Brunello Mantelli*
GENOCIDIO
Il concetto di “genocidio” assume per la prima volta una dimensione giuridica, come tipo particolare di reato, nella risoluzione n° 96-I votata dall'assemblea generale dell'ONU l'11 dicembre 1946; nel testo si dichiara che
E' genocidio negare ad interi gruppi comuni il diritto di esistere, così come l'omicidio è la negazione del diritto all'esistenza di un singolo essere umano; una tale negazione ferisce la coscienza dell'umanità intera, le infligge una grave perdita privandola dei contributi culturali e di altra natura forniti dai gruppi umani coinvolti (...). In più occasioni si sono verificati crimini di genocidio allorché gruppi razziali, politici, religiosi o di altro genere sono stati in tutto od in parte distrutti. La repressione del reato di genocidio è una questione di interesse internazionale.
La risoluzione prosegue affermando che i responsabili del crimine di genocidio, chiunque essi siano, vanno puniti indipendentemente dai motivi (di carattere razziale, religioso, politico o di altra natura) che possano averli spinti a commetterlo, e rinviando ulteriori precisazioni ad un'apposita convenzione internazionale sul tema, che dovrà essere discussa in seguito.
Due anni dopo, il 9 dicembre 1948, la convenzione è approvata dall'assemblea generale (risoluzione ONU n° 260-III) ed entra in vigore. Nel confermare che il genocidio è un crimine da sanzionare a livello internazionale, il documento precisa che esso è tale indipendentemente dal fatto che sia stato commesso “in tempo di pace o in tempo di guerra” e ne precisa ulteriormente le caratteristiche e la sanzionabilità:
per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: (a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. Sono punibili gli atti che seguono: a) il genocidio; b) l'associazione ai fini di commetterlo; c) l'istigazione pubblica e diretta; d) il tentativo di metterlo in atto; e) la complicità in esso[1].
Più oltre si nega al genocidio qualunque giustificazione di natura politica, e si prefigura la costituzione di tribunali penali internazionali (di cui si parla specificatamente in un documento aggiuntivo) incaricati di procedere contro i responsabili del delitto suddetto.
Come per ogni trattato internazionale, era previsto un periodo di validità decennale, a cui avrebbero potuto seguire periodici rinnovi a distanza di un lustro l'uno dall'altro. A tutt'oggi la convenzione continua ad essere valida, e col passare del tempo è progressivamente aumentato il numero di paesi che l'hanno sottoscritta (la Repubblica italiana ha formalmente aderito l'11 marzo 1952, attraverso un voto parlamentare – legge n° 153/52). Val la pena di ricordare che, in linea di principio, i trattati internazionali vincolano solo gli Stati che li abbiano ratificati, tuttavia nel 1951 la Corte internazionale di giustizia dell'Aja (organo dell'ONU con il compito di dirimere eventuali dispute interpretative fra i membri dell'organizzazione) ha dichiarato che le norme riguardanti il genocidio rientrano nel diritto internazionale consuetudinario (l'insieme di regole che scaturiscono dall'esame comparato delle norme codificate nei singoli Stati e dalla prassi abitualmente da essi messa in atto; in sintesi, si potrebbe dire che il diritto internazionale consuetudinario misura il grado di sviluppo civile dell'umanità intera), e perciò obbligano tutti quanti gli Stati esistenti.
Ovviamente, la codificazione giuridica del reato di genocidio non significa che tragedie analoghe non si fossero verificate nei secoli precedenti il Novecento (basti pensare alla conversione forzata dei Sassoni al cristianesimo attuata da Carlo Magno, sotto la minaccia della spada, alla fine dell'VIII secolo d.C.; alle stragi di calvinisti note come Notte di San Bartolomeo, tra il 23 ed 24 agosto 1572 in Francia, alla guerra dei Trent'Anni[2], ed ad altri innumerevoli drammi), ma essa rappresenta un decisivo progresso nella consapevolezza etica e civile del genere umano; come sempre, il diritto non prefigura lo sviluppo storico, ma interviene a sancire le nuove acquisizioni dell'umanità in materia di lecito ed illecito.
Nel 1946 a dare una spinta decisiva ai governi furono, va da sé, gli eventi della Seconda guerra mondiale (1939-1945) ed in particolare la distruzione degli ebrei d'Europa perseguita, dal 1941 in avanti, dal Terzo Reich nazionalsocialista e dai suoi alleati, ma anche le atrocità di cui si rese responsabile in Asia il Giappone imperial-militarista. I circa sei milioni di vittime della Shoah configuravano infatti un fenomeno di tali dimensioni da rendere necessario un nuovo concetto giuridico: per l'appunto il genocidio.
Anche i richiami ad un futuribile Tribunale penale internazionale (tale non è infatti la Corte dell'Aja) si nutrivano dell'esperienza e dell'esempio di quelli costituiti all'epoca a Norimberga ed a Tokio (promossi entrambi dagli Stati membri della coalizione antifascista con l'obiettivo di processare i dirigenti ancora in vita della Germania hitleriana il primo, la direzione civile e militare nipponica il secondo, operarono rispttivamente dal 20 novembre 1945 al 1° ottobre 1946 e dal 3 maggio 1946 al 12 novembre 1948[3]). Fondati giuridicamente sul diritto internazionale consuetudinario a cui già si è fatto cenno, essi però non fecero un uso sistematico e ragionato del concetto di genocidio nel formulare i capi d'accusa, ancorché il termine abbia fatto capolino nelle requisitorie e nelle sentenze; si basarono invece sulla categoria giuridica già consolidata di “crimini di guerra” e su quelle, assai più recenti, di “crimini contro l'umanità” e “crimini contro pace”.
Erano state le Convenzioni internazionali stipulate all'Aja nel 1899 e nel 1907 su leggi ed usi della guerra terrestre (nel secondo caso, tuttavia, testi appositi si occuparono anche delle ostilità sui mari) a definire, sulla base del diritto consuetudinario vigente, le norme che dovevano regolare l'impiego della forza in guerra, salvaguardando sia i non combattenti, sia i militari non più in grado di battersi (feriti, prigionieri, ecc.) e di conseguenza a far ricadere sotto la categoria del “crimine di guerra” comportamenti difformi da quanto pattuito; si tenga però presente che principi tesi a limitare l'uso indiscriminato della violenza in battaglia erano stati enunciati molto prima: li possiamo rinvenire negli scritti, risalenti al quarto secolo a.C., attribuiti al guerriero cinese Sun Tzu come anche nella Grecia classica, mentre la prima nozione di “crimini di guerra” compare nelle cosiddette “Ordinanze di Manu”, composte in India tra il secondo secolo a.C. ed il secondo d.C. e dal carattere sacrale in quanto presunta espressione del progenitore degli uomini.
Il primo processo di fronte ad una corte penale internazionale (composta da giudici designati dal Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, dal Regno di Francia, dalla Confederazione Elvetica e dalle città libere dell'alto Reno) per tale reato fu celebrato a Breisach am Rhein, città oggi facente parte della Repubblica federale tedesca, il 9 maggio 1574, contro l'ex governatore (balivo) Peter von Hagenbach.
Un ulteriore, importante, passaggio fu la proclamazione da parte del presidente statunitense Abraham Lincoln, durante la guerra di secessione, nel 1863, delle Institucions for the Governement of Armies of the Field, meglio note come codice Lieber, che vietavano, salvo casi particolari, “ogni violenza commessa senza necessità contro gli abitanti del paese invaso” (art. 39) e proibivano il ferimento o l'uccisione del “nemico ridotto completamente alla impotenza” (art. 66).
La nozione di “crimini contro l'umanità” comparve invece per la prima volta nella Convenzione del 1907, in riferimento a comportamenti che violassero il diritto consuetudinario, considerato come un patrimonio comune dell'intera umanità, e fu ripresa nel 1919 da una commissione incaricata dai vincitori della Grande Guerra (1914-1918) di rivedere le norme fissate dodici anni prima all'Aja; la proposta, formulata dalla commissione, di applicare tale categoria ai massacri degli armeni messi in atto dalle autorità turche nel periodo 1915-1923 (oltre un milione di vittime) si scontrò tuttavia con l'opposizione di Stati Uniti e Giappone, i cui governi sostennero che i crimini contro l'umanità erano sì violazioni delle leggi morali, ma non del diritto positivo.
Proprio la riflessione sugli eventi di cui erano stati vittima gli armeni, unita allo choc suscitato dal massacro di oltre 3.000 assiri (comunità di oltre due milioni di persone stanziata nell'Iraq settentrionale, di lingua aramaica e fede tradizionalmente cristiana, ancorché divisa in cinque chiese tra autonome, ortodosse e cattoliche) compiuto nel 1933 dall'esercito iracheno (lo Stato mediorientale era diventato formalmente autonomo sotto un regime monarchico dal 1921, ma sostanzialmente si trovava sotto il controllo britannico), indusse il giurista polacco Raphaël Lemkin a proporre, alla V Conferenza internazionale per l'unificazione del diritto penale, svoltasi a Madrid nell'ottobre 1933, una nuova fattispecie di crimine da inserire tra quelli presi in considerazione dal diritto internazionale: gli “atti di barbarie”, da lui definiti come
le azioni miranti allo sterminio di una collettività etnica, religiosa o sociale a prescindere dai motivi che li abbiano determinati (politici, religiosi, ecc.), come per esempio massacri, pogromi [attacchi sanguinosi a comunità ebraiche, frequenti in particolare dal 1881 nei territori occidentali dell'impero zarista NdA], atti intrapresi allo scopo di rovinare economicamente l'esistenza dei membri di una specifica collettività ecc.[4]
Lemkin, un ebreo nato nel 1900 nella regione di Białistok (al tempo incorporata nell'impero zarista, sarebbe entrata a far parte della ricostituita Repubblica polacca nel 1921), dopo studi condotti a Leopoli ed Heidelberg insegnò dal 1929 in un'istituzione universitaria ebraica a Varsavia e contemporaneamente assunse la carica di pubblico ministero; data la sua competenza giuridica, fu al tempo più volte incaricato di rappresentare il suo paese in consessi internazionali. La sua iniziativa madrilena non ebbe però successo, anzi egli andò incontro alla disapprovazione dei suoi superiori, all'epoca interessati ad una conciliazione con il nuovo governo tedesco guidato da Adolf Hitler, e l'anno successivo fu costretto a dimettersi dai ruoli della pubblica amministrazione. Ferito in combattimento nel settembre 1939, in seguito all'aggressione tedesca alla Polonia, il giurista riuscì a mettersi in salvo raggiungendo avventurosamente la Svezia.
Chiamato ad insegnare all'Università di Stoccolma, continuò a lavorare attorno ai temi oggetto della sua proposta del 1933, arricchendoli con le notizie di atrocità e stermini che man mano giungevano dall'Europa occupata dalle armi dell'Asse; fu in quel contesto che elaborò, traendolo dal greco antico, il concetto di “genocidio”, in cui trasfuse le sue riflessioni precedenti. Lo rese pubblico nel 1944, dando alle stampe negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1941 (avrebbe proseguito la sua attività accademica nella Repubblica stellata) il volume Axis Rule in Occuped Europe. Laws of Occupation, Analysis of Governement, Proposals for Redress[5], dove aveva scritto che:
con genocidio si intende la distruzione di un gruppo etnico (...) nel senso di un piano coordinato che comprende diverse azioni dirette a distruggere le basi essenziali della vita di gruppi nazionali allo scopo di annientarli (...). Il genocidio comprende due fasi: la prima è la distruzione del modello nazionale del gruppo oppresso; la seconda l'imposizione del modello nazionale dell'oppressore. Questo modello può essere imposto alla popolazione oppressa, consentendole però di restare, oppure al solo territorio, dopo che i cittadini della nazione che opprime hanno espulso la popolazione e ne hanno colonizzato il territorio[6].
Come si vede, in questa definizione rientravano non solo massacri e stermini, ma anche “pulizie etniche” e pratiche di snazionalizzazione culturale.
Consulente dell'accusa al tribunale di Norimberga (in cui egli contribuì all'introduzione del termine “genocidio” negli atti processuali), Lemkin cercò di far prendere in esame un suo progetto di convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio agli incontri preparatori della Conferenza della pace, svoltisi a Parigi nella seconda metà del 1945, ma, come dodici anni prima, senza risultati. L'anno successivo, tuttavia, i suoi sforzi (nel frattempo aveva pubblicato altri testi sul tema) ebbero esiti positivi sfociando nell'approvazione della risoluzione n° 96-I, ricordata all'inizio, da parte dell'ONU; egli stesso entrò a far parte del gruppo di esperti incaricato di preparare la bozza di convenzione votata nel 1948.
Ancorché l'ancoraggio al diritto internazionale del reato di genocidio sia stato realizzato, non possedendo l'ONU strumenti esecutivi in grado di garantirne la punizione essa è rimasta in qualche misura dipendente dalla volontà degli Stati ed in modo particolare delle maggiori potenze di farsene carico, nonché dalla situazione di maggior o minor tensione esistente a livello internazionale; come si può osservare, tra la definizione del 1946 e quella del 1948 corrono differenze neanche tanto sottili: nel primo testo compaiono tra le vittime potenziali anche i “gruppi politici”, che invece sono assenti in quello di due anni dopo (che lasciò per non pochi versi insoddisfatto lo stesso Lemkin). L'omissione fu dovuta alle pressioni esercitate in tal senso dall'URSS e dagli Stati del blocco orientale, che trovarono espressione in una richiesta formale in tal senso presentata dalla delegazione polacca.
Motivi analoghi hanno reso non facile la repressione degli eventi drammatici sicuramente inquadrabili nella categoria di “genocidio”, anche con le limitazioni del 1948, che si sono verificati da allora ad oggi, ancorché vada sottolineata l'importanza delle definizioni giuridiche in sé, che rappresentano un punto di non ritorno.
Solo di recente, il 17 luglio 1998 (mezzo secolo dopo l'approvazione della Convenzione contro il genocidio!), è stato possibile dar vita, con il consenso di 120 Stati membri dell'ONU[7] presenti alla Conferenza diplomatica svoltasi nella capitale italiana (da qui la definizione di “Statuto di Roma”), al Tribunale penale internazionale a suo tempo previsto ma mai fino ad allora realizzato; la Corte, che siede anch'essa all'Aja, ha iniziato la sua attività il 1° luglio 2002 (non appena raggiunta, conformemente al dettato dello Statuto di Roma, la cifra di 60 ratifiche da parte dei paesi sottoscrittori), e si sta attualmente occupando di numerosi casi, concentrati per ora nel continente africano[8].
In precedenza, l'ONU aveva dato vita a Tribunali internazionali la cui competenza era però limitata a singoli – specifici - casi, come le stragi e “pulizie etniche” perpetrate nell'ex Jugoslavia dal 1991 (Corte creata con la risoluzione 808 del 22 febbraio 1993, votata dal Consiglio di Sicurezza), ed i massacri verificatisi in Ruanda (Tribunale istituito dalla risoluzione 995 dell'8 novembre 1994, approvata dal medesimo organo ristretto).
Attualmente (marzo 2008) hanno sottoscritto lo Statuto di Roma ben 146 Stati, pari al 76,4% del totale degli aderenti all'ONU (191 in tutto; tra i mancati sottoscrittori tuttavia troviamo potenze di prim'ordine, come Cina, Giappone, India e Pakistan; nonché entità politiche importanti come Etiopia, Iraq e Turchia; per finire a paesi travagliati da conflitti come Birmania, Indonesia, Malaysia, Sri Lanka), ma solo 106 (pari al 55,5%) lo hanno ratificato; ancora più importante, tuttavia, è il fatto che tra le mancate ratifiche troviamo, accanto a paesi di ridotta estensione e rilevanza, realtà di grande peso come gli USA, a tutt'oggi unica superpotenza, e la Federazione Russa; interi blocchi di Stati che insistono su un'area in tensione come il Medioriente (Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Israele, Kuweit, Oman, Siria, Yemen); paesi coinvolti in conflitti interni od esterni che potrebbero portare all'incriminazione di propri politici o militari per reati di competenza della Corte penale internazionale (Algeria, Angola, Armenia, Ciad, Eritrea, Kirghizistan, Marocco, Moldavia, Messico, Mozambico, Sudan, Uzbekistan, Zimbabwe).
Se per molti di essi è lecito sperare in una futura ratifica, per quanto riguarda gli Stati Uniti ed Israele si deve fare i conti con un vero e proprio disconoscimento dello Statuto: il 6 maggio 2002, infatti, Washington comunicò alla segreteria generale dell'ONU di “non avere l'intenzione di ratificarlo, non riconoscendo quindi alcun obbligo legale derivante dall'averlo sottoscritto il 13 dicembre 2000 e chiedendo che la propria decisione di non entrare a farne parte venisse messa in nota al testo dell'intesa stessa”[9]. Una missiva pressoché identica fu fatta pervenire da Gerusalemme il 28 agosto dello stesso anno[10]. In entrambi i casi, tra la sottoscrizione e la mancata ratifica si collocò un cambio di personale e di linea politici: negli USA ci fu la staffetta tra il democratico Bill Clinton ed il repubblicano George W. Bush, in Israele fra il laburista Ehud Barak ed il conservatore nazionalista Ariel Sharon. Non è perciò impossibile che un futuro ribaltamento elettorale induca entrambi gli Stati a rivedere il proprio atteggiamento.
* Docente di Storia dell'Europa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino
[1] Articoli II e III della Convenzione.
[2] Complessivamente, lo spazio germanofono coinvolto nel conflitto perse almeno dal 15 al 20% della popolazione, che passò secondo stime accreditate dai 20/21 milioni circa del 1618 ai 16/17 milioni del 1650; in regioni come il Brandeburgo, il Meclemburgo, la Pomerania, il Württemberg e la Boemia, però, le perdite umane andarono dalla metà a due terzi degli abitanti.
[3] Come è noto, gli alleati avevano inizialmente previsto di dar vita ad un'analoga Corte internazionale di giustizia incaricata di processare il gruppo dirigente dell'Italia monarchico-fascista responsabile di crimini di guerra, contro l'umanità e contro la pace di portata qualitativamente non inferiore a quelli di cui furono responsabili le élites politiche tedesca e giapponese. A tale scopo la commissione appositamente costituita nel 1943, la United Nations War Crimes Commission (UNWCC), raccolse importante materiale documentario anche sul caso italiano. In seguito però scelte politiche di varia natura, in cui giocò un ruolo non indifferente il fatto che con la crisi dell'estate 1943 una parte significativa dei responsabili dei crimini di guerra commessi dal regime mussoliniano cambiò schieramento aderendo al Regno del Sud, impedirono si celebrasse quella che sarebbe stata la vera “Norimberga italiana”.
[4] Dal testo originale francese presentato alla conferenza: “les actions exterminatrices dirigées contre les collectivités ethniques, confessionnelles ou sociales quels qu'en soient les motifs (politiques, religieux, etc.); tels p. ex. massacres, pogromes, actions entreprises on vue de ruiner l'existence économique des membres d'une collectivité etc.” La relazione aveva il titolo seguente: Les actes constituant un danger general (interétatique) consideres comme delites des droit des gens, e sarebbe in seguito stata pubblicata in francese, inglese e tedesco.
[5] Carnegie Endowment for International Peace – Division of International Law, Washington, 1944. L'opera fu poi più volte ripubblicata.
[6] Ivi, p. 79 (traduzione mia).
[7] Gli Stati presenti erano 148, 21 delegazioni si astennero, 7 votarono contro l'istituzione della Corte (i contrari furono: Cina, Iraq, Israele, Libia, Qatar, Stati Uniti d'America, Yemen. Israele e Stati Uniti tuttavia avrebbero nel 2000 sottoscritto l'intesa, senza però ratificarla, anzi due anni dopo avrebbero preso esplicitamente le distanze dalla Corte nel frattempo costituita. Cfr. infra).
[8] Nello statuto della Corte al reato di genocidio, ai crimini contro l'umanità ed ai crimini di guerra sono dedicati rispettivamente gli articoli 6, 7, 8, che qui si riproducono nella versione francese: Article 6
CRIME DE GÉNOCIDE
Aux fins du présent Statut, on entend par crime de génocide l'un quelconque des actes ci-après commis dans l'intention de détruire, en tout ou en partie, un groupe national, ethnique, racial ou religieux, comme tel: a) Meurtre de membres du groupe; b) Atteinte grave à l'intégrité physique ou mentale de membres du groupe; c) Soumission intentionnelle du groupe à des conditions d'existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle; d) Mesures visant à entraver les naissances au sein du groupe; e) Transfert forcé d'enfants du groupe à un autre groupe.
Article 7
CRIMES CONTRE L'HUMANITÉ
1. Aux fins du présent Statut, on entend par crime contre l'humanité l'un quelconque des actes ci-après lorsqu'il est commis dans le cadre d'une attaque généralisée ou systématique lancée contre toute population civile et en connaissance de cette attaque: a) Meurtre; b) Extermination; c) Réduction en esclavage; d) Déportation ou transfert forcé de population; e) Emprisonnement ou autre forme de privation grave de liberté physique en violation des dispositions fondamentales du droit international; f) Torture; g) Viol, esclavage sexuel, prostitution forcée, grossesse forcée, stérilisation forcée ou toute autre forme de violence sexuelle de gravité comparable; h) Persécution de tout groupe ou de toute collectivité identifiable pour des motifs d'ordre politique, racial, national, ethnique, culturel, religieux ou sexiste au sens du paragraphe 3, ou en fonction d'autres critères universellement reconnus comme inadmissibles en droit international, en corrélation avec tout acte visé dans le présent paragraphe ou tout crime relevant de la compétence de la Cour; i) Disparitions forcées de personnes; j) Crime d'apartheid; k) Autres actes inhumains de caractère analogue causant intentionnellement de grandes souffrances ou des atteintes graves à l'intégrité physique ou à la santé physique ou mentale.
2. Aux fins du paragraphe 1: a) Par «attaque lancée contre une population civile», on entend le comportement qui consiste en la commission multiple d'actes visés au paragraphe 1 à l'encontre d'une population civile quelconque, en application ou dans la poursuite de la politique d'un État ou d'une organisation ayant pour but une telle attaque; b) Par «extermination», on entend notamment le fait d'imposer intentionnellement des conditions de vie, telles que la privation d'accès à la nourriture et aux médicaments, calculées pour entraîner la destruction d'une partie de la population; c) Par «réduction en esclavage», on entend le fait d'exercer sur une personne l'un quelconque ou l'ensemble des pouvoirs liés au droit de propriété, y compris dans le cadre de la traite des être humains, en particulier des femmes et des enfants; d) Par «déportation ou transfert forcé de population», on entend le fait de déplacer de force des personnes, en les expulsant ou par d'autres moyens coercitifs, de la région où elles se trouvent légalement, sans motifs admis en droit international; e) Par «torture», on entend le fait d'infliger intentionnellement une douleur ou des souffrances aiguës, physiques ou mentales, à une personne se trouvant sous sa garde ou sous son contrôle ; l'acception de ce terme ne s'étend pas à la douleur ou aux souffrances résultant uniquement de sanctions légales, inhérentes à ces sanctions ou occasionnées par elles; f) Par « grossesse forcée », on entend la détention illégale d'une femme mise enceinte de force, dans l'intention de modifier la composition ethnique d'une population ou de commettre d'autres violations graves du droit international. Cette définition ne peut en aucune manière s'interpréter comme ayant une incidence sur les lois nationales relatives à la grossesse; g) Par «persécution», on entend le déni intentionnel et grave de droits fondamentaux en violation du droit international, pour des motifs liés à l'identité du groupe ou de la collectivité qui en fait l'objet; h) Par «crime d'apartheid», on entend des actes inhumains analogues à ceux que vise le paragraphe 1, commis dans le cadre d'un régime institutionnalisé d'oppression systématique et de domination d'un groupe racial sur tout autre groupe racial ou tous autres groupes raciaux et dans l'intention de maintenir ce régime; i) Par «disparitions forcées de personnes», on entend les cas où des personnes sont arrêtées, détenues ou enlevées par un État ou une organisation politique ou avec l'autorisation, l'appui ou l'assentiment de cet État ou de cette organisation, qui refuse ensuite d'admettre que ces personnes sont privées de liberté ou de révéler le sort qui leur est réservé ou l'endroit où elles se trouvent, dans l'intention de les soustraire à la protection de la loi pendant une période prolongée.
3. Aux fins du présent Statut, le terme « sexe » s'entend de l'un et l'autre sexes, masculin et féminin, suivant le contexte de la société. Il n'implique aucun autre sens.
Article 8
CRIMES DE GUERRE
1. La Cour a compétence à l'égard des crimes de guerre, en particulier lorsque ces crimes s'inscrivent dans le cadre d'un plan ou d'une politique ou lorsqu'ils font partie d'une série de crimes analogues commis sur une grande échelle.
2. Aux fins du Statut, on entend par «crimes de guerre»: a) Les infractions graves aux Conventions de Genève du 12 août 1949, à savoir l'un quelconque des actes ci-après lorsqu'ils visent des personnes ou des biens protégés par les dispositions des Conventions de Genève: i) L'homicide intentionnel; ii) La torture ou les traitements inhumains, y compris les expériences biologiques; iii) Le fait de causer intentionnellement de grandes souffrances ou de porter gravement atteinte à l'intégrité physique ou à la santé; iv) La destruction et l'appropriation de biens, non justifiées par des nécessités militaires et exécutées sur une grande échelle de façon illicite et arbitraire; v) Le fait de contraindre un prisonnier de guerre ou une personne protégée à servir dans les forces d'une puissance ennemie; vi) Le fait de priver intentionnellement un prisonnier de guerre ou toute autre personne protégée de son droit d'être jugé régulièrement et impartialement; vii) La déportation ou le transfert illégal ou la détention illégale; viii) La prise d'otages; b) Les autres violations graves des lois et coutumes applicables aux conflits armés internationaux dans le cadre établi du droit international, à savoir, l'un quelconque des actes ci-après: i) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre la population civile en tant que telle ou contre des civils qui ne participent pas directement part aux hostilités; ii) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre des biens de caractère civil, c'est-à-dire des biens qui ne sont pas des objectifs militaires; iii) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre le personnel, les installations, le matériel, les unités ou les véhicules employés dans le cadre d'une mission d'aide humanitaire ou de maintien de la paix conformément à la Charte des Nations Unies, pour autant qu'ils aient droit à la protection que le droit international des conflits armés garantit aux civils et aux biens de caractère civil; iv) Le fait de diriger intentionnellement une attaque en sachant qu'elle causera incidemment des pertes en vies humaines dans la population civile, des blessures aux personnes civiles, des dommages aux biens de caractère civil ou des dommages étendus, durables et graves à l'environnement naturel qui seraient manifestement excessifs par rapport à l'ensemble de l'avantage militaire concret et direct attendu; v) Le fait d'attaquer ou de bombarder, par quelque moyen que ce soit, des villes, villages, habitations ou bâtiments qui ne sont pas défendus et qui ne sont pas des objectifs militaires; vi) Le fait de tuer ou de blesser un combattant qui, ayant déposé les armes ou n'ayant plus de moyens de se défendre, s'est rendu à discrétion; vii) Le fait d'utiliser indûment le pavillon parlementaire, le drapeau ou les insignes militaires et l'uniforme de l'ennemi ou de l'Organisation des Nations Unies, ainsi que les signes distinctifs prévus par les Conventions de Genève, et, ce faisant, de causer la perte de vies humaines ou des blessures graves; viii) Le transfert, direct ou indirect, par une puissance occupante d'une partie de sa population civile, dans le territoire qu'elle occupe, ou la déportation ou le transfert à l'intérieur ou hors du territoire occupé de la totalité ou d'une partie de la population de ce territoire; ix) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre des bâtiments consacrés à la religion, à l'enseignement, à l'art, à la science ou à l'action caritative, des monuments historiques, des hôpitaux et des lieux où des malades ou des blessés sont rassemblés, à condition qu'ils ne soient pas des objectifs militaires; x) Le fait de soumettre des personnes d'une partie adverse tombées en son pouvoir à des mutilations ou à des expériences médicales ou scientifiques quelles qu'elles soient qui ne sont ni motivées par un traitement médical, dentaire ou hospitalier, ni effectuées dans l'intérêt de ces personnes, et qui entraînent la mort de celles-ci ou mettent sérieusement en danger leur santé; xi) Le fait de tuer ou de blesser par traîtrise des individus appartenant à la nation ou à l'armée ennemie; xii) Le fait de déclarer qu'il ne sera pas fait de quartier; xiii) Le fait de détruire ou de saisir les biens de l'ennemi, sauf dans les cas où ces destructions ou saisies seraient impérieusement commandées par les nécessités de la guerre; xiv) Le fait de déclarer éteints, suspendus ou non recevables en justice les droits et actions des nationaux de la partie adverse; xv) Le fait pour un belligérant de contraindre les nationaux de la partie adverse à prendre part aux opérations de guerre dirigées contre leur pays, même s'ils étaient au service de ce belligérant avant le commencement de la guerre; xvi) Le pillage d'une ville ou d'une localité, même prise d'assaut; xvii) Le fait d'employer du poison ou des armes empoisonnées; xviii) Le fait d'employer des gaz asphyxiants, toxiques ou similaires, ainsi que tous liquides, matières ou procédés analogues; xix) Le fait d'utiliser des balles qui s'épanouissent ou s'aplatissent facilement dans le corps humain, telles que des balles dont l'enveloppe dure ne recouvre pas entièrement le centre ou est percée d'entailles; xx) Le fait d'employer les armes, projectiles, matières et méthodes de guerre de nature à causer des maux superflus ou des souffrances inutiles ou à frapper sans discrimination en violation du droit international des conflits armés, à condition que ces armes, projectiles, matières et méthodes de guerre fassent l'objet d'une interdiction générale et qu'ils soient inscrits dans une annexe au présent Statut, par voie d'amendement adopté selon les dispositions des articles 121 et 123; xxi) Les atteintes à la dignité de la personne, notamment les traitements humiliants et dégradants; xxii) Le viol, l'esclavage sexuel, la prostitution forcée, la grossesse forcée, telle que définie à l'article 7, paragraphe 2, alinéa f), la stérilisation forcée ou toute autre forme de violence sexuelle constituant une infraction grave aux Conventions de Genève; xxiii) Le fait d'utiliser la présence d'un civil ou d'une autre personne protégée pour éviter que certains points, zones ou forces militaires ne soient la cible d'opérations militaires; xxiv) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre les bâtiments, le matériel, les unités et les moyens de transport sanitaires, et le personnel utilisant, conformément au droit international, les signes distinctifs prévus par les Conventions de Genève; xxv) Le fait d'affamer délibérément des civils comme méthode de guerre, en les privant de biens indispensables à leur survie, y compris en empêchant intentionnellement l'envoi des secours prévus par les Conventions de Genève; xxvi) Le fait de procéder à la conscription ou à l'enrôlement d'enfants de moins de 15 ans dans les forces armées nationales ou de les faire participer activement à des hostilités; c) En cas de conflit armé ne présentant pas un caractère international, les violations graves de l'article 3 commun aux quatre Conventions de Genève du 12 août 1949, à savoir l'un quelconque des actes ci-après commis à l'encontre de personnes qui ne participent pas directement aux hostilités, y compris les membres de forces armées qui ont déposé les armes et les personnes qui ont été mises hors de combat par maladie, blessure, détention ou par toute autre cause: i) Les atteintes à la vie et à l'intégrité corporelle, notamment le meurtre sous toutes ses formes, les mutilations, les traitements cruels et la torture; ii) Les atteintes à la dignité de la personne, notamment les traitements humiliants et dégradants; iii) Les prises d'otages; iv) Les condamnations prononcées et les exécutions effectuées sans un jugement préalable, rendu par un tribunal régulièrement constitué, assorti des garanties judiciaires généralement reconnues comme indispensables; d) L'alinéa c) du paragraphe 2 s'applique aux conflits armés ne présentant pas un caractère international et ne s'applique donc pas aux situations de troubles et tensions internes telles que les émeutes, les actes isolés et sporadiques de violence ou les actes de nature similaire; e) Les autres violations graves des lois et coutumes applicables aux conflits armés ne présentant pas un caractère international, dans le cadre établi du droit international, à savoir l'un quelconque des actes ci-après: i) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre la population civile en tant que telle ou contre des personnes civiles qui ne participent pas directement aux hostilités; ii) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre les bâtiments, le matériel, les unités et les moyens de transport sanitaires, et le personnel utilisant, conformément au droit international, les signes distinctifs des Conventions de Genève; iii) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre le personnel, les installations, le matériel, les unités ou les véhicules employés dans le cadre d'une mission d'aide humanitaire ou de maintien de la paix conformément à la Charte des Nations Unies, pour autant qu'ils aient droit à la protection que le droit international des conflits armés garantit aux civils et aux biens de caractère civil; iv) Le fait de diriger intentionnellement des attaques contre des bâtiments consacrés à la religion, à l'enseignement, à l'art, à la science ou à l'action caritative, des monuments historiques, des hôpitaux et des lieux où des malades et des blessés sont rassemblés, pour autant que ces bâtiments ne soient pas des objectifs militaires; v) Le pillage d'une ville ou d'une localité, même prise d'assaut; vi) Le viol, l'esclavage sexuel, la prostitution forcée, la grossesse forcée, telle que définie à l'article 7, paragraphe 2, alinéa f), la stérilisation forcée, ou toute autre forme de violence sexuelle constituant une violation grave de l'article
3 commun aux quatre Conventions de Genève; vii) Le fait de procéder à la conscription ou à l'enrôlement d'enfants de moins de 15 ans dans les forces armées ou dans des groupes armés ou de les faire participer activement à des hostilités; viii) Le fait d'ordonner le déplacement de la population civile pour des raisons ayant trait au conflit, sauf dans les cas où la sécurité des civils ou des impératifs militaires l'exigent; ix) Le fait de tuer ou de blesser par traîtrise un adversaire combattant; x) Le fait de déclarer qu'il ne sera pas fait de quartier; xi) Le fait de soumettre des personnes d'une autre partie au conflit tombées en son pouvoir à des mutilations ou à des expériences médicales ou scientifiques quelles qu'elles soient qui ne sont ni motivées par un traitement médical, dentaire ou hospitalier, ni effectuées dans l'intérêt de ces personnes, et qui entraînent la mort de celles-ci ou mettent sérieusement en danger leur santé; xii) Le fait de détruire ou de saisir les biens d'un adversaire, sauf si ces destructions ou saisies sont impérieusement commandées par les nécessités du conflit; f) L'alinéa e) du paragraphe 2 s'applique aux conflits armés ne présentant pas un caractère international et ne s'applique donc pas aux situations de troubles et tensions internes telles que les émeutes, les actes isolés et sporadiques de violence ou les actes de nature similaire. Il s'applique aux conflits armés qui opposent de manière prolongée sur le territoire d'un État les autorités du gouvernement de cet État et des groupes armés organisés ou des groupes armés organisés entre eux.
3. Rien dans le paragraphe 2, alinéas c) et e), n'affecte la responsabilité d'un gouvernement de maintenir ou rétablir l'ordre public dans l'État ou de défendre l'unité et l'intégrité territoriale de
l'État par tous les moyens légitimes. I tre articoli costituiscono una riformulazione globale, ovviamente attuata sulla base delle formule pregresse, delle tre fattispecie criminali; di conseguenza ogni riflessione sul tema storiografia e diritto deve fare i conti con questa, più recente, versione normativa.
[9] Così recita la missiva inviata dal sottosegretario di Stato pro tempore per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale John R Bolton all'allora segretario generale dell'ONU Kofi Annan.
[10] La decisione del ministero degli Affari esteri di Gerusalemme fu supportata dal parere dell'Ufficio legale dello stesso dicastero, formulato il 30 giugno precedente. Quel testo lasciava tuttavia aperta la possibilità di una ratifica successiva.