Parole dimenticate,parole negate: Shoah
di Laura Fontana, Responsabile dei Progetti di Educazione alla Memoria del
Comune di Rimini- Intervento per il convegno di Barletta, 23 marzo 2007
E’ con grande piacere che ho accettato l’invito del prof. Luigi Di Cuonzo a partecipare a questo convegno dedicato alla Shoah. Ero già stata qui a Barletta qualche anno fa, in occasione di un seminario per insegnanti dedicato a questo argomento e ne serbo un ricordo molto positivo, per la bella esperienza professionale e umana che ho vissuto.Il compito che mi è stato affidato è quello di intrattenervi alcuni minuti sull’importanza delle parole, in particolare di alcune importanti parole che in questo periodo sembrano aver perso il loro peso, la loro importanza, la loro responsabilità, per l’utilizzo banale e spesso improprio che il linguaggio comune ne fa.
Vedo che in sala ci sono tantissimi studenti, dunque non sarà forse inutile incominciare a richiamare il significato linguistico del termine che oggi abbiamo come argomento centrale di questa giornata, Shoah. Cosa intendiamo esattamente quando parliamo di Shoah?
Dal punto di vista linguistico, Shoah è un termine ebraico che deriva dalla Torah, cioè dalla Bibbia; lo incontriamo più volte, ad esempio, nel Libro di Giobbe col significato di “catastrofe” e di “distruzione”. I grandi eventi tragici, i cataclismi, le sconfitte, le desolazioni venivano anticamente definite dagli ebrei come delle Shoah, cioè sciagure, eventi funesti, sia individuali che collettivi.
E’ solo dopo la seconda guerra mondiale che questo vocabolo inizierà ad avere un significato meno generico e più preciso, nel riferirsi alla persecuzione subita dagli ebrei europei sotto il nazismo. Con questo significato circoscritto a un evento storico ben preciso, Shoah inizia, dunque, a diffondersi lentamente nel vocabolario comune, prima in Israele e poi in altri paesi ad incominciare dalla Francia (grazie al successo riscontrato negli anni Ottanta dall’omonimo film documentario di Claude Lanzmann), per definire l’enorme massacro degli ebrei compiuto durante il Terzo Reich.
In Italia, da oltre un ventennio Shoah ha sostituito il vocabolo Olocausto, che invece è di etimologia greca e sottintende un significato religioso di sacrificio a Dio, dunque appare del tutto improprio per designare un massacro gigantesco in cui le vittime sono state uccise e non hanno affatto scelto di morire per sacrificarsi a Dio, né Dio ha chiesto loro di immolarsi. Anche questo termine compare nella Bibbia, per esempio nel Levitico, dove indica i sacrifici che i sacerdoti avrebbero dovuto dedicare al Signore nel futuro Tempio di Gerusalemme.
Oggi, in molta storiografia, ma anche nel linguaggio comune, Shoah e Olocausto sono divenuti sinonimi, due termini interscambiabili per denominare lo sterminio degli ebrei, sebbene un discorso serio che affronti la storia di quello che fu il tentativo di distruggere un intero popolo, imporrebbe una maggiore riflessione e consapevolezza circa le parole giuste da utilizzare.
Chiamare lo sterminio degli ebrei Olocausto implica richiamare alla mente di colui che ascolta (o che legge) l’idea di sacrificio e lo spirito religioso che in un certo qual modo “giustifica” quanto accaduto, due concetti, come si è detto poc’anzi, che con questo crimine non c’entrano davvero nulla.
Tuttavia, è anche vero che nei paesi anglofoni Holocaust resiste (in particolare negli Stati Uniti è stata notevole l’influenza dello scrittore sopravvissuto Elie Wiesel, che molto ha contribuito alla sua diffusione come significato di “sterminio degli ebrei) e si è imposto nel linguaggio comune rispetto a Shoah, tant’è che il museo di Washington, uno dei più grandi e prestigiosi del mondo dedicati alla memoria di questo evento, ha scelto deliberatamente di chiamarsi “The United States Holocaust Memorial Center”.
Per una riflessione molto interessante sul dibattito linguistico e storiografico tra Shoah e Holocaust, ma soprattutto sul significato implicito che il linguaggio veicola quando parla di materia come i genocidi, rimando al lavoro di Anna Vera Sullam Calimani, I nomi dello sterminio,edito da Einaudi nel 2001, al quale sono debitrice per alcune riflessioni qui esposte.Al di là del dibattito che potremmo intavolare sull’appropriatezza delle parole per denominare gli eventi, mi pare interessante sollevare una prima riflessione.
Il crimine commesso, il tentativo di eliminare dalla faccia della terra tutti gli ebrei, è stato sentito e riconosciuto dagli storici, dagli accademici, ma anche dai sopravvissuti e dalle stesse comunità ebraiche come un evento storico profondamente diverso dagli altri genocidi, come una tragedia talmente spaventosa da risultare inspiegabile nella sua interezza, inconcepibile nel suo orrore, inesprimibile con le normali parole a disposizione nel vocabolario umano. Come si fa a chiamare un evento tanto grande da risultare indescrivibile per i sopravvissuti e incomprensibile per gli ascoltatori? Se Olocausto non risulta appropriato, ma anzi fuorviante, nemmeno massacro o genocidio possono andare bene, perché non rendono l’idea di quanto lo sterminio degli ebrei sia stato un evento profondamente e spaventosamente nuovo nella storia dell’umanità. Quale parola, allora, trovare?
Ricordiamo che l’uomo si appropria della realtà nominandola, cioé ha bisogno di dare un senso alle cose mediante le parole. Se io non riesco a chiamare qualcosa con un nome, a inventarmi o a trovare un vocabolo per dirla, quella cosa non esiste né per me, né per nessun altro, non c’è, perché non ha un nome, non esiste perché non sono in grado di comunicarla.Del resto è detto anche nella Bibbia: il Signore creò le cose e diede loro un nome, creò l’uomo e lo chiamò Adamo, ecc. Dunque occorreva dare un nome allo sterminio degli ebrei che lo rendesse dicibile, per farlo entrare nel nostro linguaggio e nelle nostre biblioteche mentali.
Per questo, pur tra posizioni diverse nei paesi diversi, si è deciso di utilizzare preferibilmente il termine di SHOAH.
Da un punto di vista strettamente storico, la Shoah è stata lo sterminio di circa 6 milioni di ebrei attuato dai nazisti e dai loro collaboratori nel periodo compreso tra l’estate 1941, quando la Germania invase l’Unione Sovietica e il mese di maggio 1945, anno in cui finì la guerra e tutti i deportati sopravvissuti ai lager e allo sterminio vennero liberati dagli Alleati. In questo periodo, in tutti i paesi europei occupati da Hitler, gli ebrei vennero perseguitati come nemici del Reich e come razza da eliminare dalla faccia della terra, cercati uno per uno di città in città, fin nelle campagne e dentro gli ospedali o gli ospizi, privati di tutti i loro diritti, isolati dal resto della società, rinchiusi prima nei ghetti o in luoghi di prigionia temporanea e poi deportati in massa verso centri speciali, attrezzati per l’omicidio di massa mediante il gas.
In altre parole, possiamo definire la Shoah come il risultato dell’intenzione della Germania di Hitler di riuscire ad uccidere tutti gli ebrei d’Europa. I 6 milioni di morti, cifra purtroppo molto approssimativa, ha costituito un risultato grandioso rispetto al progetto nazista, in quanto in poco tempo sono state uccisi i due terzi di tutti gli ebrei che vivevano in quegli anni in Europa. Va sottolineato che lo sterminio non è stata affatto una tragica e fatale conseguenza della guerra in cui, si sa, in mezzo ai conflitti capita, purtroppo, che tante vittime innocenti rimangano uccise. La Shoah non è stato un massacro caotico frutto di fanatismo e follìa, ma è stato un progetto preparato con metodo, condiviso da tutti gli organi e le istituzioni di uno stato, supportato da una burocrazia molto efficace che ha permesso il raggiungimento di una serie di tappe importanti, come ha illustrato per primo lo storico americano Raul Hilberg nella sua opera monumentale La distruzione degli ebrei d’Europa:
- la definizione delle vittime, mediante tutta una serie di leggi e decreti che hanno stabilito chi fosse da considerare ebreo e chi no, al di là del praticare o non praticare la religione ebraica;
- l’espulsione e l’isolamento degli ebrei da tutti i settori della vita sociale, culturale, economica e politica, nel tentativo di cacciarli dai territori dominati dai nazisti;
- l’imprigionamento degli ebrei nei ghetti per poterli poi deportare più facilmente verso i centri di sterminio.
Il sistema di messa a morte è importante per la specificità della Shoah, perché il nazismo ha scelto di uccidere degli esseri umani, così come si decide di deratizzare un luogo da insetti o animali nocivi, come una gigantesca operazione di disinfestazione.
E in effetti, e qui torniamo al nostro tema delle parole, il linguaggio nazista ha utilizzato tutta una terminologia specifica per privare le vittime della loro dimensione umana: le persone da uccidere non sono uomini, donne, bambini, ma sono pezzi, cose, bacilli, virus da sterminare appunto con un gas, lo Zyklon B, concepito proprio per deratizzare. (Colpisce, a tal proposito, la concordanza di quasi tutti i sopravvissuti nel ricordare questo tipo di linguaggio estremamente volgare e offensivo nei loro confronti)
Quando Le Pen, il politico francese rappresentante dell’estrema destra, disse pubblicamente, qualche anno fa, che le camere a gas sono state un dettaglio della storia e che il modo in cui le persone sono morte non è rilevante, dimostra non solo la sua bassezza di uomo, ma soprattutto la sua clamorosa ignoranza. Le Pen non ha capito nulla della Shoah e di quello che costituisce appunto la sua singolarità rispetto ad altri genocidi. La storia ci ha insegnato che prima del nazismo, e anche dopo la fine della guerra, diversi terribili genocidi sono stati commessi ai danni di altri gruppi etnici o minoranze, genocidi di cui molto spesso non si parla più, talmente siamo abituati a vedere quotidianamente scene di violenza intorno a noi.
Agli inizi del Novecento, solo per fare un esempio, oltre un milione di Armeni, uomini, donne e bambini inermi, vennero brutalmente massacrati dai Turchi, nell’indifferenza generale, mentre oggi - sotto i nostri occhi e nel silenzio vergognoso dei mezzi di informazione e dei dibattiti politici delle grandi potenze di pace - si sta consumando un terribile massacro di civili nella zona del Darfur. Situazioni diverse, non sempre etichettabili come genocidi veri e propri, ma sempre fenomeni di brutale violenza.
D’altro canto, anche durante il periodo stesso del nazismo, gli ebrei non furono le uniche vittime del regime nazista e nemmeno gli unici morti della guerra, in quanto milioni furono gli innocenti uccisi durante i conflitti, o perseguitati e rinchiusi nei campi di concentramento come nemici del Reich. Perché allora, - e qui entro nel vivo del mio discorso con una nota anche un po’ polemica – considerare come diverso dagli altri genocidi lo sterminio degli ebrei? Ma soprattutto, perché ancora oggi, a distanza di più di Sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, si parla tanto di Shoah? Ora, che cos’ha di speciale questo evento per rimanere così saldamente al centro della memoria collettiva, dei dibattiti degli storici e dell’insegnamento scolastico della storia del Novecento?
Non ho minimamente intenzione di sollevare il problema, già tante volte dibattuto dagli storici, dell’unicità o della specificità della Shoah, che certamente costituisce un genocidio emblematico e particolare. Numerosi studiosi sono giunti alla conclusione che la differenza tra questo genocidio e gli altri consiste principalmente nella radicalità del progetto di sterminio, cioè nell’intenzione politica di uno Stato di riuscire ad uccidere tutti gli ebrei. Gli ebrei sono i nemici da annientare, devono pagare la colpa di essere nati ebrei, dunque vanno uccisi senza una ragione pratica o una giustificazione materiale (occuparne le terre, cacciarli via, depredarli dei beni), “semplicemente” per cancellarne ogni presenza sulla terra.
La modalità stessa che venne ideata per la messa a morte di massa (le camere a gas, la distruzione totale dei corpi mediante il fuoco, la dispersione delle ceneri, la cancellazione di ogni traccia dell’esistenza delle vittime) ha in sé questo intento di annientare non solo la vita, ma anche la memoria di queste persone. Detto questo, sebbene sia evidente che ogni evento storico, ogni genocidio in particolare, rappresenti un unicum, un qualcosa di specifico e di particolare, nel senso che ogni tragedia umana seppur simile, è anche diversa al tempo stesso, la Shoah va considerata come un evento singolare al quale dedicare una riflessione importante, senza tuttavia farne un dogma o evitare la comparazione storica con altre tragedie umane.
Quello che mi interessa, in questo contesto, è invitarvi a riflettere su quello che a me pare l’elemento chiave dell’importanza di tramandare alle giovani generazioni la memoria della Shoah: l’insegnamento che oggi possiamo trarne.
Troppo spesso, il fenomeno dello sterminio degli ebrei viene affrontato in maniera superficiale da molti manuali scolastici, per non parlare di tante rappresentazioni cinematografiche che si limitano a farne o la storia consolante dell’eroe buono e coraggioso che emerge con la sua bontà in mezzo ad un mare di carnefici (anche per questo la fama di Schinder’s List o de Il pianista paiono insuperabili rispetto ad altri modelli cinematografici), oppure una carrellata di morti e di morte, in cui la storia diventa una massa di vittime, di poveri corpi senza nome, di numeri e di cifre, in un’overdose di orrore che toglie respiro e margine alla riflessione (ne sono un esempio i filmati girati dagli Alleati alla liberazione dei campi).
Tutto questo può contribuire a creare una visione manichea dei fatti, come se un evento così complesso come la Shoah fosse riconducibile alla storia di un piccolo gruppo di criminali -feroci assassini, sadici e instabili di mente, - e di una moltitudine di povere vittime inermi, disprezzate da tutti e vissute da sempre ai margini della società.La Shoah, in questa prospettiva, non può insegnare nulla ai nostri ragazzi.
Nessuno di loro, ovviamente, potrebbe seriamente affermare di identificarsi in un Eichmann o in un kapò, ma temo che sia altrettanto difficile per un ragazzo italiano di oggi identificarsi nell’immagine comunemente stereotipata del povero ebreo dell’est, che vive nel suo shetl, rigidamente ancorato alle sue tradizioni millenarie. E’ bene ricordarsi e ricordare ai nostri giovani che i nazisti non sono affatto venuti da Marte e i carnefici degli ebrei hanno avuto anche il volto rassicurante del vicino di casa o dell’amico di famiglia.
Per questo allora vale la pena insistere sull’aspetto normale del male; ne scrisse già Hannah Arendt nel celebre saggio La banalità del male, riferendosi a Adolf Eichmann, responsabile della deportazione degli ebrei verso i centri di sterminio, in occasione del processo tenutosi in Israele del 1961, che vide la sua condanna a morte. Eichmann era l’esempio per la Arendt, non del criminale assassino che potremmo immaginarci come feroce escutore materiale dell’assassinio, ma di una figura solo apparentemente molto più innocua, quella, cioè, del funzionario di stato, dell’impiegato grigio e banale, non particolarmente intelligente, non particolarmente cattivo, non più antisemita di altri. Proprio con la sua efficienza nel portare a termine il compito amministrativo affidatogli dai suoi superiori (deportare gli ebrei), senza porsi alcun dilemma d’ordine morale sulla finalità del suo stesso compito, Eichmann rappresenta il male comune della Shoah.
Inoltre dobbiamo sottolineare la dimensione umana della Shoah, il fatto che si tratta di un evento che ha coinvolto non categorie di persone, vittime e carnefici, ma individui con un nome e un volto, uomini e donne comuni, esseri umani non diversi dagli esseri umani di ieri o di oggi.
Di fronte ad un’umanità ancora segnata da tanti episodi di razzismo, antisemitismo, discriminazione, violenza, genocidio e pulizia etnica, noi portiamo la responsabilità di fare qualcosa, non tanto per evitare l’insorgenza del male, ma per combatterlo. Il male esiste, purtroppo, come componente dell’essere umano.
Dio, per i credenti, ci ha creati capaci di compiere sia il bene che il male, ci ha dato, cioè, la libertà di scegliere, la coscienza critica per decidere. Proprio per questo noi siamo chiamati ad assumerci la responsabilità di come vogliamo costruire il nostro futuro, quali valori vogliamo difendere, come vogliamo educare i nostri figli.
L’impegno, dunque, a non dimenticare quanto accaduto negli anni del nazismo e del fascismo, non è solo un impegno morale per tenere viva la memoria di coloro che hanno subito questa immensa tragedia che è stata la Shoah, ma deve essere anche un impegno concreto nel riflettere su quali insegnamenti trarre da questa storia per costruire un presente ed un futuro migliore.
Non mi stancherò mai di ripetere che a mio avviso la memoria non deve essere solo un esercizio per tener vivo il ricordo, un’operazione di archeologia, ma dovrebbe invece divenire un lavoro educativo e formativo. Una risposta quindi alla domanda che ho posto inizialmente, “Perché parlare e studiare ancora e sempre la storia dello sterminio degli ebrei?”, può essere la seguente: studiando e conoscendo la Shoah possiamo imparare qualcosa di utile, di profondamente significativo per la formazione della nostra coscienza critica, qualcosa che può aiutarci a essere persone migliori nella vita quotidiana, cittadini maggiormente responsabile e consapevoli di quelli che sono i diritti e i doveri di tutti.
Insegnare la Shoah è dunque importante, ma il tempo dell’insegnamento non può corrispondere al tempo della commemorazione che è necessariamente un tempo breve (il 27 gennaio per esempio). L’insegnamento ha un tempo più lungo, deve esplicitare un senso, non solo ricordare fatti passati. Insegnare la storia della Shoah significa esporre certo fatti, date, luoghi e persone, ma significa anche trasmettere un senso collegando questi fatti tra loro. La storia ha bisogno dell’ermeneutica, cioè dell’interpretazione dei fatti, altrimenti diventa solo cronaca, elencazione.
Se la storia è la narrazione dell’esperienza umana, studiando a fondo la storia forse potremmo imparare a conoscere meglio il comportamento umano, dunque anche imparare di più su noi stessi.
La Shoah, come educatore, come insegnante, mi permette di interrogarmi, di interrogare i miei studenti sulle grandi questioni che l’argomento solleva, anche in maniera polemica.
- Come è stato umanamente possibile che uomini e donne comuni, padri e madri amorevoli, mariti e mogli affettuosi nella vita di tutti i giorni, abbiano potuto trasformarsi in carnefici e partecipare allo sterminio di esseri umani innocenti?
- Perché nell’Europa nazista la maggior parte della popolazione è rimasta spettatore silenzioso e inattivo di fronte alle persecuzioni contro gli ebrei?
- Perché il mondo, gli alleati, la Chiesa, gli intellettuali, le comunità ebraiche, non hanno fatto di più per salvare gli ebrei dallo sterminio?
Se partiamo dal presupposto che la Shoah sia inspiegabile, un mistero per la mente umana che non può concepire tanto orrore, rischiamo di bloccare la capacità di formulare le domande. L’importante non è arrivare ad una spiegazione esaustiva (molto probabilmente impossibile per Auschwitz), ma è sapersi interrogare a fondo. Se affrontiamo queste domande senza paura, pur nella consapevolezza di non riuscire a trovare un’unica risposta soddisfacente, dovremo chiederci come la gente di quel periodo, gli uomini e le donne che hanno vissuto la Shoah, hanno interrogato la propria coscienza, hanno potuto compiere delle scelte libere e responsabili.
Era possibile opporsi alla dittatura? Era possibile scegliere di non rimanere passivamente a guardare? Era possibile riuscire a salvarsi dalla deportazione? Certo, non sarebbe corretto chiederci oggi che cosa avremmo fatto noi allora, magari al posto di un cittadino tedesco, o italiano o polacco. Non possiamo chiedere ad un ragazzo di oggi che cosa avrebbe scelto, perché sarebbe semplificare, falsare le circostanze. Noi non viviamo in quell’epoca e non possiamo metterci nei panni di altre persone il cui comportamento fu dettato non solo dalla coscienza ma anche dalle circostanze.
La Shoah è stata una storia molto complessa, in cui il confine tra il carnefice e lo spettatore spesso fu molto labile e non possiamo capirla se non ci sforziamo di ricostruire un periodo fatto di indottrinamento ideologico attraverso la propaganda, di fanatismo politico, di conformismo all’autorità, di tacita obbedienza per paura, opportunismo, indifferenza, di adeguamento ai comportamenti di massa, ecc.
Ricostruire la storia dello sterminio degli ebrei può fornirci un contesto per esplorare i pericoli del rimanere oggi silenziosi e indifferenti di fronte alle nuove forme di prevaricazione, discriminazione, razzismo. Insisterei, dunque, sull’importanza, anzi sull’urgenza, sull’esigenza inderogabile per chi è educatore, di fare della Shoah non solo una o due lezioni di storia, una o due giornate in cui la Giornata della Memoria si riduce solo nella proiezione del film Schindler’s List o Il Pianista, oppure nella lettura di qualche pagina del gettonatissimo Primo Levi, di cui quasi mai, purtroppo, si legge per intero I sommersi e i salvati.
La lezione sulla Shoah, anche se fatta con la commozione e con l’empatia del docente, non può essere una lezione uguale a tutte le altre, perché non è solamente un argomento di storia, sullo stesso piano delle guerre puniche o le crociate, la scoperta dell’America o il Risorgimento italiano. La riflessione sulla Shoah deve invece essere un momento di un percorso educativo più ampio che includa il dibattito sui diritti umani, sulla coscienza civile, sulla responsabilità del singolo nelle società di massa, sui valori inalienabili dell’uomo e universali, ieri come oggi, in Italia come nel Darfur o in Cecenia.
Mi addentro ora in un aspetto delicato sull’insegnamento della Shoah, con una certa polemica, allo scopo di stimolare magari al termine di questa sessione un dibattito comune. Per il lavoro che svolgo dal 1990 come Responsabile dei Progetti di Educazione alla Memoria per il Comune di Rimini ho maturato l’opinione che molti insegnanti sembrano esitare ad affrontare personalmente in classe questo tema. Se possono, spesso preferiscono delegarlo ad altre figure esterne al mondo della scuola,magari il rappresentante dei reduci o dei partigiani, l’esperto dell’Istituto Storico della Resistenza oppure il sopravvissuto.
Questa titubanza nello sfruttare pienamente tutte le potenzialità educative che l’argomento Shoah offre a un docente, non credo dipenda solo dalle ben note e condivise difficoltà di insegnare oggi la storia, con moduli sempre più ridotti e soprattutto a delle generazioni abituate a formare la propria conoscenza sulle immagini, invece che sui documenti, con una capacità di concentrazione limitata e con un senso del tempo, inteso come fattore storico, estremamente ridotto.
Forse una ragione risiede nel essersi, purtroppo, diffusa nella pratica educativa quotidiana una concezione della scuola come luogo di trasmissione/apprendimento di conoscenze e di abilità, mentre si è progressivamente abbandonato l’obiettivo educativo, la formazione morale degli individui. Magari solo al docente di religione rimane questo compito che, invece, dovrebbe rientrare pienamente nel mondo della scuola, per non parlare in quello della famiglia. In antitesi con la scuola fascista, in cui l’istruzione era sinonimo di indottrinamento e di livellamento, oggi che fortunatamente viviamo in uno stato democratico viene promosso e difeso il concetto di scuola laica, attenta alle diversità di tutti gli alunni, inoltre si è diffusa l’idea che tutta la cultura e il sapere siano all’insegna del relativismo e dell’individualismo. Ma promuovere una scuola laica, aperta e relativista nei saperi non significa stare su di un piano di neutralità etica, come dire, per non difendere valori e ideali di alcuni a scapito di altri, non ne promuovo nessuno.
La moralità, la formazione della coscienza civile e critica non sono affatto una faccenda privata in cui ognuno si forma da sé, quando suona la campanella del termine delle lezioni. Dobbiamo tornare a insegnare senza rinunciare a promuovere quelli che sono i valori universali. Gli ideali di pace, solidarietà, responsabilità, libertà non si trasmettono da soli e non si acquisiscono per diritto di nascita, vanno fortificati, radicati, condivisi, anche e soprattutto nella diversità.
Anche l’idea stessa di memoria storica, di memoria collettiva di un popolo, di un paese, di una civiltà come è appunto la memoria di Auschwitz e della Shoah non può essere insegnata per imperativi, per dogmi, per prediche, ma va spiegata, dibattuta, condivisa, accettando anche le provocazioni e le critiche dei ragazzi di oggi che si stancano presto di tutto, si annoiano, sono assuefatti alla violenza, disabituati al sacrificio, alla privazione, alla fatica. Di generazione in generazione la memoria storica non si trasmette affatto intatta, ma subisce delle modifiche, delle sovrapposizioni, i ricordi sfumano, si sovrappongono, si inseriscono in una sorta di gerarchia fra le memorie. Quello che per me è importante ricordare a 15 anni non è lo stesso di quando sono adulto. Come si fa a dire, nelle commemorazioni del 27 gennaio, che i nostri giovani non devono mai dimenticare quello che è stata la Shoah? Quali strumenti hanno per conoscerla e soprattutto per farne parte della propria memoria, qualcosa che non è solo materia scolastica, ma che li riguarda profondamente come esseri umani. Come faccio a insegnare, a capire che la memoria della Shoah non è lontana da me anni luce anche se oggi vivo in un mondo che mi pare tutto sommato tranquillo rispetto alla Germania nazista o all’Italia fascista? Chi è il testimone che mi racconta del lager, Shlomo Venezia che narra le sue terribili vicende nelle camere a gas di Birkenau?
Al di là di commuovermi o di indignarmi, cosa ha a che fare con me, con la mia vita la storia di Shlomo e degli altri sopravvissuti della Shoah?
A tal proposito vorrei citare alcune parole che mi paiono estremamente attuali e profonde di Primo Levi, in occasione di un’intervista realizzata nel settembre 1986 per la televisione tedesca: Mi sono accorto che i miei due libri, soprattutto Se questo è un uomo, viene ancora letto; e viene molto letto in Italia perché esiste in edizione scolastica annotata. E’ un libro di testo insomma. In Italia c’è una norma per cui in terza media si legge un autore italiano moderno. Devo dire che ogni anno dieciquindicimila copie vengono vendute nelle classi, e io vengo invitato sovente a commentare questo libro. E noto spesso anche nelle lettere che ricevo – e ne ricevo molte commozione, anche partecipazione, ma come se si trattasse di un evento che non ci riguarda più, che non appartiene all’Europa, non al nostro secolo; i fatti, che so io, della guerra di indipendenza americana. (tratto da Insegnare Auschwitz, atti del convegno omonimo, IRRSAE Piemonte, Bollati Boringhieri, 1995).
Io credo profondamente che oggi sia importante continuare a studiare la Shoah per trarne insegnamenti etici, importanti per vivere meglio la nostra quotidianeità, tuttavia non sono così ingenua da pensare che l’insegnamento debba coincidere con la predica morale. La Shoah non rappresenta, certo, da sola, una via preferenziale per assicurarci una generazione di giovani tutti più buoni e più solidali con chi soffre e patisce un’ingiustizia. Sarebbe come dire che chi studia bene lo sterminio degli ebrei e capisce il crimine commesso, si vaccina contro il male, contro ogni tentazione di commettere un’ingiustizia, una prevaricazione.
In sostanza, il considerare lo storia come magistra vitae, traendone degli insegnamenti importanti per il presente, può certamente presentare il rischio di fornire delle semplificazioni eccessive della Shoah e di non prendere in considerazione il contesto storico e geografico preciso in cui sono state prese determinate decisioni. Se è vero che la Shoah ci permette di dare ai giovani, ma più in generale a tutti, una straordinaria lezione morale, aiutandoci a promuovere una società più aperta e tollerante, come avviene questo miracolo educativo? Ricordare Auschwitz perché non accada mai più! E’ una bella frase, che generalmente suscita un movimento di empatìa, un applauso convinto per l’oratore che la pronuncia pubblicamente nelle commemorazioni, ma a mio parere rischia di rimanere solo una bella frase di buonismo, che non incide veramente sulla nostra coscienza.
Io credo che se l’insegnamento della storia dello sterminio deve significare solo una predica morale sul confine tra il bene e il male, da impartire ai nostri giovani, corriamo il rischio di uscire completamente dal campo della storia vera e propria che non è metafora, ma fatti, date, protagonisti, luoghi precisi. Auschwitz, prima che un simbolo del male, è un luogo geografico, è il nome di un campo di sterminio, è una storia puntuale e precisa che va raccontata.
Lo studio e l’insegnamento della Shoah richiedono, oltre ai buoni propositi dell’insegnante stesso che ne riconosce il valore profondo, anche (e soprattutto!) il rigore e la precisione dello storico, così come dovrebbe essere per qualunque altro evento. Dovremo, quindi, fare attenzione alle definizioni, ai termini, ai passaggi cronologici che hanno contrassegnato il progetto di messa a morte degli ebrei durante il nazismo. Se vogliamo tentare di rispondere alla domanda come è potuta accadere la Shoah? dobbiamo per forza studiarla con metodo e rigore, evitando di farne un simbolo assoluto del male, da cui trarre meramente una lezione di morale. Quante volte nella lezione sulla Shoah, nella commemorazione dello sterminio degli ebrei Dachau diventa sinonimo di Auschwitz e i deportati nel nostro immaginario sono tutti uguali identici nel destino e nelle condizioni della persecuzione subita?
Per i ragazzi, abituati a conoscere per immagini, i deportati hanno tutti la divisa a strisce e il tatuaggio sul braccio, conoscono la stessa dura sorte ovunque. Ma distinguere non significa discriminare, semplicemente a ogni categoria di vittime va riconosciuta una dignità di storia personale e diversa (ad esempio gli omosessuali tedeschi e austriaci sono stati trattati molto duramente nei lager rispetto ad altri prigionieri come i politici o i criminali comuni, tanto che moltissimi di loro morirono per le crudeltà inflitte o vennero uccisi negli esperimenti. E’ una parte di storia della deportazione e del nazismo assolutamente da non tacere, ma non possiamo sostenere l’analogia tra il destino degli omosessuali e quello degli ebrei, perché essi non vennero mai coinvolti nel progetto di sterminio e non vennero perseguitati al di fuori del Reich come invece accadde per tutti gli ebrei. Non possiamo assolutamente parlare di genocidio degli omosessuali).
Come suggerisce lo storico Francesco Maria Feltri in molti suoi scritti, è consigliabile applicare tre semplici regole quando trattiamo un argomento storico:
1) rigore terminologico: di che cosa sto parlando o mi si sta parlando? E’ un campo di concentramento o un campo di sterminio? Si parla di prigionieri politici o di ebrei?
2) rigore cronologico : la storia dei campi nazisti attraversa tre lunghi periodi, ben distinti, con profonde trasformazioni. Non è la stessa cosa parlare di Dachau nel 1933, di Mauthausen nel 1938, di Treblinka nel 1942. La storia dei lager cambia profondamente, la storia stessa di un solo campo cambia nel tempo, un lager può avere inizialmente uno scopo poi averne altri diversi Ovviamente non è importante per voi imparare a memoria tutte le date, non siete e non siamo dei computer e la storia non è certo un elenco di date. Tuttavia cercheremo di ricordare quelle date che corrispondono a grandi eventi o grandi significati.
3) rigore concettuale: non buttiamo lì le parole tanto per dire. Se uso un termine invece di un altro, ad esempio deportazione politica, non posso poi infilarci per forza la storia dell’antisemitismo e delle persecuzioni degli ebrei. Anche i dettagli sono estremamente significativi per tentare di comprendere come è accaduta la Shoah. Per dettaglio non intendo il particolare macabro, l’esibizione delle montagne di cadaveri nei lager, l’episodio di tortura, l’esperimento medico, il sadismo dei kapò.
Come educatrice mi rifiuto di utilizzare queste immagini tremende per scuotere le coscienze dei miei studenti, che d’altronde sono liberi di reperirle su qualunque testo o sito internet.
Per dettaglio intendo invece il susseguirsi frenetico dei fatti della Shoah che sembrano talvolta fatti irrilevanti o di minore importanza rispetto all'evento finale che fu lo sterminio, ma che invece hanno un significato estremamente profondo.
Quando un ragazzo o una ragazza, ad esempio, ma anche gran parte dell’opinione comune, pongono il problema della passività delle vittime, cioè sollevano il tema degli ebrei che si sono lasciati deportare senza porre resistenza alcuna, come pecore al macello, ebbene per confutare questa tesi che proviene, molto spesso, solo dall’ignoranza dei fatti, occorre incoraggiare gli studenti a studiare meglio la storia della Shoah.
Insistere con loro maggiormente sulla cronologia, sulla ravvicinanza delle date cruciali. Io dico sempre ai miei studenti nei seminari e nei laboratori che facciamo insieme ogni anno: non vi dirò molte date da tenere a mente, ma le date che vi menzionerò siete tenuti a ricordarle, perché costituiscono dei paletti importanti nel nostro percorso di conoscenza. La Shoah è come un puzzle di cui ci manca forse sempre un pezzo o più pezzi per arrivare alla comprensione totale, ma siamo tutti tenuti, comunque, a cercare più pezzi possibili per cercare di arrivare ad una conoscenza il più possibile corretta degli eventi.
Dunque le date: va sottolineata la rapidità sconcertante con la quale venne realizzata la Shoah. Un esempio fra i tanti: tra il 16 e il 17 luglio 1942, con la grande retata del Vél d’Hivér, 13.152 ebrei vengono arrestati a Parigi, tra i quali 4.115 bambini per iniziativa della polizia francese. E’ la più grande retata di ebrei compiuta in Francia. Tutti vengono dapprima portati al Velodromo (da cui prese il nome la retata), primo centro di raccolta, per poi essere smistati in vari campi di transito francesi come Drancy, Beaune-la-Rolande o Phitiviers e dopo qualche giorno o settimane vengono deportati ad Auschwitz, dove quasi tutti vengono uccisi nelle camere a gas.
Il 22 luglio entra in funzione il centro di sterminio di Treblinka e lo stesso giorno incominciano le deportazioni degli ebrei polacchi dal ghetto di Varsavia verso Treblinka
Cosa significa mettere in risalto queste due date, due tra le tante date che hanno contrassegnato la Shoah ? Significa sottolineare che nella stessa settimana del luglio 1942 in Europa, in Francia come in Polonia, il regime nazista sta preparando la grande deportazione degli ebrei verso i centri di sterminio.
Perché è importante non tralasciare questi che io ho chiamato dettagli? Perché questo ci aiuta ad esempio a capire, a far capire ai nostri ragazzi che per i nazisti ed i loro collaboratori, agire in un lasso di tempo così breve significava impedire alle comunità ebraiche di prepararsi adeguatamente a resistere, a scappare, a tentare di salvarsi.
Forse non tutti sanno che la Shoah non venne realizzata nell’intero periodo in cui rimase in vigore il regime nazista, cioè dal 1933 al 1945. La maggior parte dei 6 milioni di ebrei uccisi venne distrutta in poco più di un anno, 18 mesi per l’esattezza, cioè dalla primavera 1942 all’autunno 1943, quando entrarono in funzione 4 centri di sterminio polacchi, Chelmno, Belzec, Treblinka, Sobibor.
Quando incominciarono a funzionare i grandi crematori di Auschwitz-Birkenau - le gigantesche camere a gas in cui fu costretto a lavorare anche Shlomo Venezia - gli ebrei polacchi, la più grande comunità ebraica al mondo in quegli anni, che contava circa 3,300.000 milioni di persone, ma anche gli ebrei russi (oltre 2 milioni), erano già stati uccisi o nei massacri a est con le fucilazioni di massa, o asfissiati col gas oppure morti di fame, malattie, torture varie nei ghetti. Reagire, non reagire, lasciarsi deportare senza fare nulla, gli ebrei pagano ancora oggi un’immagine superficiale e pregiudiziale che li bolla come vittime, perché generalmente si parla molto della Shoah senza studiarla a sufficienza.
Prendiamo ancora un altro esempio, il caso del ghetto di Varsavia dove vennero rinchiusi per meno di due anni, 20 mesi per l’esattezza, dai nazisti oltre 400.000 ebrei in uno spazio molto limitato. La media era di 13 persone per ogni stanza, ma non c’erano stanze sufficienti per ospitare tutti gli ebrei del ghetto, moltissimi erano costretti a rifugiarsi nelle scale e negli androni dei palazzi, tanti altri finivano per strada senza un riparo. Come si poteva vivere così, nel ghetto di Varsavia o in un altro ghetto? Senza cibo sufficiente, senza medicine o cure per i malati, per i neonati, per gli anziani, al freddo, senza igiene, appiccicati come bestie nelle gabbie, terrorizzati da esecuzioni condotte senza alcuna ragione, ogni giorno qualcuno moriva per le condizioni tremende del ghetto oppure perché un nazista aveva deciso di eliminarlo, non c’era più alcuna logica a quello che veniva fatto subire agli ebrei. Dopo pochissimo tempo, in queste condizioni di vita, la vita degli ebrei del ghetto non aveva più nulla di umano. Prima del luglio 1942 quando iniziarono le deportazioni dal ghetto di Varsavia verso Treblinka, oltre 80.000 persone erano già morte per sfinimento. E’ importante allora studiare anche la vita in condizioni estreme come nei ghetti, dove le persone non erano più esseri umani, ma erano costrette dalle circostanze a trasformarsi in esseri abbruttiti dalla fame e dalla sporcizia, spaventati a morte, sfiniti, sfiduciati, rassegnati a tutto. In queste condizioni non era davvero possibile mostrare la volontà di fuggire alle deportazioni. I nazisti, tra l’altro, non tentano la grande deportazione degli ebrei polacchi verso i centri di sterminio nel 1940, ma nel 1942, quando le comunità ebraiche sono tutte in gabbia, piegate nella forza di volontà, smembrate, incapaci di reagire. Per infrangere l’immagine stereotipata della passività totale degli ebrei, bisogna quindi studiare questi dettagli, evocare le condizioni di vita dei ghetti che imponevano agli ebrei un ridimensionamento totale dei bisogni primari, dei valori, dei rapporti umani. In questo contesto l’episodio dell’insurrezione del ghetto di Varsavia e la rivolta degli uomini del Sonderkommando di Birkenau assumono un valore straordinario, proprio perché sono due esempi di resistenza eroica in circostanze durissime. Non una storia solo di vittime, ma di persone
Un altro luogo comune da demolire quando si affronta un percorso educativo sulla Shoah è l’idea che per i non ebrei, quindi per la maggior parte dei nostri studenti e degli Italiani, la storia degli ebrei sia sempre stata (e sia tuttora) una storia di persecuzioni, in cui rischiano di sembrare vittime piangenti. Questa idea deriva naturalmente da come gli stessi manuali di storia li rappresentano: gli ebrei cacciati a più riprese, discriminati, condannati, ghettizzati, perseguitati, mai, invece, come parte dell’Europa, come coloro che hanno dato un grande contributo allo sviluppo, dell’arte, della musica, delle scienze, della letteratura, dell’economia. Dobbiamo renderci conto che noi tendiamo a vedere gli ebrei come se fossero un tutt’uno, un unico popolo, un’unica comunità, le immagini trasmesse alla televisione, i film di cassetta, certa fiction non ci aiutano a vedere gli ebrei come persone diversissime fra loro. Anzi, noi spesso tendiamo a vedere gli ebrei con gli occhi dei nazisti, cioè come eterne vittime. Diverse, troppo diverse fisicamente, per potersi integrare e non sappiamo che gli ebrei ortodossi con gli abiti neri, la barba lunga e i riccioloni non sono nemmeno il 20% degli ebrei che vivono in Israele e nel mondo.
Guardate Shlomo e ditemi se il suo volto ci fa pensare a un cattolico, a un ateo, a un ebreo o a un testimone di Geova. Sappiamo che è ebreo perché è lui che si presenta con questa identità, ma in mezzo ad altri cento uomini non potremmo di certo riconoscerlo come tale. E’ come se io cercassi di capire in mezzo a voi chi sono quelli battezzati, dunque cristiani e quelli che oltre a essere battezzati sono davvero cristiani praticanti. Sarebbe impossibile. Considerare gli ebrei sempre e solo come vittime, senza tentare di conoscerne la storia, induce alla formulazione di una domanda insidiosa che andrà invece tenuta nella dovuta considerazione: ma che cosa hanno mai fatto gli ebrei per attirarsi così tanto odio? Accettare che una domanda possa essere così formulata, significa accettare che possa esserci una spiegazione, una giustificazione alla loro persecuzione, il che è assolutamente sbagliato e inesatto. Perché proprio gli ebrei? Perché gli ebrei vittime della storia? Cominciamo allora a ribaltare la questione e a presentare la storia degli ebrei come la storia di esseri umani che, tra le varie componenti della propria identità (la nazionalità, la lingua, le usanze, la professione, le idee politiche) hanno anche, ma non hanno solo, l’ebraismo che poi è una questione molto più complessa della semplice religione (moltissimi ebrei, per inciso, non sono praticanti). Non facciamo della storia degli ebrei la storia dell’antisemitismo e basta, ma facciamo della storia degli ebrei la storia della civiltà europea ad esempio. Chi erano gli ebrei prima dell’avvento del nazismo? Facciamo qualche esempio, troviamo storie diverse che possono appassionare dei ragazzi e delle ragazze di oggi. Se non sappiamo chi erano gli esseri umani uccisi nella Shoah, cosa facevano nella loro vita, come vivevano in Belgio o in Austria, in Polonia o in Italia, non possiamo renderci conto di che cosa abbia significato perdere 6 milioni di persone in Europa tra le comunità ebraiche. C’erano migliaia, ad esempio, di musicisti, sportivi, fisici, professori universitari, attori, giornalisti, scrittori, poeti, industriali, ricercatori, ecc. Anche il linguaggio, le parole che usiamo sono importanti e devono essere usate con consapevolezza quando si parla di Shoah, soprattutto in questi tempi in cui assistiamo a vergognosi tentativi di ridimensionare, minimizzare questo evento, se non di negarlo esplicitamente da alcuni pseudo-storici che non sono altro che antisemiti mascherati da studiosi revisionisti.
Cito solo un paio di esempi per farvi notare come le parole non siano affatto tutte uguali. Tempo fa ho distribuito ai miei studenti alcune pagine da analizzare, tratte dall’enciclopedia pubblicata nel 2003 da La Repubblica a cura della Utet, forse la più grande casa editrice insieme alla Treccani di enciclopedie. La domanda posta ai ragazzi era se le parole in un’enciclopedia, in un dizionario sono tutte uguali. Alla pagina in cui si parla di Auschwitz, si legge testualmente: “Auschwitz, nome tedesco di Oswiecim, città della Polonia sud occidentale presso Cracovia, 37.000 abitanti (e questo è vero). La località è tristemente conosciuta come sede durante la seconda guerra mondiale, con il vicino villaggio di Brzezinka, in tedesco Birkenau, di due campi di sterminio per ebrei e deportati politici in cui morirono circa 4 milioni di persone”.
Ora in queste poche righe sono cumulati una serie di errori che non sono solo linguistici ma che coinvolgono, deformano profondamente il significato storico di Shoah. Intanto nel 2003 forse era lecito sapere che ad Auschwitz non morirono 4 milioni di persone; questo dato fu tirato fuori al processo di Norimberga quando la tragedia risultò gigantesca da essere ritenuta incommensurabil, non c’erano studi sufficienti sulle vittime,si avanzò dunque una cifra enorme. Ma dal 1945 al 2003 la storiografia ha pubblicato tantissime ricerche e sebbene il numero esatto delle vittime non si possa tuttora conoscere (perché non ci sono corpi da identificare e moltissimi convogli di deportati ebrei vennero inviati alle camere a gas senza registrarli), chiunque consulti un’enciclopedia qualsiasi un po’ più seria di questa, imparerà che la cifra presumibilmente attendibile per Auschwitz sta tra 1.100.000 e un 1.300.000 vittime. Insomma una differenza enorme e non c’è bisogno di gonfiare le cifre per aumentare l’orrore della tragedia della Shoah.
Secondo errore in queste poche righe: non erano due ma tre i campi di Auschwitz. Dov’era internato Primo Levi se non al campo della Buna, a Monowitz, cioè Auschwitz III ?
Terzo errore si parla di due campi di sterminio, errore concettuale e terminologico insieme perché solo Auschwitz II, cioè Birkenau era un centro di sterminio, mentre Auschwitz I era un campo di concentramento.
Le parole non sono, affato, tutte uguali, purtroppo nemmeno in strumenti come le enciclopedie. Di fatti, sempre in questa enciclopedia alla lettera “A”, si dedicano a ARMANI Giorgio, celebre stilista di moda, ben 22 righe, mentre AUSCHWITZ ha diritto solo a 9 righe. Ognuno tragga da questo paragone numerico in termini di righe le conclusioni che vuole.
Dobbiamo anche fare attenzione a non usare il linguaggio nazista se non quando vogliamo dichiaratamente citarlo come fonte dell’epoca. Usare il termine di Soluzione Finale come sinonimo di Shoah non va bene, perché provoca uno slittamento semantico in chi ascolta. Si dice soluzione quando ci si riferisce ad un problema. Gli ebrei devono forse essere percepiti come un problema? In qunto ebrei sono forse più pericolosi rispetto ai cattolici, ai luterani, ai testimoni di Geova? Certo, occorre vigilare che spesso oggi avvertiamo frasi e commenti che usano espressioni negative nei confronti degli ebrei, soprattutto riferiti all’incessante conflitto medio-orientale tra arabi e israeliani, in cui la politica del governo israeliano diventa un pretesto per esprimere idee antisemite, che promuovono l’idea che gli ebrei, ovunque si trovino, causino problemi, si attirino odio e antipatia, pretendano di comandare.
E’ evidente che la lingua è indissolubilmente legata alla società che la parla, della quale riflette i mutamenti storici, politici, intellettuali. Oggi il linguaggio usato per discutere della politica israeliana tende a svuotare Auschwitz del suo significato storico. Una legittima critica alla politica israeliana può spesso trasformarsi in un’accusa a tutti gli israeliani e in un’identificazione fuorviante e pericolosa che vede in ogni ebreo del mondo l’incarnazione di un soldato israeliano. Dobbiamo riflettere e far riflettere i nostri giovani sul duplice linguaggio utilizzato dai nazisti. Da un lato, il regime fa uso di un linguaggio violento, volgare, aggressivo per insultare il nemico e in particolare gli ebrei, denigrandoli, abbassandoli al livello di scarafaggi, batteri, virus, pidocchi, con tutta una terminologia di verbi come caricare/scaricare, eliminare, annullare, smaltire, ripulire, liquidare, sterminare, normalmente applicati agli insetti o agli oggetti. D’altro canto, con gli interlocutori esterni o per nascondere il crimine commesso, il nazismo usa un linguaggio soft, che camuffa la realtà dietro l’apparenza fredda del linguaggio burocratico o circonlocuzioni innocue, è un linguaggio che allude, ma non dice chiaramente, come ad esempio la gassazione diventa “trattamento speciale”, la deportazione verso i centri di sterminio “evacuazione”, l’uccisione dei disabili e degli infermi “morte misericordiosa”, il massacro di massa, “operazione”ecc. Hitler e il suo Ministro della Propaganda Goebbels furono estremamente consapevoli dei vantaggi offerti loro dalla manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa e tramite la propaganda, ma anche mediante l’istruzione scolastica, imposero la nuova terminologia della Germania, ove le parole chiave erano Volk, Blut, Arbeit, Krieg, Aktion, Rasse, usate per formare un numero incredibile di parole composte. Il nazismo usava un linguaggio costituito per lo più da slogan, esortazioni, ordini, minacce. Per ritornare al termine di Endlösung, Soluzione finale, va detto che gli storici sono tutti concordi nell’evitare questa definizione per chiamare lo sterminio, in quanto trattasi di un termine falso, che nasconde il vero progetto di sterminio che c’era dietro quelle due parole. E’ accettabile solo qualora risulti virgolettata come chiara fonte nazista. Tra l’altro proprio utilizzando questa definizione, alcuni negazionisti sostengono la falsità della Shoah. La loro tesi, cioè, è che appunto trattandosi, secondo il linguaggio nazista di “soluzione”, non esisteva alcun progetto di uccidere gli ebrei, ma di risolvere quella che era la questione ebraica provocando una massiccia emigrazione verso est, al di fuori dell’area dominata dal Reich tedesco. Oggi siamo confrontati a nuove forme di antisemitismo che lasciano trapelare in maniera più o meno violenta un odio per gli ebrei estremamente pericoloso. Una forma molto pericolosa di antisemitismo, da combattere soprattutto nel campo dell’educazione e della conoscenza,è il negazionismo. Gli autori che si proclamano “revisionisti” pretendono negare, col pretesto della legittimità della critica storica, la politica nazista di sterminio degli ebrei. I negazionisti fanno leva sulla mancanza di un documento scritto che ordini esplicitamente lo sterminio e sul fatto che oggi non ci sono tracce visibili che attestino i 6 milioni di morti. La negazione delle camere a gas, in questo contesto, è solo un elemento strumentale per demolire l’intero progetto criminale di sterminio.
E’ importante conoscere il metodo negazionista per poter respingere ogni accusa infamante alla realtà della Shoah: i negazionisti non sono storici, non usano i metodi della ricerca storica che ha come caposaldo l’incrocio tra le fonti e la comparazione dei fatti. I negazionisti si appigliano ad un dettaglio di cui non risulterebbe certa l’esistenza, per demolire l’intera storia. Un punto critico della Shoah, a tale proposito, è che sebbene questa vicenda sia un evento fra i più studiati e dibattuti al mondo, un argomento che ha prodotto una mole gigantesca di materiali, studi, ricerche, testimonianze, ricostruzioni, dunque è oggi molto conosciuto, è altrettanto vero che consultando le fonti storiche dell’epoca nazista, risulta che la Shoah fu anche un progetto tenuto segreto da Hitler. Noi siamo tenuti a combattere il negazionismo con la forza della ricerca storica e spronando la conoscenza della Shoah e incoraggiando la trasmissione della sua memoria. Quali strumenti abbiamo a disposizione per provare lo sterminio a chi lo mette in dubbio ?
Il metodo dello storico è quello di confrontare le varie fonti, le varie tracce rimaste e prove della Shoah ce ne sono sia da parte nazista che da parte ebraica. Citiamo ad esempio, le foto dell’Album di Auschwitz in cui i nazisti fotografarono nei dettagli l’arrivo di un intero convoglio di ebrei ungheresi a Birkenau, con la selezione, l’avvio alle camere a gas, in molte immagini si vedono chiaramente i crematori.
E’ vero che dalla fine del 1944 gli stessi nazisti diedero ordine di minare i crematori e di distruggere le tracce dei crimini commessi, oggi in effetti i crematori di Birkenau sono un ammasso di rovine. Se il negazionista mette in dubbio la testimonianza del sopravvissuto come Shlomo, magari perché lo considera un bugiardo o un mitomane, come possiamo confutare le sue aberrazioni?
E’ bene sapere che i nazisti non distrussero tutto. Lasciarono ad esempio tutti i disegni e le mappe nel settore delle costruzioni di Auschwitz, sono state ritrovate le mappe dei crematori con illustrato chiaramente il sistema di gassazione e di aerazione delle stanze. Uno storico come Jean Claude Pressac proprio studiando minuziosamente queste mappe chiarì che il sistema di aerazione e disaerazione delle camere a gas non lasciava dubbi sull’intento criminale di uccidere. I carnefici dunque lasciarono alcune tracce dei crimini commessi, poiché ci sono pervenuti ad esempio i memoriali dei comandanti come Rudolf Höss e di Franz Stangl, sebbene scritti quando erano in prigione e dunque probabilmente manipolati nel tentativo di giustificarsi. Sul progetto di realizzare uno sterminio totale di tutti gli ebrei abbiamo una copia del Protocollo della Conferenza di Wannsee del gennaio 1942 in cui si conteggiano per ogni paese europeo gli ebrei da uccidere. Sullo sterminio degli ebrei poi ci sono i resoconti degli uomini delle Einsatzgruppen che conteggiano esattamente le vittime uccise. Un esempio è quello ritrovato che fu redatto il 1^ dicembre 1941 da Karl Jaeger, nel quale scrive che sotto il suo comando gli uomini dell’Einsatgruppe A uccisero 136.421 ebrei, 1.064 comunisti, 653 malati mentali, e 134 altre vittime. Le vittime sono anche divise esattamente per sesso maschile o femminile. Anche da parte delle vittime ci sono tante testimonianze che provano i massacri di massa. Intanto tutte le testimonianze dei sopravvissuti, sebbene diverse, logicamente, tra loro, perché ognuno ha raccontato la propria esperienza in base al suo piccolo angolo visuale, esse non si contraddicono mai sui punti fondamentali.
Ci sono le foto scattate segretamente da un uomo del Sonderkommando e poi fatte uscire segretamente da Birkenau e consegnate alla resistenza polacca, ove si vedono chiaramente delle donne nude correre dentro la camere a gas e montagne di cadaveri bruciati all’aperto. Nei ghetti molti ebrei scrissero diari, testimonianze segrete, anche a Birkenau gli uomini del Sonderkommando lasciarono scritti che nascosero sotto le ceneri. Sempre a Birkenau alcuni prigionieri tennero il conto del numero dei convogli arrivati e questo divenne poi utile per una stima del numero delle vittime.
In sintesi, le teorie negazioniste contro le quali siamo chiamati a rispondere con il nostro lavoro, con la nostra testimonianza, non sono solo volgari falsificazioni della storia, ma devono essere considerate anche una conseguenza diretta del silenzio sotto il quale i nazisti occultarono lo sterminio. Dalla liberazione del campo di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, il modo di ricordare la Shoah è profondamente cambiato. Quando 62 anni fa l’esercito sovietico entrò nel lager di Auschwitz, in Polonia, trovò una situazione al di là di ogni immaginazione: qualche migliaia di prigionieri e prigioniere giacevano scheletriti e mezzi morti in mezzo a rovine e montagne di corpi in putrefazione. I nazisti avevano costretto tutti i prigionieri in grado di reggersi in piedi a lasciare il campo per raggiungere altri lager situati in luoghi più lontani dal confine col nemico. Le marce della morte, così ribattezzate dagli stessi sopravvissuti, costituirono l’ultima tappa del processo di sterminio perché secondo i nazisti nessun ebreo doveva rimanere vivo e tantomeno in mano nemica. Dopo la fine della guerra l’opinione pubblica venne a conoscenza degli orrori e dei crimini commessi. L’emozione, la pietà, l’indignazione furono fortissime, ma anche effimere. Subito dopo la guerra, Auschwitz commuoveva certo, ma non poteva essere al centro del dibattito intellettuale e politico. La Shoah era considerata come una parentesi orribile in mezzo alle vicende di guerra, una delle tante sofferenze patite dall’umanità. Nel dopoguerra il bisogno di tornare alla vita, di ricostruire l’economia dei paesi, di ritrovare una nuova speranza erano più forti dell’esigenza di ricordare quanto accaduto.
La liberazione era considerata positivamente ed eroicamente come la vincita della democrazia e della libertà sulla barbarie della dittatura nazifascista e il nuovo eroe del dopoguerra era il partigiano resistente, non l’ebreo, vittima passiva della deportazione. La Resistenza inglobava tutte le vittime in un unico universo umano e d’altro canto gli stessi sopravvissuti ebrei provavano il bisogno di reintegrarsi alla società, senza sentirsi diversi dagli altri. Il loro bisogno di raccontare si scontrava con l’indifferenza di una società ancora non pronta ad accogliere la memoria della deportazione.
Ci vorrà il processo Eichmann del 1961 a Gerusalemme a portare per la prima volta in prima pagina la Shoah con i suoi sopravvissuti per dare inizio ad una nuova epoca. Ma è solo dalla fine degli anni Ottanta che lo sterminio degli ebrei è diventato davvero un argomento centrale nella storia del Novecento. Si avverte oggi una certa stanchezza non solo da parte dei più giovani, ma in generale, a sentire parlare sempre di Shoah. E’ evidente che oggi se ne parla tanto, talvolta troppo se si pensa alla settimana intorno al 27 gennaio in cui assistiamo ad un’overdose di immagini e di storie. Ma il problema non è parlare tanto o troppo, è il come si parla spesso oggi in pubblico della Shoah. Si usa un tono lacrimevole e patetico che fa certo leva sulla commozione, ma che poi provoca un’impercettibile sensazione di fastidio ed un insopprimibile bisogno di rimozione da parte del pubblico. E’ come vedere certe immagini di bimbi africani morenti tra le braccia scheletriche di madri altrettanto affamate, un pugno nello stomaco, ma poi si cambia canale. Dopo lunghi anni di oblio, di silenzio, di commemorazione delle vittime della resistenza al nazifascismo, la Shoah ha visto progressivamente riconosciuta la propria specificità di tragedia diversa da una semplice parentesi tra i tanti fatti di guerra.
Dal 2001 il 27 gennaio è stato proclamato ufficialmente in Italia “Giorno della memoria” e questo accade oggi in moltissimi paesi d’Europa, in America, in Israele. Un altro pericolo è la banalizzazione, la relativizzazione del termine Shoah e degli altri termini legati alla storia dello sterminio degli ebrei, molto spesso usati per fare sensazione sui giornali, ma riferiti a fatti completamente diversi per portata o per natura. Propagandato dai media, il termine Olocausto è diventato per molti, negli anni Ottanta e Novanta, un’etichetta priva di significato. La cronaca è ricca di esempi in cui si registra un uso improprio del termine e privo di rispetto per la memoria storica (per esempio definire una clamorosa sconfitta sportiva di una squadra di calcio, “un olocausto”). Parallelamente si è registrato un ampliamento dell’area semantica del vocabolo genocidio, applicato sempre a tutti gli episodi di assassinio di più persone, anche quando non esiste la volontà politica, il progetto di distruzione di tutto un popolo o di una parte precisa di esso. La guerra nell’ex Iugoslavia è stata definita dai nostri principali quotidiani nazionali come una nuova “Soluzione finale”, anche allo scopo di suscitare emozione nel lettore. Non si tratta affatto di sminuire le tragedie umane, anzi, occorre denunciare con forza ogni violazione dei diritti umani, ma non possiamo banalmente sostenere che tutto sia uguale, perché allora le parole perdono il loro significato originario e si svuotano di valore. O ancora, troppo spesso preferiamo scegliere parole che non si schierano, che non stanno da una parte o dall’altra, parole piene di “distinguo”, che non servono altro che a mascherare le menzogne.
La distorsione delle parole, l’uso improprio della terminologia usata per la Shoah può anche arrivare alla negazione stessa dell’evento, quando le parole vengono usate come armi, per esempio quando si vuole evidenziare un parallelo tra i nazisti di ieri e gli israeliani di oggi nei confronti dei palestinesi. Anche il massacro di Sabra e Chatila - che scatenò polemiche in tutto il mondo per la brutalità dell’aggressione - ebbe diritto a titoli sensazionalistici come “una nuova soluzione finale”, mentre la politica israeliana veniva definita genocidaria. In questo caso, al di là della denuncia politica e della critica a un governo che è sempre uno strumento legittimo della libertà di pensiero, al di là della denuncia dell’uccisione dei civili, non possiamo non vedere un intento preciso politico di squalificare l’avversario etichettandolo con un linguaggio improprio. Porre gli israeliani e la loro politica sullo stesso livello della Shoah significa perseguire uno scopo preciso: livellare gli eventi, come dire, vedete, avete fatto esattamente la stessa cosa che fu fatta a voi, in questo modo la responsabilità così genericamente condivisa diventa la responsabilità di nessuno. Se le tragedie vengono relativizzate, le colpe si cancellano.
Shoah dunque come nome preciso di un evento preciso. Dare un nome che sia accettato e condiviso il più possibile significa poter chiamare un evento, dirlo per poterlo comunicare. Significa comprendere un evento e trasmetterne il significato. Siamo dunque attenti e responsabili al linguaggio che utilizziamo, non solo in storia, ma anche nella vita di tutti i giorni, perché ricordiamoci che le parole possono essere pietre, possono fare bene più di un regalo, male più di uno schiaffo.
E le parole devono anche essere lo strumento privilegiato di una società democratica che non rinuncia al proprio compito di educare, di trasmettere senso e valori. Una società che non rinuncia anche, quando occorre, a difendere con le parole, ogni vergognoso tentativo di rimuovere la Shoah, di farla cadere nella banalità o nell’oblìo. Quando anche l’ultimo sopravvissuto non ci sarà più, resteranno le parole dei testimoni a darci sicurezza, e resteranno le nostre parolea darci forza per continuare a dare un senso alla memoria, se solo saremo disposti a fare lo sforzo di cercarle.