metà degli anni ’80 col diverso equilibrio tra la DC e gli altri partiti della coalizione governativa, con l’avvento prima della presidenza Spadolini e poi di quella Craxi, matura un nuovo clima che consente la stipula degli Accordi di Villa Madama, cioè del nuovo Concordato del1984. Pur riconoscendosi sempre alla Chiesa una posizione particolare nell’ordinamento dello Stato, l’accordo elimina i privilegi e le discriminazioni più evidenti del Concordato del 1929, riformulando in termini almeno formalmente accettabili istituti quali l’insegnamento della religione nelle scuole e il finanziamento del clero. (1)  In particolare l’ora di religione cessa di essere curriculare, cioè obbligatoria salvo dispensa. La Chiesa riesce però ad evitare che essa diventi un insegnamento meramente facoltativo, aggiuntivo rispetto al curriculum regolare, tramite un compromesso che è stato oggetto di ripetuti interventi giudiziali, anche su iniziativa di cittadini e enti non cattolici, ma che è rimasto fermo, seppure con qualche aggiustamento.  Quanto al finanziamento delle attività di religione e di culto, tramite il meccanismo detto del «otto per mille» i cittadini possono indirizzare questa quota del loro reddito a favore della Chiesa o dello Stato, ed esso è stato esteso in forza delle rispettive intese anche alle altre confessioni. Vi è qui una importante facilitazione delle attività ecclesiastiche ma anche caritatevoli e assistenziali delle confessioni, viste in un certo senso come enti non governativi particolarmente qualificati a svolgere attività sociali con il sostegno dello Stato. Tale sostegno è insito nel fatto che si tratta pur sempre di una quota di reddito di cui lo Stato si priva (e ridistribuisce) e non di un contributo volontario aggiuntivo come in altri paesi. Il beneficio è inoltre riservato solo alle religioni e solo a quelle che hanno stipulato l’intesa, anche se queste la destinano in buona parte a scopi sociali «laici».

2. LA FUNZIONE DELLE INTESE A TUTELA DEI DIRITTI DELLE MINORANZE

Gli accordi con le confessioni minoritarie (in senso numerico), nonostante una certa similarità formale con quello tra Stato e Chiesa cattolica, si caratterizzano peraltro per una funzione oggettivamente molto diversa. L’accordo concordatario si presta facilmente ad essere uno strumento per continuare a mantenere una posizione se non di privilegio, quanto meno di supremazia e di favore per la Chiesa. Per le religioni minoritarie l’accordo, cioè il regime pattizio, rappresenta una garanzia, una tutela dei propri diritti sia nella sostanza che nella forma, essendone la modifica unilaterale da parte dello Stato esclusa dalla Costituzione. Si tratta di una tutela importante considerato che i gruppi minoritari non arrivano facilmente a farsi sentire, che le loro posizioni sono per lo più trascurate quando si emanano leggi e nello svolgimento dell’attività amministrativa. La stipula di numerose intese a lato del nuovo concordato ha rappresentato una sfida non facile anche per lo Stato, ma a mio avviso coronata da successo quanto alla duplice contrastante esigenza che andava rispettata. Da un lato quello di non ledere il principio costituzionale di uguaglianza, dall’altro lato di «dare a ciascuno il suo» prevedendo norme specifiche adatte a rispettare le particolarità di ciascuna religione, secondo le richieste dei rappresentanti di ciascuna. Sotto il primo profilo vi sono limiti costituzionali alla concessione di trattamenti differenziati, che rischiano di dar vita a privilegi. Il limite lo ha ricordato la Corte costituzionale nel 1984 nella sentenza n. 239 pronunciata in una causa che, curiosamente o significativamente, riguardava proprio le Comunità ebraiche: si tratta della laicità dello Stato definito come un «supremo principio costituzionale»(2). Di conseguenza lo Stato non può attribuire privilegi che ledano l’uguale libertà delle confessioni religiose né soprattutto che ledano l’uguaglianza dei singoli cittadini, per esempio imponendo una tassa religiosa o attribuendo una veste di diritto pubblico alle organizzazioni confessionali (tanto più quando ciò riguardi una sola confessione, come era il caso dell’ebraismo nel regime precedente del 1929-31)(3). Dall’altro lato l’intesa per i culti minoritari strumento di tutela delle peculiarità di ciascuna. Dato che in Italia la società è stata storicamente permeata e modellata dal cattolicesimo, non è facile far prendere coscienza diffusa di queste differenze ed è stato spesso difficile ottenerne il rispetto nell’organizzazione legale della società. Esempio tipico è il riconoscimento del diritto degli ebrei a  non lavorare, né svolgere attività equiparabile di sabato e nelle loro feste, il che significa tenerne conto nella fissazione di esami, concorsi e votazioni. I problemi sorti al riguardo (per esempio in occasione delle elezioni legislative del 1994 e di nuovo per il voto degli italiani all’estero, fissato nel 1999 di sabato) e poi risolti in qualche modo ex post, sono sorti perché nessuno dei responsabili aveva considerato il possibile vincolo ex ante(4). Le intese per le minoranze, al di là della condivisibilità ideale delle tradizionali posizioni laiche a favore del separatismo non concordatario, non sono e non sono state quindi uno strumento per ottenere dei piccoli privilegi, bensì il mezzo per fondare un reale pluralismo confessionale (5). Esse si sono manifestate preziose per ottenere la tutela dell’identità di queste fedi e gruppi, garantire quella doverosa facilitazione delle loro organizzazioni in un contesto obiettivamente difficile, a volte addirittura ostile, perché di minoranza, rimovendo gli ostacoli che di fatto impedivano una piena uguaglianza dei cittadini indipendentemente dalla religione professata.

3. PECULIARITA' DELLA INTESA EBRAICA

Le intese da un lato ribadiscono dunque con utili precisazioni la garanzia delle libertà generali specificando principi che comunque sono nella Costituzione; dall’altro tutelano particolarmente le esigenze che i singoli appartenenti alle confessioni hanno in relazione ai precetti ed ai riti di ciascuna. Nel caso dell’ebraismo, la più antica confessione esistente in Italia — addirittura da prima del cristianesimo — l’intesa ha avuto una funzione ulteriore: quella di rimuovere un regime superato, quello speciale dei decreti del 1930 e 1931 sulle comunità israelitiche, fondato sulla base della legge sui culti ammessi del 1929. Quella normativa stabiliva un giurisdizionalismo particolare solo per gli ebrei in forza del quale, per legge dello Stato, le comunità erano organizzate sul modello degli enti locali, con appartenenza automatica, in un certo senso obbligatoria (salvo esplicita rinuncia) dei singoli ebrei ivi residenti, sottoposte al controllo dello Stato, aventi veste pubblicistica e con potere impositivo sugli iscritti per finanziarsi (6). L’incompatibilità con i principi costituzionali, sancita del resto dalla Corte costituzionale con tre sentenze del 1984, 1988 e 1990 (7) appare oggi evidente. Nel contesto dell’epoca peraltro tale «unicum» consentì alle comunità ebraiche di auto-organizzarsi e finanziarsi, di avere consigli elettivi in pieno fascismo, di mantenere la peculiare unità territoriale locale dell’ebraismo italiano (che si differenzia tuttora in questo rispetto al libero associazionismo pluralista degli ebraismi di altri paesi). Il perpetuarsi di tale struttura fino alla stipula della intesa, trent’anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, consentì probabilmente una più facile ricostruzione e coesione postbellica all’ebraismo italiano, decimato dalle persecuzioni e collocato in un contesto a prevalenza cattolica, legittimato dalla sopravvivenza del concordato lateranense. Nel sancire l’abrogazione del precedente regime, l’intesa ha consentito all’ebraismo italiano di organizzarsi finalmente con un proprio libero statuto, come garantito dall’art.8 della Costituzione( 8). Ha avuto quindi impulso una normale dialettica democratica interna all’insegna di un pieno pluralismo ideologico-religioso, pur nel mantenimento della tradizionale cornice giuridica e sociale unitaria imperniata su comunità ebraiche locali a base territoriale. L’intesa con le Comunità ebraiche è peculiare anche per altre ragioni. Per l’ebraismo vengono in rilievo alcune questioni particolari e complesse; anzitutto si trattava all’epoca dell’unica intesa con un gruppo non cristiano, una singolarità superata solo con la più recente intesa con i buddisti (in attesa di quella con i musulmani, quando i tempi saranno maturi). Nel caso degli ebrei non c’è un’organizzazione ecclesiastica, una gerarchia, con cui lo Stato conclude un’intesa, bensì una realtà sociale, organizzata democraticamente (la rappresentanza è elettiva) guidata da laici. L’esercizio del culto, affidato ai rabbini, e l’istruzione religiosa sono tra i suoi compiti principali, ma non è l’unico. L’ebraismo non è solo una realtà religiosa, ma è anche una realtà sociale, che nel passato aveva addirittura connotati nazionali ed etnici. Con l’intesa l’ebraismo intendeva tutelare anche specificità, interessi, attività che non sono strettamente religiose nel senso comune della parola, già di competenza delle Comunità ebraiche e da esse svolte in base alla normativa del 1930. Questi problemi sono stati risolti, nel senso che l’intesa ebraica riconosce che quella ebraica è una confessione religiosa ma che le Comunità ebraiche hanno anche la natura di formazione sociale, in quanto «istituzioni tradizionali dell’ebraismo in Italia»: (v. art. 17). Questo consente di considerare nell’intesa anche la dimensione culturale, assistenziale, sociale e solidaristica delle Comunità ebraiche, seppure non concedendo alle relative attività i benefici propri di quelli di religione e di culto (cfr. art. 25).

4. CONTENUTI SPECIFICI DELL’INTESA EBRAICA

Non è questa la sede per illustrare compiutamente i contenuti dell’intesa del 1987. Ricordo solo che essa garantisce la libera pratica della religione ebraica e l’attività dei ministri di culto (art. 1 e 2) in termini analoghi agli altri accordi. Così dicasi per l’assistenza religiosa a militari, ricoverati e detenuti (art. 6-8), per il matrimonio religioso con effetti civili (art. 13), gli istituti rabbinici e il particolare rispetto degli edifici di culto (art. 12-14). Peculiare è la norma sul rispetto del sabato e delle altre feste principali sotto il profilo del diritto all’astensione dal lavoro e da esami e dalla frequenza scolastica, con una particolare attenzione ad evitare di collocare in concomitanza concorsi e prove d’esame (art. 3 e 4). I1 diritto a praticare la macellazione rituale è tutelato all’art. 5 e il rispetto della perpetuità delle sepolture e dei riti funebri all’art. 15 della l. 101. Frutto di serrato negoziato fu la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche (art. 10) data la delicatezza del dibattito allora in corso sull’ «ora di religione cattolica» a seguito degli accordi con la Chiesa del 1984 e le discriminazioni da sempre patite al riguardo dagli alunni ebrei nella scuola pubblica. Ne fanno fede l’insistenza in termini innovativi (ripresi dalle successive intese) sul requisito che insegnamenti religiosi impartiti nella scuola non abbiano effetti discriminanti; sul divieto di insegnamento religioso diffuso e di richiedere agli alunni la partecipazione a pratiche religiose o atti di culto. Le comunità ebraiche non hanno chiesto «ore di religione ebraica». È sancito invece, come nelle altre intese, il diritto di rispondere con propri esperti e a proprie spese, su richiesta degli alunni o delle scuole, fuori dall’insegnamento normale, con finalità culturali, «ad eventuali richieste in ordine allo studio dell’ebraismo» (9). L’intesa specifica ancora che è esclusa nella scuola «ogni ingerenza sulla educazione e formazione religiosa degli alurmi ebrei». È garantito d’altra parte il diritto di aprire scuole per gli enti ebraici, con piena equipollenza dei titoli rilasciati da quelle che hanno ottenuto la parità (art. 11). A1 riconoscimento della peculiare organizzazione ebraica, e cioè delle comunità locali e della loro organizzazione centrale (l’Unione delle Comunità) nei nuovi termini statutari «in conformità della legge e delle tradizioni ebraiche» è dedicata la seconda parte dell’intesa. Essa quindi differisce dall’impostazione standardizzata che impronta per lo più le altre intese a proposito degli enti di culto delle relative confessioni, mentre sono simili le forme sul riconoscimento della loro attività e relativo trattamento, in particolare fiscale. Ho già ricordato la perdurante peculiarità dell’organizzazione ebraica in Italia. Diversamente all’estero le comunità ebraiche sono per lo più delle libere associazioni; non così però in Germania dove tutte le confessioni sono organizzate come corporazioni di diritto pubblico. Negli altri paesi vi sono associazioni di diverso genere, alcuni enti hanno scopi sociali, altri di rappresentanza politica e poi vi sono le varie tendenze religiose tipiche dell’ebraismo contemporaneo (ortodossi, conservatori, liberali o riformati) ciascuno con le proprie istituzioni. In Italia invece si è mirato a salvaguardare la struttura unitaria tradizionale nel cui ambito si esplicano, prevalentemente, la varie tendenze sociali, ideologiche e religiose. La rappresentatività generale dell’Unione è stata pienamente riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale a fini non strettamente religiosi ( 10). Una peculiarità della intesa ebraica, che rifletteva l’assetto tradizionale delle Comunità, fu quella di non partecipare al meccanismo dell’otto per mille, così come non lo avevano chiesto per ragioni più marcatamente ideologiche i Valdesi. La richiesta alternativa, accolta all’art. 29, fu invece quella della deducibilità specifica dal reddito imponibile, del contributo associativo dovuto dagli iscritti alle loro Comunità in base allo statuto, per un importo inoltre superiore a quello previsto per le offerte alla Chiesa e alle altre confessioni nei rispettivi accordi. Il fine era di salvaguardare la continuità della struttura, cioè l’adesione dei singoli alle Comunità dopo che essa era diventata ormai puramente volontaria, attraverso la conferma della deducibilità già riconosciuta ai contributi in passato per effetto del loro carattere di obbligatorietà.

5. INNOVAZIONI DI ORDINE GENERALE APPORTATE DALL’INTESA EBRAICA

È il caso di sottolineare alcuni apporti di ordine generale che l’ebraismo con la propria intesa ha dato all’assetto dei rapporti tra Stato e confessioni ed alla tutela dei diritti di libertà in genere, oltre a quanto già evidenziato a proposito dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica(11). Tali apporti sono stati indiretti, in particolare prospettando modelli di negoziato e di soluzioni, dato che di per sé l’accordo bilaterale non può disciplinare materie di interesse generale, cioè non particolari ai rapporti dello Stato con quella confessione.

Negoziato dell'.intesa  

 L’Unione delle Comunità ha insistito con successo che la predisposizione del testo da sottoporre al governo ed ai propri organi ufficiali per la firma non avvenisse nel seno di una commissione mista, bensì tramite un negoziato tra una propria commissione o delegazione e la delegazione espressa dal governo. Con tale posizione, accolta dal governo, si è voluto da parte ebraica sottolineare la propria «alterità» e quindi la libertà costituzionale e non la mera autonomia della organizzazione confessionale nella sua dimensione religiosa e sociale. Ciò è conforme del resto all’impostazione per cui le intese sono stipulate tra la singola confessione e la «Repubblica Italiana» e non semplicemente lo Stato. Non si tratta naturalmente di un accordo internazionale. È sembrato quindi eccessivo ai rappresentanti dell’Unione pretendere una affermazione di «indipendenza» quale si trova all’art. 2 dell’intesa Valdese (L. 449/84).

Esecuzione dell.intesa da parte dello Stato

L’Unione insistette che l’intesa dovesse avere da parte dello Stato «piena ed intera esecuzione » come se si trattasse di un trattato, senza essere trasfusa nel corpo della legge che disciplina i reciproci rapporti «sulla base» della intesa raggiunta ex art. 8 della Costituzione. Con ciò non si voleva tanto rafforzare una similarità formale col concordato, che solo è considerato quale un trattato internazionale (12) in quanto la Chiesa cattolica è riconosciuta quale soggetto dotato di personalità internazionale. Si intendeva peraltro sottolineare il carattere della intesa come accordo di diritto pubblico esterno. Esso è anzitutto immodificabile in sede legislativa parlamentare, dato chele Camere non potrebbero modificarne il contenuto, ma soltanto approvarlo o respingerlo. Esso deve anche essere attuato nello Stato negli esatti termini concordati: il metodo più idoneo a tal fine è quello del rinvio anche formale alle norme pattuite con la formula della «piena e intera esecuzione » del testo cui si rinvia. Le norme dell’intesa ebraica sono state volutamente formulate a tal fine in modo completo perché siano suscettibili di immediata applicazione, cioè come disposizioni «self-executing». Peraltro tali istanze, già espresse in sede negoziale quando erano in corso parallelamente le trattative con la chiesa valdese che pure assunse la stessa posizione, ebbero sin dalle prime intese un accoglimento sostanziale, ma non formale. La legge 101, così come quelle relative alle altre intese, non è formalmente definita di approvazione o di esecuzione; essa però riporta l’intesa in allegato e ne riprende totalmente e puntualmente l’articolato, con lo slittamento di un articolo nella numerazione (quello iniziale) e con poche divergenze tecniche, peraltro concordate. In tal modo la prassi ha completamento disatteso quelle correnti dottrinarie che svalutavano l’intesa, riducendola ad accordo preparatorio dal quale il testo di legge avrebbe potuto divergere nella forma. Una simile soluzione avrebbe consentito lesioni di sostanza difficilmente controllabili e impugnabili. La impostazione rivendicata è stata alla fine accolta anche nella forma dallo Stato, seppure ad altro proposito. Così da ultimo all’intesa tra il Ministro dei beni culturali e la Conferenza episcopale italiana,relativa ad archivi e biblioteche del 18 aprile 2000, è stata data «piena ed intera esecuzione»con il d.p.r. del 16 maggio 2000, n. l89.

Parità di tutela penale

La permanenza nel codice penale della Repubblica di una diversa tutela penale dei culti in materia di vilipendio e bestemmia a favore di quello cattolico, ammessa per lunghi anni dalla Corte costituzionale in modo sconcertante, è stata da sempre criticata negli ambienti delle altre fedi come discriminatoria e inammissibile. Tale requisito non è purtroppo caduto direttamente con l’intesa ebraica. Alle richieste in tal senso fu opposto da parte della delegazione del governo l’argomento, formalmente corretto, che la modifica del codice penale non era questione bilaterale. Si concordò quindi una formula dichiarativa «È assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti» (art.1 dell’intesa) tale da avere una valenza interpretativa e non solo programmatica. È stato quindi motivo di soddisfazione che, successivamente, la Corte costituzionale, nel dichiarare finalmente incostituzionale con la sentenza n.329 del 1997 la diversa tutela penale di cui all’art. 404, primo comma cod. pen., ha richiamato a sostegno la esplicita rivendicazione di uguaglianza espressa nell’intesa ebraica, come affermazione che comprovava la lesione della parità costituzionale insita nella norma denunciata.

6. MODIFICHE SUCCESSIVE E PROBLEMI DI ATTUAZIONE

L'.intesa del 1996 sull'.otto per mille

L’unica modifica dell’intesa del 1987 intervenuta da allora consiste nella adesione dell’ebraismo al meccanismo dell’otto per mille con una intesa supplementare del 1996 (L. 20 dicembre 1996 n.638), così come è avvenuto per i Valdesi (13). In effetti questo sistema di finanziamento dell’attività delle confessioni figura ormai in tutte le intese, si è affermato nella prassi dei contribuenti nonostante le remore iniziali già ricordate. Esso è diventato pertanto di portata generale per effetto della concordanza dei singoli accordi in merito. Nell’aderire al sistema (rinunciando quindi alla più ampia deducibilità dei contributi statutari inizialmente ottenuti) l’ebraismo ha però ritenuto di non seguire il mondo protestante, che ha deciso di ricevere solo la quota espressamente devoluta e di destinare i fondi ad attività caritatevoli e non al culto. Si tratta di distinzioni la cui valenza ideale sfugge ai più, non in tutto condivisibili. Pertanto l’ebraismo ha deciso di partecipare proporzionalmente anche al gettito corrispondente ai contribuenti che non hanno espresso una destinazione (c.d. «scelte inespresse»). I fondi sono destinati ai fini istituzionali delle Comunità e dell’Unione in genere, «con particolare riguardo alle attività culturali, alla salvaguardia del patrimonio storico, artistico e culturale, nonché ad interventi sociali ed umanitari volti in special modo alla tutela delle minoranze contro il razzismo e l’antisemitismo»  Solo nel 2000 l’otto per mille delle dichiarazioni dei redditi presentate nel 1997 è stato attribuito all’Unione (circa otto miliardi). In verità secondo il testuale dettato della norma d’intesa del 1996 i fondi avrebbero dovuto essere corrisposti già nel 1999. Le proteste dell’Unione non hanno sortito per ora effetto e la questione è aperta. Le attività da sostenere con tale somma sono state concordate tra l’Unione e la comunità, alle quali è stato destinato circa tre quarti dell’importo per attività gestite direttamente da loro.

L.insegnamento della religione nella scuola

Per quanto riguarda l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole gli ebrei, come anche i valdesi e le altre confessioni, non volevano dare alcun sostegno neppure indiretto alla continuità sostanziale dell’ora di religione cattolica con modalità di semi-obbligatorietà nei fatti. Quindi non solo si è rifiutata l’ora di religione protestante o ebraica, che sarebbe stata comunque difficilmente organizzabile, ma si è ribadito il principio che non ci doveva essere nessuna interferenza con l’educazione religiosa dei ragazzi, ebrei nel nostro caso, nella scuola pubblica. Di conseguenza l’ora di religione che veniva impartita in base agli accordi con la Chiesa doveva essere facoltativa e non svolgersi in orario regolare scolastico. I risultati di questi sforzi sono stati modesti nonostante le numerose sentenze intervenute in materia. Nella prassi si devono tuttora lamentare prevaricazioni nella scuola pubblica a danni di ragazzi ebrei, soprattutto nei confronti di quelli che non vivono in sedi di comunità ebraiche che possano intervenire e fornire istruzione religiosa. La legge sulla parità scolastica.  Qualche problema si prospetta ora a seguito della legge sulla parità scolastica (L. 62/2000), una legge che l’ebraismo non ha auspicato, anzi ha valutato criticamente per l’indebolimento potenziale della scuola pubblica quale scuola di tutti e di tutti i valori rispettosa. La nuova disciplina fa infatti temere discriminazioni (quanto meno di fatto) ai danni delle scuole ebraiche e cioè del diritto di una minoranza di mantenere scuole destinate essenzialmente ai propri appartenenti. In fatto la legge  impone l’apertura della singola scuola privata «a chiunque» quale condizione per accedere al regime paritario (che peraltro le scuole delle Comunità ebraiche già hanno da sempre e che l’intesa ha confermato). Tale requisito, giustificato in linea generale, può peraltro risultare lesivo del diritto di una minoranza religiosa di organizzare nel proprio ambito un servizio scolastico riservato ai propri iscritti per tutelare la propria identità complessiva di gruppo. L’esenzione dal requisito menzionato a tutela delle specifiche esigenze di una minoranza può essere considerato già fondato sul testo dell’intesa. In subordine si potrebbe prospettare un accordo aggiuntivo come previsto dall’art. 32 dell’intesa in caso di innovazioni legislative. La esclusione dal regime paritario appare d’altra parte inaccettabile. Non è tanto la esclusione dai contributi pubblici, peraltro modesti, che preoccupa, bensì la qualifica «di serie B» che contrassegnerà inevitabilmente le scuole non paritarie (commerciali, straniere). Il rispetto del sabato La normativa sul rispetto del sabato ha dato luogo a qualche difficoltà, soprattuto da parte di enti pubblici e amministrazioni, anche locali, nel fissare le date di concorsi pubblici ed esami di ammissione. Non si segnalano invece problemi in sede di rapporto di lavoro o di impiego dove invece si temevano ostacoli. Le comunità sono dovute spesso intervenire su richiesta di iscritti osservanti delle prescrizioni religiose per fare spostare date di concorsi, chiedere esenzioni o altri accorgimenti. Siamo riusciti complessivamente a fare entrare nel costume l’idea che il sabato non si tengono concorsi pubblici nonostante le iniziali resistenze. Spesso la fissazione di sabato avviene per comodità, perché le aule delle scuole o gli uffici sono liberi, così come per i concorsi di ammissione nelle università. Grande rilievo ha avuto la proroga dell’apertura dei seggi disposta, anche al di là del rigoroso dettato dell’intesa, con notevole sensibilità dal Governo nel 1994, auspice il Presidente della Repubblica, per evitare la sovrapposizione con la pasqua ebraica(14). Ciò soprattutto confrontato all’assenza di pari sensibilità in Francia dove si verificava analoga concomitanza con le elezioni locali.

7. LA LOTTA ALLE DISCRIMINAZIONI NELLE LEGGI SUCCESSIVE E LA LOTTA A RAZZISMO, XENOFOBIA E ANTISEMITISMO

Certi contrasti non derivanti dalla legislazione religiosa ma da altre leggi sono complessivamente caduti, così per la formula del giuramento dei testimoni, e infine per la tutela penale preferenziale per le manifestazioni del culto cattolico, come già ricordato. Si può concludere quindi che le intese siano anche servite per fare entrare nella società italiana il concetto di pluralismo culturale-religioso, o l’apertura al multiculturalismo e comunque il riconoscimento della pari dignità delle impostazioni religiose diverse. I1 pluralismo culturale e sociale è oggi naturalmente reso più evidente dalla crescita della immigrazione da paesi lontani. Questa introduce problematiche anche più delicate, di compatibilità sociale e culturale e di ammissibilità di usi e costumi al limite lesivi di principi costituzionali. Non a caso la normativa più avanzata contro le discriminazioni anche religiose non si trova nella legge sulla libertà religiosa, purtroppo tuttora non realizzata, né in norme specifiche di intesa dove esse male si potrebbero collocare in quanto eccedenti il quadro bilaterale. Un primo intervento in materia di lotta alle discriminazioni era avvenuto con le modifiche apportate dalla l. 25 giugno 1993 n.205 di conversione del c.d. «decreto Mancino» contro le manifestazioni razziste alle norme di attuazione in Italia della convenzione internazionale contro la discriminazione razziale del 1966, a suo tempo ratificata ed eseguita con l. 14 ottobre 1975 n. 645.  Nuove norme, più dettagliate e pratiche, contro la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali ed anche religiosi sono state introdotte con gli art. 41 e 42 della 1. 6 marzo 1998 n. 40 di disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero, specie in materia di alloggio e lavoro, tra l’altro con la previsione di una apposita azione civile contro la discriminazione. L’art. 42 estende tra l’altro espressamente ai cittadini italiani (e come avrebbe potuto essere diversamente?) la protezione contro gli atti xenofobi, razzisti o discriminatori. La saldatura operata in tal modo tra protezione dello straniero (poi trasfusa nel testo unico in materia del 25 luglio 1998) e del cittadino in materia di discriminazione religiosa, analoga o connessa, di cui sono potenziali vittime ovviamente gli appartenenti a minoranze, è prova significativa dell’attenzione dell’ordinamento alle ragioni del pluralismo e della diversità che rende ricca una società. Si tratta di principi condivisi dall’Unione Europea che ha il mandato di combattere tali fenomeni ai sensi degli art. 29 del trattato UE e dell’art. 13 del trattato CE nella versione del 1997. Si spera che tale consapevolezza, cui pure le intese hanno contribuito, sia acquisita definitivamente e che la società italiana sia vaccinata contro ogni ritorno di razzismo, xenofobia e antisemitismo, che sappia combattere efficacemente ogni ricorrente manifestazione in contrario(15). Il ripetersi di manifestazioni xenofobiche e razziste anche in Italia suscitano peraltro rinnovate preoccupazioni nelle Comunità ebraiche — così come in vasti settori della soeietà civile — soprattutto alla luce della crescita di virulenti movimenti e partiti estemisti e populisti in vari paesi dell’Unione Europea.

 

 

 (1) Vedi il nostro Gli ebrei e la Costituzione, in AA.VV., Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei dopo la seconda guerra mondiale,Firenze 1998, p. 47 ss. Per le leggi risarcitorie vedi L.abrogazione delle leggi razziali in Italia  (1943 . 1987) a cura di M. Toscano, Senato 1988. Le misure risarcitorie furono peraltro parziali. Ciò è stato confermato dai lavori della Commissione «Anselmi» istituita dalla Presidenzadel Consiglio con decreto 1.12.1998 «per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebraici da parte di organismi pubblici e privati durante le leggi razziali». Si attende ora che sulla base dei lavori della Commissione di prossima conclusione venga istituito un meccanismo di risarcimento per le spogliazioni subite come in Francia. Cfr. anche la recente 1. 10.8.2000 n. 249 «Contribuzione dell’Italia al Fondo di assistenza a favore delle vittime delle persecuzioni naziste», che prevede a tal fine un contributo di Lire 12 miliardi da distribuire ai superstiti bisognosi delle persecuzioni razziali e politiche.(15) Cfr. La l. 20.07.2000 n. 211 che riconosce il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione dal Campo di Auschwitz nel 1945, come«Giorno della Memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

(2) C. Cost. per l’effetto avuto dalla sentenza sul negoziato v. il nostro L'ebraismo italiano davanti alla sentenza n. 239/84 della Corte Costituzionale e le prospettive di intesa, in Quaderni dir. e pol. eccl. 1984, p. 109 ss.

(3) Per l’incostituzionalità del regime pubblicistico delle Comunità ebraiche V. C. Cost. 259/1990, sentenza peraltro emessa dopo l’abrogazione della normativa del 1930 per effetto della entrata in vigore della 1. 101/89.

 (4) e ciò nonostante che ex art. 4 dell’intesa il calendario delle feste ebraiche (mobile perché su base lunare) sia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale proprio a questi fini.

(5) In senso contrario alla rilevanza giuridica della nozione di «minoranze religiose» nel contesto costituzionale improntato al pluralismo religioso v. PIZZORUSSO, Libertà religiosa e confessioni di minoranza, in Quaderni, cit., 1997/I, p. 49 ss.

(6) Per il precedente regime alla luce del quadro costituzionale v. FUBINI, La condizione giuridica dell'ebraismo italiano, Firenze 1974, DISEGNI, Ebraismo e libertà religiosa, Torino 19836, AA.VV. La Comunità ebraica in Italia in memoria di Sergio Piperno Beer, La Rassegna mensile di Israel 1985.

(7) Comunità israelitiche, Enc. Giur. Treccani VII, 1988; v. le sentenze 239/84; 43/88 e 259/90.

(8) Sul regime statutario e suoi rapporti con 1’intesa v. TEDESCHI, Presentazione dell'intesa, in Rassegna mensile di Israel, 1987, p. 17 ss. e il nostro Lo Statuto dell.ebraismo italiano e la sua rilevanza nello Stato, in Normativa ed organizzazione delle minoranze confessionali in Italia (a cura di Parlato e Varnier) Torino, 1992, pp. 121 ss.

(9) Le altre intese si riferiscono peraltro più genericamente a «richieste ... in ordine allo statuto del fatto religioso e delle sue implicazioni».

 (10) V. C. Cost. 17.7.1998 n. 268 a proposito dell’esigenza che l’Unione sia rappresentata nella Commissione che riconosce la qualifica di perseguitato politico o «razziale» in base alla L. 10.3.55 n. 96 e 22.12.1980 n. 932.

(11) v. sulla intesa ebraica in generale BOTTA, L'intesa con gli Israeliti, in Quaderni, cit. 1987, p. 95 ss.; LONG, Le confessioni religiose diverse dalla cattolica, Bologna, 1991, p. 139 ss.; PARLATO Le intese con le confessioni acattoliche, Torino, 1991.

 (12) Questa impostazione, correntemente accolta, può però essere messa in dubbio in ragione del contenuto non internazionale del concordato. Diversamente dal trattato del Laterano esso disciplina l’attività di religione e culto delle istituzioni italiane della Chiesa nel nostro paese (che fanno capo alla Conferenza episcopale italiana) e non i rapporti con la Chiesa quale soggetto di diritto internazionale. Cfr. il nostro La revisione del concordato alla luce del diritto internazionale, in Il concordato: trattato internazionale o patto politico, Roma 1978, p. 99 ss.

13) Si può notare che non tutte le norme dell’intesa hanno sinora trovato pratica applicazione. Cosi nessun nuovo «ente ebraico civilmente riconosciuto» (art. 20) è stato a tutt’oggi istituito.

(14) V. il nostro Elezioni e festività ebraiche, in Corriere Giuridico, 3/94, p. 373 ss.

(15) Cfr. La l. 20.07.2000 n. 211 che riconosce il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione dal Campo di Auschwitz nel 1945, come «Giorno della Memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani neicampi nazisti.

 

 

 

Per un primo orientamento sui rapporti fra Stato e Comunità ebraiche italiane:

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