Klaus Voight    Storico Technische Universitst di Berlino

L'emigrazione ebraica in Italia

 

1933 – 1945

 

Può sembrare a prima vista sorprendente che gli ebrei originari dei paesi sottoposti al dominio nazionalsocialista abbiano potuto trovare asilo solo in Italia, visto che il sistema fascista nella sua struttura di potere era abbastanza simile a quello nazionalsocialista. Il fascismo però non si era orientato nelle sue dichiarazioni e proclamazioni di principio in senso antisemita. La situazione cominciò a peggiorare solo dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania e trovò espressione in una campagna di stampa contro gli ebrei italiani che per la prima volta minacciava la parità di diritti che godevano a partire dal Risorgimento. Dopo il 1934 il regime cominciò ad accusare la comunità " ebraica italiana di scarsa lealtà politica e nazionale adducendo come pretesto la partecipazione di intellettuali ebrei all'opposizione politica e le attività dei piccoli gruppi sionisti.

E questo il retroscena che ci consente di capire come Mussolini, nell'aprile del 1933, fosse ancora disposto a: garantire agli emigranti ebrei provenienti dalla Germania la possibilità di stabilirsi in Italia a meno che non si trattasse di persone politicamente attive nei partiti di opposizione al fascismo

L'iniziativa fu presa dal Ministero degli Affari Esteri, e precisamente dal sottosegretario di Stato Fulvio Suvich che voleva mantenere relazioni strette con i paesi democratici, e perciò era interessato a tenere distanza dalle violenze commesse dai nazisti nell'aprile 1933 durante il boicottaggio dei negozi e delle professioni liberali degli ebrei. Se si prescinde dal rifiuto di accogliere emigrati politici, si può ben dire che in confronto ad altri paesi europei le condizioni per l'ingresso degli emigranti in Italia fossero favorevoli. Fino all'annessione dell'Austria nel marzo 1938 non ci fu alcuna limitazione d!ingresso e di soggiorno. Nello stesso tempo venivano anche offerte possibilità di sviluppo nel campo del lavoro. L'esercizio di un'attività autonoma derivante da un impiego di capitali nell'industria, nel commercio e nell' artigianato era molto libero. Per accedere a un lavoro dipendente era necessaria un'autorizzazione che veniva rilasciata dal Ministero dell'Interno previo nulla osta della questura e di una commissione interministeriale con sede a Roma. Le percentuale delle richieste respinte oscillava tra il 10 e il 20 %, tuttavia in generale venivano presentate solo istanze con buone prospettive

di essere accolte. A causa della diffusione della disoccupazione (che superava di molto il milione di unità) le difficoltà maggiori riguardavano le possibilità di trovare un posto di lavoro. Specialisti altamente qualificati, tecnici, chimici e ingegneri,

in possesso di nuove conoscenze e nuove capacità, trovarono facilmente un impiego. Nel commercio e nella piccola industria, dove prima dell'emigrazione più di un terzo degli ebrei era stato occupato, molti vivevano invece di stenti, al limite della sopravvivenza, minacciati dallo spauracchio dell'espulsione per mancanza di mezzi di sostentamento.

La liberalità della legislazione e della politica italiana nei confronti degli stranieri aveva le proprie radici nella monarchia liberale. Per gli impiegati statali che operavano in questo settore della burocrazia valeva il criterio secondo il quale l'Italia che era a sua volta un paese con un grande flusso di emigrazione verso l'estero, dovesse offrire a chi voleva immigrare delle facilitazioni e delle possibilità di lavoro, onde potersi difendere da eventuali rappresaglie dei governi stranieri nei confronti dei propri concittadini all’estero. Era inoltre invalsa l’opinione che si dovessero favorire gli investimenti di capitali stranieri nel paese, giacché il suo sviluppo economico era arretrato rispetto all’Europa settentrionale e centrale. E’ comunque sorprendente che tale liberalità, perfino nei confronti degli emigranti, per lungo tempo non fosse intaccata. Le ragioni di questa tolleranza sono da ricercarsi paradossalmente nella natura dello stesso sistema fascista che per gli ebrei tedeschi legati alla democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar,non fu attrattivo, sicchè il flusso migratorio verso l'Italia si teneva entro limiti contenuti. Di più, le organizzazioni ebraiche tedesche evitarono di dirigere i loro protetti verso l'Italia, perché temevano per il futuro un aumento dell'antisemitismo che si manifestava nella stampa. Oggi si sa che la loro prudenza fu giustificata. Perciò l'emigrazione ebraica verso l'Italia rimase un fenomeno basato sulla preparazione individuale e privata. Solo quando, dopo l'annessione dell'Austria, si annunciò un arrivo maggiore di profughi, fu varato un divieto di immigrazione per gli ebrei austriaci, la cui applicazione tuttavia si scontrò - come fu ammesso in una note presentata a Mussolini – con "considerevole difficoltà", giacché fino all'introduzione nell'ottobre del 1938 dei passaporti tedeschi contrassegnati con la lettera J non ere possibile al momento dell'ingresso nel territorio italiano riconoscere gli ebrei.

La situazione nel campo dell'esercizio delle professioni fu simile. Fino a quando le richieste di permessi di lavoro restarono limitate le autorità non intervennero. Ma dal momento che in una

categoria professionale come quella dei medici si giunse a un'affluenza massiccia, fu presa la decisione de contenerla. Con un'apposita legge del 5 marzo 1935 i medici stranieri furono interdetti dall'esercizio della libera professione.

In un rapporto dell’Unione degli ebrei tedeschi (Reichsvereinigung der Juden in Diutschland) il numero degli ebrei emigrati dalla Germania in Italia viene fissato a oltre 8000 unita. Questa cifra può accordarsi con i rilevamenti delle autorità italiane solo se si tiene conto di una mobilità molto alta, alla quale in effetti rinviano molti indizi. La Comunità religiosa israelitica di Vienna (Israelitische Kultuigemeinde Wien) riferivo nello stesso momento che circa 5000 ebrei austriaci avevano trovato rifugio in Italia.

Nei primi anni l’immigrazione avvenne molto lentamente: nell'ottobre del 1934 le prefetture italiane contavano circa 1100 "rifugiati di fede ebraica provenienti dalla Germania" (compresi anche i cittadini polacchi) e nel maggio del 1936 il numero degli "ebrei cittadini tedeschi" ammontava a incirca 1500. I dati più certi sono forniti dal "censimento degli ebrei stranieri" del settembre 1938 condotto in vista della promulgazione delle leggi razziali italiane - che schedava circa 4100 persone (di cui 2800 tedeschi, 280 polacchi di Germania, 400 austriaci e 640 cittadini di stati ignoti in prevalenza comunque ancora austriaci, ai quali era stato concesso solo un permesso di soggiorno limitato nel tempo. In realtà il numero degli ebrei polacchi provenienti della Germania deve essere portato a 400-500, giacché nelle liste del:e prefetture spesso non possono essere distinti da quelli emigrati direttamente dalla Polonia.

Le condizioni dell'esilio in Italia peggiorarono progressivamente via via che l'influsso tedesco aumentava. Uno dei primi accordi dell'Asse fu il patto segreto italo-tedesco, stipulato tra le polizie dei due paesi nell'aprile del 1936 che aveva come scopo la lotta ai nemici politici. Su richiesta della parte italiana, che all'epoca non intendeva ancora stabilire alcun principio di politica razziale, gli ebrei rimasero esclusi dal patto, salvo nel caso in cui fossero emersi motivi politici contro persone singole. Fino alla fine del 1938 i termini dell'accordo consentirono due estradizioni in Germania e cinque in Italia. Le richieste della Gestapo ebbero tuttavia come conseguenza che la polizia italiana divenne sempre più diffidente nei confronti degli emigranti ebrei e cominciò a controllarli in modo più scrupoloso.

Alla metà di giugno del 1937 Mussolini si dichiarò disposto ad accettare che nelle questure delle dieci più importanti città d'Italia fosse immesso del personale di fiducia dell'organizzazione all'estero della NSDAP che considérava come uno dei propri compiti principali quello di investigare sugli emigranti ebrei. L'azione più significativa della collaborazione tra le polizie dei due paesi fu le serie di arresti operata nel maggio del 1938 in occasione della visita di stato di Hitler. A seguito di uno scambio di liste di persone, la Gestapo pretese che come "misura di 13 sicurezza" venissero temporaneamente arrestati 150-200 tedeschi, austriaci e polacchi residenti in Italia - una parte considerevole dei quali era costituita da ebrei - e ne fosse sorvegliato più severamente un numero molto maggiore. Il Ministero dell'Interno italiano decise poi a sue volta che nelle città attraverso le quali si snodava la visita del Führer - Roma, Firenze e Napoli - dovessero essere fermate tutte le persone delle quali era stata prevista la sorveglianza, cosa che incoraggiò la Gestapo a pretendere da parte sua un numero ancora più grande di arresti, cosicché alla fine si ritrovarono in prigione all’incirca 500 persone. Le procedure adottate in occasione della visita di Hitler furono un grave segnale d'allarme, che rese molti emigrati consapevoli del fatto che non avrebbero potuto restare molto più a lungo in Ita1ia. La loro situazione mutò comunque sostanzialmente solo dopo l'introduzione in Italia delle leggi razziali nell'autunno del 1938. Sebbene sia forte il sospetto che nella preparazione di queste leggi ci fosse lo zampino dei nazionalisti l'indagine storica non è riuscita finora a provare alcun influsso diretto. Secondo un' opinione largamente diffusa, Mussolini decise autonomamente - tenendo beninteso presente il modello tedesco - di compiere un atto di allineamento, giacché un atteggiamento sostanzialmente diverso in una questione d'importanza fondamentale per il nazionalsocialismo era in contrasto con il. Suo concetto totalitario di un patto. Tra i primi provvedimenti razziali fu il decreto del 7 settembre 1938 che stabiliva per gli ebrei immigrati dopo il l gennaio 1919, salvo poche eccezioni ammesse in seguito, un termine di sei mesi, entro il quale dovevano lasciare il paese. In caso contrario sarebbero stati espulsi.

Contemporaneamente venne revocata la cittadinanza italiana a tutti gli ebrei che l’avessero ottenuta dopo il 1° gennaio 1919.

Il decreto passò poi, con poche modifiche, nella legge razziale del 17 novembre 1938, che assegnava agli ebrei italiani uno status inferiore nella società non molto diverso da un punto di vista legale da quello degli ebrei tedeschi. La differenza sta comunque nel fatto che l'esclusione degli ebrei dalla società italiana fu compiuta quasi esclusivamente con provvedimenti amministrativi: cioè quasi sempre senza terrore né violenza fisica.

Il decreto di espulsione del 7 settembre fornisce un valido esempiO dell’applicazione imperfetta di un provvedimento di politica razziale. Con l'avvicinarsi del termine fissato per l'espulsione - il 12 marzo 1939 - le autorità si rendevano sempre più conto che per quella data a mala pena i due terzi dei 9000 immigrati e rifugiati ebrei residenti in Italia sarebbero riusciti a superare le limitazioni poste all'immigrazione da

parte di altri paesi. Contro l'espulsione in massa degli ebrei

giocavano peraltro interessi soprattutto economici. Nella crisi generale del movimento turistico nei mesi precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale le società di navigazione e l'industria turistica temevano per la clientela dei profughi. Inoltre un'espulsione di masse poteva essere difficilmente attuata, dal momento che nessun altro paese aveva intenzione di accogliere i profughi. Cosi, senza alcun clamore, la scadenza per l'espulsione fu sospesa.

A causa delle pressioni della direzione generale del turismo presso il Ministero della Cultura Popolare era stata già in precedenza concessa la possibilità di ottenere un permesso d'ingresso e di soggiorno - in un primo tempo limitato a tre mesi, in seguito a sei - per "ebrei stranieri" che volessero recarsi in Italia "per turismo, per imbarcarsi, per cura, per studio e per affari" Il 27 febbraio fu introdotto dal Ministero degli Esteri l'apposito visto turistico. Grazie al visto turistico fu pur sempre possibile a 4-5000 ebrei che altrimenti per la maggior parte avrebbero trovato la morte in un campo di sterminio, fuggire dai paesi sottoposti al dominio nazista.

Nonostante la sospensione delle espulsioni, il decreto del 7 settembre restò in vigore. Il timore di una sua eventuale applicazione fece si che gli immigrati e i profughi ebrei tentassero di attuare disperati tentativi di espatrio. Da questo momento il Ministero degli Interni cominciò sempre più a servirsi dell'espediente di spedire i profughi nelle zone di confine.con la Jugoslavia, la Svizzera e la Francia. Specie alla frontiera con la Francia le guardie di confine e i doganieri italiani ebbero l'ordine di assicurare agli esuli il loro "aiuto" per passare la frontiera e di tollerare che durante la notte si imbarcassero su piccoli battelli presso Ventimiglia per approdare in una zona non controllata della costa francese. In questo modo si cercava peraltro unicamente di far uscire dal paese il maggior numero degli ebrei che avevano trovato rifugio in Italia. Attraverso il varco di Ventimiglia cercarono ben presto di passare il confine anche molti possessori di un visto turistico, tra i quali molti erano venuti in Italia dopo il rilascio da un campo di concentramento tedesco. Recandosi alla frontiera francese commisero un'infrazione del regolamento, in quanto il visto turistico era legato al permesso di soggiorno per un luogo determinato. Mussolini attribuiva la colpa dell'evoluzione al Comitato di assistenza agli ebrei in Italia di Milano che accusò di avere diretto, in cooperazione con le organizzazioni ebraiche in Germania e in Austria, i profughi alla frontiera francese. Dette quindi disposizioni per rispedire i profughi alla frontiera tedesca, cosa che fino a quel momento le prefetture avevano sempre evitato di fare Le prefetture però a cui, secondo la legge amministrativa italiana, spettava l’ultima decisione,esitarono a eseguire gli ordini del Ministero dell'Interno, sicché il numero totale di tali allontanamenti non superò le 100 unita.

Nello stesso periodo le autorità cominciarono a rendersi conto che il visto turistico veniva utilizzato prevalentemente per la fuga, e che questo annullava gli effetti del decreto del 7 settembre. Una statistica del settembre 1939 mostrava infatti che il numero dei profughi presenti nel paese era di nuovo in aumento. Il 19 agosto il Ministero dell'Interno impartì disposizioni per l'annullamento di tali visti.

Con questa misura tuttavia non veniva ancore interrotto il transito attraverso i porti italiani, le cui importanza si accrebbe, soprattutto per l'emigrazione verso la Palestina, il Sudamerica e Changhai. Grazie e un accordo tra il Ministero degli Esteri italiano e l'Ambasciata britannica di Roma fu assicurata durante la fase della non belligeranza italiana la prosecuzione dell' emigrazione verso la Palestina per possessori di certificati vie Trieste che salvò la vita a oltre 3000 persone. I visti di transito furono concessi dai consolati italiani, soprattutto nella Polonia occupata, in misura sempre crescente perloppiù sulla base di un visto d'ingresso per altri paesi, la cui validità era dubbia. Molte centinaia di ebrei, che erano riusciti e ottenere tali "visti di compiacenza" per piccoli paesi dell'America centrale o dell'Asia, restarono bloccati in Italia sotto la minaccia di essere rispediti alle frontiera tedesca. Allorché la raccolta di oltre 600 profughi, prevalentemente polacchi, a Trieste suscitò l'irritazione delle autorità, il Ministero dell'Interno proibì dapprima in aprile, il transito degli ebrei polacchi, e in seguito, con l'ampio divieto di emigrazione del 18 maggio 1940 si giunse a un blocco totale dell'emigrazione di transito.

Nel periodo successivo all'introduzione delle leggi razziali le condizioni di vita dei profughi ebrei peggiorarono in modo drammatico. Il divieto di lavoro per "ebrei stranieri", entrato in vigore il 12 marzo 1939 - termine fissato per l'espulsione - ebbe come conseguenza, secondo una stima della Delasem (Delegazione per l'Assistenza agli Emigranti Ebrei) che era subentrato con l'autorizzazione ufficiale al disciolto comitato milanese, che in media solo circa il 3% dei necessari mezzi di sostentamento proveniva da un' attività professionale autonoma. Secondo un'altra stima, le autorità erano disposte a tollerare il lavoro occasionale illegale, cosicché è probabile che la percentuale delle entrate autonome fosse leggermente superiore. In generale però i profughi attingevano sempre più alle loro sostanze ed erano costretti a disfarsi dei loro averi e dei loro ultimi oggetti di valore. Il sostegno finanziario assicurato alla Delasem dall'American Jewish Joint Distribution Committee era di gran lunga insufficiente a garantire agli ormai oltre 3000 individui assistiti le più elementari necessità vitali. Ne il Joint doveva distribuire i propri aiuti in tutta l'Europa, e in molti luoghi il bisogno era ancora maggiore. Il fatto che, nonostante il sostegno limitato che ricevevano, i profughi riuscissero ed assicurarsi il sostentamento fa pensare a un'empia e spontanee disponibilità da parte della popolazione italiana ad aiutarli.

Secondo una stima ufficiale del marzo 1940 si trovavano ancora in territorio italiano 3870 ebrei immigrati e rifugiatisi in Itali e dopo il 1918 più tra 2000 e 2500 persone che avevano il diritto di rimanere in Italia. Grosso modo si può dire che tra il settembre del 1939 e il giugno del 1840 a una emigrazione di lO 000 a 11000 persone dall'Italia corrispose une immigrazione di oltre 6000 profughi, sempre ad eccezione delle persone in transito, il cui numero non è noto.

Immediatamente dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il lO giugno 1940, il governo fascista varò delle misure per l’internamento dei cittadini delle nazioni nemiche, seguendo in tal modo l'esempio delle Germania, della Francia, delle Gran Bretagna e di altri paesi. L'internamento fu motivato come strumento per garantire la sicurezza interna e la sicurezza militare - ad esempio contro lo spionaggio - e con esso si voleva evitare che uomini abili al servizio militare lasciassero il paese e si arruolassero nell'esercito nemico. A partire dalla metà di agosto del 1939, dunque poco prima dell'inizio della guerra, le autorità italiane cominciarono i primi preparativi. Solo a partire dal maggio del 1940 sono pero documentabili le prime disposizioni relative all’internamento degli immigrati e dei profughi. In tal modo l'internamento, che all'origine non aveva nulla a che vedere con la politica razziale, entrò in stretta relazione con quest'ultima. Il 15 giugno fu ordinato l'arresto degli uomini ebrei di età compresa tre il 18 e i 60 anni, di nazionalità tedesca, polacca e ceca oppure apolidi.Le donne e i bambini furono allontanati dalla loro residenza e concentrati in luoghi isolati sotto il controllo della polizia nel cosiddetto "internamento libero".

Il periodo trascorso nelle prigioni locali immediatamente dopo l'arresto durato in genere alcune settimane - prima che fossero pronti i campi di internamento, fu sentito da tutti i detenuti come particolarmente duro. Le celle erano in genere strapiene, prive delle necessarie attrezzature sanitarie e spesse pullulavano di insetti. Accadeva poi frequentemente che gli ebrei fossero rinchiusi insieme ai criminali comuni. Ma la cosa più pesante da sopportare era l'incertezze sulle intenzioni delle autorità italiane. Avevano forse in mente di rispedirli in Germania? Il trasporto nei campi di internamento ebbe luogo in piccoli gruppi sotto il controllo della polizia, utilizzando le ferrovie. Durante il trasporto dalla prigione ai vagoni ferroviari ai polsi dei detenuti venivano strette talora delle manette, come si usa fare con i delinquenti. Alle donne e ai bambini veniva di regola risparmiato l'arresto, ma si aggiungeva loro di tenersi pronti per la partenza in un giorno determinato e di presentarsi alla prefettura della provincia prevista per il loro internamente

I "campi di concentramento" italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Solo il campo di Ferramonti-Tarsia nei mesi immediatamente precedenti la liberazione giunse a contenere oltre 2000 internati, di cui circa 1500 ebrei. In tutto il periodo dell’internamento, fino al settembre 1943, si può provare l'esistenza di circa quaranta campi, nei quali venivano tenuti "ebrei stranieri". Ad eccezione di due casi, tutti i campi erano situati nell'Italia centrale e meridionale, soprattutto nelle province molto fredde d'inverno - di Campobasso, Chieti, Macerata e Teramo.

I campi più meridionali si trovavano a Campagna in provincia di Salerno, ad Alberobello in provincia di Bari e a FerramontiTarsia in provincia di Cosenza. Solo in dodici campi gli ebrei erano separati dagli altri stranieri. In tutto c'erano sette campi femminili. I campi promiscui erano tre. A Ferramonti-Tarsia alla fine del 1940 furono edificate delle baracche per famiglie, che non bastarono tuttavia a riunire tutte le famiglie che l'internamento aveva separato. A partire dal 1941 a Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su istanza degli internati, di passare al regime di "libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Cosi molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati.

Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: "Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza" In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, elle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. I campi erano sorvegliati, anche se, tranne a Ferramonti-Tarsia, non c'era il filo spinato. Solo in casi eccezionali come ad esempio qualora si rendesse necessario un intervento medico d'urgenza, veniva concesso un permesso di uscita. La resistenza nei confronti dell'ordinamento del campo poteva essere punita con il trasferimento in un campo ancora più severo, ad esempio situato sulle isole prospicienti la costa italiana. Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche le condizioni di igiene erano pietose, il riscaldamento nei mesi invernali era insufficiente. Nel campo di Feramonti-Tarsia furono riscontrati oltre 800 casi di malaria. Fortunatamente non si trattava di una forma mortale, e non si ebbero vittime.

Nei campi più grandi la direzione consentiva agli internati una forma di amministrazione autonoma. A Ferramonti-Tarsia era state creata - in pieno fascismo - un'assemblea dei rappresentanti delle baracche, che elesse il portavoce del campo e creò numerose commissioni, come quella sanitaria, quella educativa e quella culturale, una farmacia, un pronto soccorso, tre sinagoghe, una cappella cattolica e una greco-ortodossa. Analogamente a quanto avveniva in alcuni campi d'internamento francesi, nei campi italiani si sviluppò una vita culturale molto vivace con rappresentazioni teatrali e manifestazioni musicali. In questo modo nella monotonia della vita dei campi e nella loro chiusura nei confronti del mondo esterno - che erano sentite dagli internati come particolarmente oppressive e paralizzanti - si inseriva qualche momento di svago.

Le circostanze dell'"internamento libero" dipendevano molto dalle condizioni locali. Nelle località del sud in genere mancava ancora l'acqua corrente, un'attrezzatura sanitaria moderne, la luce elettrica e il telefono. Per il riscaldamento si usava il braciere. La zona e l'ora della libera uscita venivano stabiliti della polizia locale, dove gli internati dovevano presentasi due volte al giorno. Un contatto più stretto con la popolazione locale come ad esempio inviti in case private, era proibito e poteva avere come conseguenza l' internamento in un campo.

Nel luglio 1943 il numero degli internati ammontava, secondo le statistiche del Ministero dell’Interno, a 6400 ebrei e persone di origine ebraica. Durante la guerra il confine italiano con la Germania era rimasto chiuso. I profughi ebrei, tranne pochissime eccezioni, venivano respinti. Diversamente da quanto avvenne al confine con la Svizzera, pare che solo pochi ebrei abbaino tentato di entrare in Italia, giacché non avevano alcuna speranza di trovarvi asilo. L'unica eccezione rilevante era quella dei 40 ragazzi e ragazze che vivevano oltre un anno a Villa Emma a Nonantola. Poterono entrare con un permesso delle autorità nella parte meridionale della Slovenia annessa all'Italia.Furono invece accolti circa 2000 nuovi profughi provenienti dallo stato croato degli ustaci e dalla Serbia che dai territori annessi e occupati della Dalmazia furono trasferiti nella penisola, e 505 profughi della "Pentcho" un piroscafo a ruote del Danubio, che durante un viaggio alla volta della Palestina si era incagliata su un'isola vicino a Rodi. Nel periodo dell'internamento riuscirono a lasciare il paese circa 700 persone, che in gran parte raggiunsero gli Stati Uniti e l'America latina passando per Lisbona.

L'Italia fascista - finché non fu occupata - non ha estradato ebrei alla Germania, tranne qualche singolo caso, nell'ambito dell'accordo di polizia italo-tedesco. Nella zona d'occupazione italiana in Jugoslavia però Mussolini cedette nell'agosto del 1942 alla richiesta tedesca di estradare oltre 3000 profughi ebrei che vi si trovarono, con il suo nulla osta. I profughi furono salvati soltanto perché l'esercito italiano, coadiuvato dal Ministero degli esteri riuscì a impedire la consegna. Un comportamento analogo di Mussolini si verificò nella zona mi occupazione italiana della Francia, dove Mussolini era disposto a tollerare l'intervento della polizia francese che aveva l'ordine del governo a Vichy di deportare i profughi ebrei nella zona sotto occupazione tedesca. Nel giugno 1943 il direttorio del Partito Fascista chiedeva in una risoluzioni indirizzata a Mussolini il "Rimpatrio di tutti gli stranieri che non sappiano giustificare la proprie presenza in Italia o, ove ciò non fosse possibile, il loro isolamento in luoghi non di villeggiatura" Con tale proposta si raccomandavano provvedimenti che nel loro effetto uguagliavano l’estradizione.

Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio la situazione degli immigrati e dei profughi ebrei rimase immutata. Il nuovo regime, temendo la riprovazione dei tedeschi, si rifiutò di abrogare le leggi razziali e di revocare l'internamento degli stranieri mentre liberò gran parte dei prigionieri politici. Solo due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio, l’8 settembre 1943 che aveva significato secondo l'accordo con gli alleati la revoca dell'internamente il capo della polizia in un telegramma ai prefetti ordinò il rilascio di tutti gli stranieri, che-- erano liberi di scegliere se fare ritorno alle rispettive precedenti residenze in Italia restare sul luogo dove erano stati internati, continuando a percepire il sussidio giornaliero.

Alla notizia che le truppe tedesche avevano occupato il paese cominciò una fuga generale dai luoghi di internamento, che venne favorita dalle disposizioni di rilascio degli internati. Secondo le notizie di singole province, si può stilare che tra un terzo e la metà di tutti internati ebrei riuscì a scappare. I profughi si diressero verso la frontiera svizzera e verso Sud, dove speravano in una rapida liberazione da parte degli alleati. Fino a gennaio del 1944 poterono essere accolti in Svizzera almeno 1000 immigrati profughi ebrei. Tra 1300 e 1500 ebrei riuscirono a rifugiarsi in Italia dopo l'occupazione del Sud-Est delle Francia dalle truppe tedesche. Circa 2200 internati ebrei furono liberati dagli alleati entro la fine di settembre a sud della linea Montecassino-Pescara.

Sotto l'occupazione tedesca i comandi militari furono responsabili per la sicurezza militare. Perciò ripresero l'internamento degli stranieri chiudendo dei campi, sgombrando dei campi costituendo nuovi campi. Di regola la direzione e il personale custodia rimasero italiani. La prima deportazione si ebbe già alle metà di settembre a Merano situato nelle zone operativa "Prealpi" il 16 ottobre seguì la retata nel vecchio ghetto di Roma mediante le quale furono deportate ad Auschwitz oltre mille persone, Il 1° novembre fu revocata la norma che annullava l'internamento degli stranieri, il 14 novembre gli ebrei italiani furono annoverati nella Carta di Verona tra "gli appartenenti di stati nemici"però senza formale privazione delle cittadinanza) e il 30 novembre seguì l'ordine di polizia N. 5 con la quale fu disposto l'arresto di tutti gli ebrei in Italia e il loro trasferimento in campi di concentramento. D'ora in avanti gli arresti furono operati in grande quantità dalla polizia italiana. In poco tempo sorse una rete di 25 campi provinciali. Alla fine di novembre l'unico campo centrale fu creato a Fossoli di Carpi, in provincia di Modena,

che in un primo tempo era gestito dagli italiani e dalla fine di febbraio passò sotto il controllo delle SS. Nel luglio del 1944, a causa della guerra partigiana nella zona del Po, venne spostato a Bolzano-Gries. Oltre che da Fossoli le deportazioni alla volta di Auschwitz partivano anche da Trieste, passando per il campo della Risiera di Sen Sabba, e dalle prigioni di Firenze, Milano, Verona e Mantova. Tra i 6806 deportati dell'Italia 2444 erano nati all'estero, e quindi prevalentemente erano immigrati e profughi.

Questo significa che oltre un quarto di essi fu deportato.

Non si può dubitare delle conseguenze nefaste dell'ordine di polizie n. 5 che non sembra essere stato imposto dalla polizia tedesca, ma essere stato emanato dal governo di Salò di propria iniziativa. Con 1'ordine di polizia n. 5. l'efficienza degli arresti fu notevolmente aumentata, in quanto le polizia italiana era famigliare dei luoghi e interveniva nell'intero territorio occupato. Invece non è facile precisare i motivi del governo di Salò di avere scelta tele strada anziché restare passivo e non andare oltre la legislazione razziale tele esisteva prima dell' occupazione. Non sono noti indizi che Mussolini avesse avuto idee di sterminio e di genocidio n8i confronti degli ebrei. Il governo di Salò ovviamente voleva creare un nuovo sistema di campi in sostituzione dei campi sulle isole e in Italia centrale e meridionale e rinchiudervi gli ebrei assieme agli avversari politici. Doveva però sapere che non poteva impedire la consegna, se la polizia dovesse chiederla. In pratica, ogni arresto, ogni internamento di ebrei rappresentava una forma di collaborazione, perché veniva incontro alle intenzioni della Gestapo e facilitale deportazioni.

Dopo la liberazione la maggior parte degli immigrati e dei profughi ebrei raggiunse la Palestina e gli Stati Uniti. Non si conosce con precisione il numero di coloro che dopo la guerra rimasero definitivamente in Italia. Solo quattro ebrei espressero il desiderio di far ritorno in Germania al servizio degli alleati per ritrovare i parenti e rientrare in possesso dei propri beni.

L'Italia, il rifugio al quale in un primo momento non si sarebbe pensato, riceve nelle testimonianze dei sopravvissuti quasi un encomio unanime. In questi racconti viene espressa la gratitudine nei confronti della spontanea disponibilità di molti italiani ad aiutare i profughi e della loro partecipazione umana alle disgrazie degli esuli, del tutto libera da ogni antisemitismo e xeno fobia. A questa immagine positive si oppone il fatto che il governo fascista, a partire dalla promulgazione delle leggi razziali, portò avanti una politica persecutoria, che danneggiò soprattutto i rifugiati e gli immigrati ebrei. Durante la Repubblica di Salò Mussolini e gli fascisti fanatici rimastigli fedeli facilitarono col loro atteggiamento le deportazioni. L'esperienza dei sopravvissuti corrisponde tuttavia alla realtà politica e sociale, nel senso che le disposizioni di politica razziale nei confronti dei profughi furono spesso attenuate a diversi livelli dell'apparato Statale. Dal semplice poliziotto fino ai più alti gradi dei ministeri e dell’esercito si può spesso osservare un comportamento umano ora sensibile al destino del singolo individuo.

 

Per la bibliografia si rimanda a Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, vol. 1, Firenze (La Nuova Italia) 1993; vol. 2, Firenze (La Nuva Italia) 1996; Klaus Voigt, I profughi ebrei in Italia (1933 - 1945), in Mario Toscano (a cura di), Integrazione e identità. L'esperienza ebraica in Germania e Italia dall'illuminismo al fascismo, Milano (Franco Angeli) 1998, pp. 244 - 267; Michele Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino (Einaudi) 2000; Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940 - 1943 ), Torino (Einaudi) 2004.