Giornata della memoria 2005

ISTITUTO PIEMONTESE

PER LA STORIA DELLA RESISTENZA

E DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA

  “Sollevare dal buio del sottosuolo”

Poesia e Lager

Torino 25-26 gennaio 2005

In una lettera a Umberto Saba del 1949 Primo Levi scriveva tutta la sua ammirazione per il poeta triestino, di cui aveva appena letto le Scorciatoie e raccontini, ritrovandovi, scrive: “molto del mio mondo, non del Lager, voglio dire; meglio, non solo del Lager”. E sul finire della lettera aggiungeva: “Ma tutto questo mi ha toccato meno di quel suo coraggio, di quella sua avidità vigile… di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo, alla luce della consapevolezza”. Sollevare la memoria del Lager dal “ buio del sottosuolo” è il compito che si prefiggono non solo Saba e Levi, ma molti autori europei che nel secondo dopoguerra non si arrendono all’idea di non poter più scrivere poesie, Sempre Levi dirà in una famosa intervista che “dopo Auschwitz non si può fare poesia se non su Auschwitz”.

Questo convegno intende per la prima volta mettere a confronto diverse realtà e tradizioni letterarie - francesi, italiane, tedesche, israeliane -, stabilendo un legame che deriva dalla necessità della poesia nella società contemporanea:

     

PROGRAMMA

25/26 gennaio 2005

  Sala conferenze del Museo diffuso della Resistenza

Corso Valdocco 4/A - Torino

 25 gennaio 2005

9.30 - 13,00

 Saluti

Lido Riba, vice-presidente Consiglio Regionale del Piemonte

 Presiede Daniela Amsallem

 Aspetti della letteratura della deportazione

Pier Vincenzo Mengaldo, Università di Padova

 Chi ha subito lo tortura non può sentire più suo il mondo?

Sibylle Rothkegel, Freie Universitat Berlin

 Presiede Anna Bravo

 "inchiodata è lo mia lingua..." l'esperienza del Lager nella poesia tedesca

Sascha Feuchert, Justus-Liebig – Universitat Giessen

 Commemorare e dimenticare: la lirica di Paul Celan

Riccardo Morello, Università di Torino

 "Au nom du mort qui fut sans nom”: la poesia dei Lager in Francia

Daniela Amsallem – Università di Chambery

 Linee di tendenza della poesia in lingua ebraica nella rappresentazione della Shoah

Iris Milner, Hebrew Literature Department, Tel Aviv University

 Bruno Vasari, la poesia, la memoria, il lavoro

Alberto Cavaglioni, Istoreto, Torino

Presentazione del libro

B. Vasari, "La libertà allo stato nascente" a cura di R Berruti, Edizioni dell'Orso, 2005

 26 gennaio 2005

9.30 - .13.00

 Presiede Pier Vincenzo Mengaldo

 Vittorio Sereni prigionia e memoria

Claudio Sensi, Università di Torino

 "Morti scendono da alti carrozzoni.."

(Quasimodo, Saba e altri)

Marziano Guglielminetti, Università di Torino

 La poesia di Primo Levi: ricordo e/o poesia

Massimo Raffaeli, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona

 "Licenziato/arrestato/imprigionato/deportato"

La poesia dei deportati politici

Mariarosa Masoero, Università di Torino

 E' prevista la traduzione simultanea

 Ogni intervento sarà accompagnato dalla lettura di poesie, a cura degli studenti del DAMS di Torino

Nel corso del convegno verranno lette alcune poesie, che accompagneranno le singole relazioni.

Il convegno si apre con la lettura di alcuni brani dalle Scorciatoie e i raccontini di Umberto Saba e dalla lettera di:primo Levi a Saba del 1949, da cui è tratto il titolo del convegno stesso.

 Sempre nella mattinata di martedì, dopo le relazioni introduttive di Mengaldo e Rothkegel, avremo modo di ascoltare Amsterdam (Vittorio Sereni), Voi che sapete (Charlotte Delbo), Sprich auch .du- (Paul Celan), Il tramonto di Fossoli (Primo Levi), Chante (Itzhak Katzenelson), Storia del bimbo Abram (Natan Alterman), Ritorno (Manlio Magini).

Nel pomeriggio di martedì e nella mattinata di mercoledì 26 la lettura di poesie, concordate direttamente con i singoli relatori, accompagneranno lo svolgimento dei nostri lavori. Le letture seguiranno o accompagneranno, a seconda dei casi, le relazioni. Le poesie sono in distribuzione al pubblico, in fotocopia, all’ingresso della sala.

La traduzione dei testi è a cura di Daniela Amsallem

La traduzione della relazione di Iris Milner, dei testi poetici inglesi ed ebraici è a cura di Maria Teresa Milano e Sarah Kaminski, che desideriamo vivamente ringraziare.

In sala le poesie saranno lette da:

Paola Amerio, Marta Di Giulio, Barbara Forlai, studentesse del DAMS di Torino, cui va la nostra più viva gratitudine.

Un ringraziamento particolare al professor Enrico Mattioda dell'Università di Torino, per la preziosa collaborazione.

 

da Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba

ricordiamo che Majdaneck era un piccolo campo di concentramento, il primo di cui si pubblicarono le immagini di orrore in Italia.)

  LETTORE MIO, non t'inganni l'apparenza, a volte paradossale, a volte perfino scherzosa (?) di (alcune) SCORCIATOIE.  Nascono tutte da dieci e più esperienze di vita, d'arte e di dolore.

Sono, oltre il resto, reduci, in qualche modo, da Majdanek.

  QUELLI, e sono molti, che credono, oggi ancora, che le guerre scoppiano per motivi economici, fanno come che dicesse che i tedeschi hanno asfissiati sei milioni e mezzo di ebrei allo scopo di ,cavarne concime. Li hanno asfissiati per altri motivi (per qualche oscura reazione fisica, da birreria); una volta uccisi, ne hanno - e perché no?- sfruttati i cadaveri a vantaggio del (nuovo) popolo eletto.

Le guerre si combattono perché l'uomo è un animale aggressivo: il più aggressivo, forse, della creazione. Egli sente che, se non estraverte la propria aggressività, questa gli si volta contro; che, se non attacca gli altri, finisce, prima o poi, per attaccare se stesso. E questo lo farebbe soffrire di più che andare in guerra. Così (la via alla sublimazione essendo lunga, difficile, aperta a pochi) preferisce essere ucciso uccidendo, che uccidersi da sé, nel silenzio della propria stanza.

.            È l'origine "religiosa” (avrebbe detto meglio "istintiva") che il vecchio Moltke dava alla guerra. Cause economiche “coesistono"; sono in gran parte - oggi almeno - pretesti offerti  all'istinto di morte.

  “VOI TRIESTINI” mi diceva ieri Giacomo Debenedetti “siete veramente figli del vento. E’ per questo che amate tanto moralità e apologhi, favole o tavolette. E’ perché sei nato nella città della bora che scrivi SCORCIATOIE”.

            Quanto piacere mi avrebbe dato un giorno questa sua tavoletta! Che buon augurio ne avrei tratto per il mio amico e per me! Ma oggi … ma dopo Majdaneck

  Caro Saba,

  non creda che mi sia occorso tutto un mese per leggere Scorciatoie; l'ho letto invece con grande rapidità, mi è parso subito finito, e vi ho ritrovato molto del mio mondo. Non del Lager, voglio dire; meglio, non solo del Lager. Mi pare che si tratti press'a poco di questo, vi ho trovato tutti o quasi i temi nuovi che attendo no svolgimento, e i problemi nuovi che attendono soluzione; e che li attendono da noi, noi che ci siamo passati attraverso, corpo e anima, chi in un modo e chi in altro, e che ne siamo usciti mutati, estremamente differenziati, spesso nemici del mondo e di noi stessi, altre volte disgregati, o in aperta ribellione o evasione. C'è anche molto altro, lo so: il mestiere (nel senso buono!) che le invidio; e ricordi pacati del mondo di prima; e isole serene nel tumulto di oggi. Ma tutto questo mi ha toccato meno di quel Suo coraggio, di quella Sua avidità vigile... di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza ...

 

da una lettera di Primo Levi a Umberto Saba, 10 gennaio 1949 conservata presso il Fondo manoscritti dell’Università di Pavia

 

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Saint-Cloud, agosto 1944

  Gli strumenti umani

 

  Dall'Olanda

  Amsterdam

 

A portarmi fu il caso tra le nove

e le dieci d’una domenica mattina

svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra

lungo il semigelo d’un canale. E non

questa è la casa, ma soltanto

- mille volte già vista –

sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.

 

Disse più tardi il mio compagno: quella

di Anna Frank non dev’essere, non è

privilegiata memoria. Ce ne furono tanti

che crollarono per sola fame

senza il tempo di scriverlo.

Lei, è vero, lo scrisse.

Ma ogni volta a ogni ponte lungo il canale

continuavo a cercarla senza trovarla più

ritrovandola sempre.

Per questo è una e insondabile Amsterdam

nei suoi tre o quattro variabili elementi

che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi

tre quattro fradici o acerbi colori

che quanto è grande il suo spazio perpetua,

anima che si irraggia ferma e limpida

su migliaia di altri volti, germe

dovunque e germoglio di Anna Frank.

Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

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(Charlotte DELBO)

Voi che sapete

O voi che sapete

sapevate che la fame fa luccicare gli occhi

che la sete li offusca

O voi che sapete

sapevate che si può vedere sua madre morta

e restare senza lacrime

O voi che sapete

sapevate che al mattino si vuole morire

che alla sera si ha paura

O voi che sapete

sapevate che un giorno è più di un anno

un minuto più di una vita

O voi che sapete

sapevate che le gambe sono più vulnerabili degli occhi

i nervi più duri delle ossa

il cuore più solido dell’acciaio

sapevate che le pietre del camino non piangono

che c’è una sola parola per lo spavento

una sola parola per l’angoscia

sapevate che la sofferenza non ha limiti

l’orrore non ha frontiere

Lo sapevate

voi che sapete

(in: Charlotte Delbo, Aucun de nous ne reviendra, Paris, Les Éditions de Minuit, 1970)

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AD ORA INCERTA

 OSTJUDEN 1

Padri nostri di questa terra,

Mercanti di molteplice ingegno,

Savi arguti dalla molta. prole

Che Dio seminò per. il mondo

Come nei solchi Ulisse folle il sale:

Vi ho ritrovati per ogni dove,

Molti come la rena del ma1re,

Voi popolo di altera cervice,

Tenace povero seme umano.

 

7 febbraio 1946.

    1 Nella Germania nazionalsocialista, era questa la denominazione ufficiale degli ebrei polacchi e russi.

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IL TRAMONTO DI FOSSOLI 1

  Lo so cosa vuol dire non tornare.

A traverso il filo spinato

Ho visto il sole scendere e morire;

Ho sentito lacerarmi la carne

Le parole del vecchio poeta:

“Possono i soli cadere e tornare

A noi quando la breve luce è spenta,

Una notte infinita è da dormire”

 

7 febbraio 1946.

 

1 Cfr: Catulli Liber,5,4. A Fossoli, presso Carpi, era il campo di sosta e smistamento dei prigionieri destinati alla deportazione.

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Itzhak KATZEI

Vittel-A

CHANTE

  Chante ! Prends ta harpe vide et légère,

Sur ses cordes fines, abats tes doigts lourds

Comme des coeurs, endoloris ! Le chant, le chant dernier,

Sur les derniers Juifs,de la terre d'Europe, chante-le !

Comment chanterais-je quand la terre m’est déserte ?

Comment jouerais-je avec mes mains tordues ?

Où sont-ils mes morts ? De chaque flaque de purin, de chaque trou de pierre,

De chaque poussière et,de chaque flamme, de chaque fumée, criez-!

Voilà votre sang, votre suc, la moelle de vos os !

Voilà vos corps, vos vies, tirez-en un cri !

 

Des entrailles de la bête dans la, foret, du poisson dans la rivière,

De ]a chaux du foyer à chaux, petits et grands, criez !

Je,veux de vous un appel d'angoisse, un souffle de détresse, un son ! Je veux de vous

un son !

Crie, peuple exterminé des Juifs, crie !

 

O montre-toi à moi, mon peuple Apparais-moi !  Lance tes bras

Hors de tes tombeaux, de tes kilomètres de tombeaux approfondis élargis et remplis,

Couches sur couches arrosées de chaux et de flammes !

Dèhors ! Montez dehors ! De tout en dessous, de la couche du tréfonds, montez !

 

Venez ! de Treblinka, de Sobibor, d’Auschwitz, de Belzec !

Venez de Ponary ! De là-bas et de là, de partout,

Avec vos yeux arrachés, ave vos cris pétrifiés !

Des sables et des marais, des mousses en pourriture, montez !

 

Venez, mes desséchés, mes triturés, mes broyés ! En cercles,

Autour de moi, en longs rubans, en larges rondes, tournez !

Les grands-pères et les grands-mères, et les pères, et vous,

Les mères avec vos petits à vos seins, dans vos ventres, tournez !

Venez, mes Juifs d’ossements, mes Juifs de poussière, mes Juifs de poudre

à figer en savon !

 

Montrez-vous à moi ! Apparaissez-moi ! Tous, venez tous ! Venez !

Je veux vous voir tous, je veux arrondir mon regard muet !

Et maintenant, que je chante !

Ma harpe, donne !

Je joue, je joue, je chante !

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STORIA DEL BIMBO ABRAM

ADDORMENTATO SUI GRADINI DI CASA IN POLONIA,

ALLA FINE DELLA GUERRA,

TERRORIZZATO DI CORICARSI NEL LETTO

  di Natan Alterman

Città polacca,

luna alta,

e, da sempre, nuvole veleggianti. Al calar della sera,

il bimbo Abram si sdraia

sui gradoni di pietra della casa.

 

Si presenta la mamma al suo cospetto,

è vicina, i piedi non sfiorano il suolo

"Abram, fredda e umida è la notte.

Entra figlio mio, ti avvolga il lenzuolo"

 

Risponde Abram:

mammina,

non andrò a letto come gli altri bimbi

perché là ti ho vista

mammina,

dormivi, con un pugnale nel cuore.

 

Si presenta il padre al suo cospetto,

etereo e alto, lo rimbrotta a mano tesa.

“Abram, vieni a casa, presto!

Entra figlio mio, sii lesto!”

 

Risponde Abram:

padre mio

timore avrei di entrar nel mondo sognato

perché lì ti ho visto

padre mio,

immobile giacevi, con il capo mozzato.

 

Si presenta la sorella al suo cospetto

Piangendo lo invita ad entrare.

Risponde Abram: tu là riposi

ti riga il volto una lacrima mortale.

 

Si presentan le settanta nazioni al suo cospetto:

"Sulla nostra vita giuriamo!

Con settanta comandamenti e settanta mannaie

In questa casa ricondurti intendiamo.”

 

Nel letto acconcio ti deporremo

e lì, silente come tuo padre, riposerai!

 

Abram grida in sogno "papà!";

invoca la madre, e lei sussurra:

"figlio mio, grazie... se il pugnale non ci fosse stato,

il mio cuore si sarebbe spezzato."

 

Allora nella notte piombò il silenzio

e la luna si oscurò,

di fronte al bagliore delle lance bramose

fu. la parola di Dio ad Abram, ad Abram

assopito nell'ingresso;

 

"Non temere,

Non temere Abram,

ti renderò grande e numeroso.

Vattene nella notte del coltello e del sangue

verso la terra che io ti mostrerò.

 

Vattene nella notte del coltello e del sangue

come bestia, come verme, come uccello del cielo.

Benedirò chi ti benedice, Abramo,

ma sia maledetto chi ti maledice."

   

 … così è. Nelle. cronache, per questo capitolo

è “la questione dei profughi” a fare da titolo

Ma il problema è un altro,

intrepido impiegato,

e non strappa di certo fascicoli e pilo spinato !

 

La questione non conduce le navi nella profondità dei mari

A condurle è un tuono antico e imponente

A condurle è l’ordine al popolo di risorgere

A condurle è la parola di Dio ad Abram.

 

    - Sussultò Abramo e si prostrò,

lasciò alle spalle casa e cancello,

poiché l'ordine che aveva tuonato su Abram padre

Torna sul ragazzo Abram.

 

  Natan Alterman, 1910 -1970

Nasce a Varsavia e si trasferisce a Tel Aviv nel 1925. Parte per la Francia per studiare agronomia a Nancy, ma sceglie infine di trasferirsi nuovamente in Israee per dedicarsi al giornalismo, alla carriera di scrittore e alla poesia come mezzo di espressione totale e solenne. Si distingue per le traduzioni in ebraico di importanti opere (Shakespeare, Molière, Racine), per la composizione di pieces teatrali e letteratura per bambini. Nel 1931 inizia a pubblicare le sue poesie. Ben presto diventa la fervente voce del socialismo politico e culturale, capostipite della feconda corrente degli Imaginisti, che domina la poesia israeliana fino agli anni sessanta. Nel 1968 viene insignito del prestigioso Israel Prize per aver contribuito allo sviluppo della letteratura ebraica.

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MANLIO MAGINI

RITORNO

«Dapprima pensai, quasi disperando,

 ' ciò schiaccerà lo spirito mio, eppure

 lo sopportai e lo sopporto. Ma non

domandarmi come». Heine.

Perdona se così lentamente

cammino per tornare da te.

Lazzaro uscì dalla morte al comando

come dal sonno consueto:

per me risorgere dalla Gehenna

è stato più arduo.

Soverchiando la pietà e il ribrezzo

per la smisurata miserabilità

di tante esistenze decadute

che avevo intorno, vittime e carnefici,

sono sopravvissuto laggiù

nella dimensione ridotta

di un vivere larvale

che ricacciava e comprimeva

a un'insondabile profondità

ogni passato umano sentire.

Ora devo ritrovare l’uscita,

ora mi occorre tempo

per recuperare emozioni smarrite,

e portarmi a livelli compatibili

con quelli di chi amo e rispetto,

miei simili,

e soprattutto di te, Marisa.

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SPRICH AUCH DU

PARLA ANCHE TU

Parla anche tu,

parla per ultimo,

di' il tuo pensiero.

 

Parla – Ma non dividere

il sì dal no.

Dà anche senso al tuo pensiero:

daglio ombra

 

Dagli ombra che basti, tanta quanta tu sai

attorno a te divisa fra

mezzanotte e mezzodì e mezzanotte.

 

Guardati intorno:

vedi come in giro si rivive -

Per la morte ! Si rivive!

Dice il vero, chi parla do ombre.

 

Ma ora si stringe il luogo dove stai:

Adesso dove andrai, spogliato dell' ombre, dove?

Sali. A tasto innalzati.

Più sottile divieni, quasi altro, più fine!

Più fine: un filo, lungo il quale

vuole scendere, la stella:

per giù nuotare, giù, dove essa

si vede brillare: nel 'mareggiare

di errabonde parole.

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Luce coatta

 

TODTNAUBERG

 

  Arnica, eufrasia, il

Sorso dalla fonte con sopra

il dado stellato,

  nella

malga,

 

la riga nel libro

 - quali nomi accolse

prima del mio? -,

la riga, in quel libro

inscritta,

d'una speranza, oggi,

dentro il cuore,

per la parola

ventura

di un uomo di pensiero,

 

umidi prati silvestri, non spianati,

orchidee selvatiche, sparsamente,

 

più tardi, in viaggio, parole crude,

senza veli,

 

chi guida, l'uomo,

che anche lui ascolta,

 

percorsi a

mezzo, i viottoli

di tronchi sulla torbiera gonfia,

 

umidore,

forte.

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La rosa di nessuno

  ZURIGO, «ALLA CICOGNA»

Per Nelly Sachs

Parlammo del Troppo, del

Troppo-poco. Di Tu

e non-Tu, del torbido

che viene dal chiaro, di quanto

 è giudeo, del

tuo Dio.

 

Di

tutto questo.

nel giorno di un'Ascensione, il

duomo era laggiù, veniva incontro

sopra le acque, con un tocco d'oro.

 

Del tuo Dio si parlò, io dissi cose

contro di lui, lasciavo

al_cuore ch'era in me

di sperare:

nella sua

suprema e rissosa, nella sua,

rantolante, parola.

 

Il tuo occhio guardò me, poi altrove,

la tua bocca

si prestò al tuo occhio, e io sentii:

 

Noi in verità

non sappiamo, sai,

non sappiamo

cosa

vale

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ARGUMENTUM E SILENTIUM

Per René Char

Messa alla catena,

tra oro e oblio:

la notte. Entrambi su essa

stesero le loro mani. Ed essa

entrambi lasciò fare.

 

Lì, reca anche tu, ora,

ciò che albeggiando vuol crescere,

insieme ai giorni: reca

la parola sorvolata dagli astri,

sommersa dai mari.

 

A ciascuno la sua parola.

A ciascuno la parola. che gli si fece canto,

allorchè la muta lo raggiunse alle spalle,

a ciascuno la parola che si fece canto e impietrì..

 

Ad essa, alla notte, la parola

che sorvolano gli astri e i mari sommergono,

ad essa la parola vinta al silenzio,

cui il sangue,non cagliò quando trafisse

le sillabe quel dente di vipera

 

Alla notte la parola vinta al silenzio.

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SUOLO DI COMPIEGNE   (Robert Desnos)

  (poema scritto nel campo di Compiègne e firmato con lo pseudonimo Valentin Guillois)

  CORO (molto affrettato e come se si accavallasse)

Gesso e selce e erba e gesso e selce

E selce e polvere e gesso e selce

Erba, erba e selce e gesso, selce e gesso

(rallentato)

Selce, selce e gesso

E gesso e selce

E gesso…

 

[…]

CORO

 

Suolo di Compiègne!

Terra. grassa e tuttavia sterile

Terra di selce e di gesso

Segnamo l’impronta delle nostre suole

Nella. tua carne'

Perché un giorno la pioggia primaverile

Vi si riposi come l'occhio di un uccello

E rifletta il cielo, il cielo di Compiègne

Con le tue immagini e i tuoi astri

Greve di ricodi e di sogni

Più duro della selce

Più docile del gesso sotto il coltello

 

[…]

CORO ALTERNATO

 

E gesso e selce e selce e gesso

Suolo di Compiègne!

Suolo fatto per la marcia

E la lunga sosta degli alberi,

suolo di Compiègne!

Uguale a tutti i suoli del mondo,

suolo di Compiègne!

Un giorno scuoteremo la nostra polvere

Sulla tua polvere

E partiremo cantando

 

UNA VOCE

Partiremo cantando

Cantando verso i nostri amori

La vita è breve e breve il tempo

   

ALTRA VOCE

 

Nulla è più bello dei nostri amori

 

ALTRA VOCE

 

Lasceremo la nostra polvere

Nella polvere di Compiègne

(scandito)

E porteremo con noi i nostri amori

I nostri amori a fin che ce ne rimembriamo

 

CORO

Che ce ne rimembriamo

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Prefazione in prosa ( Benjamin FONDANE)

  MORTO AD AUSCHWITZ

 

È a voi che parlo, uomini degli antipodi,

parlo da uomo a uomo,

con il poco che rimane in me dell’uomo,

con il poco di voce che mi resta in gola,

il mio sangue è sulle strade, possa,possa

non gridare vendetta!

L’hallalì è lanciato ,le bestie son braccate,

lasciate che vi parli con le parole stesse

che avemmo in comune –

ne rimangono poche intelligibili!

Verrà un giorno, è sicuro , della sete placata,

saremo al di là del ricordo, la morte

avrà ultimato le opere dell’ odio ,

sarò un ciuffo di ortiche sotto i vostri piedi,

-allora,ebbene,sappiate che avevo un volto

come voi. Una bocca che pregava, come voi.

(…)

Sì , son stato un uomo come gli altri uomini,

nutrito di pane,di un sogno,di disperazione. Eh sì

ho amato,ho pianto,ho odiato,ho sofferto,

(…).

Eppure,no!

Non ero un uomo come voi.

Non siete nati sulle strade,

nessuno ha gettato nella fogna i vostri piccoli

come dei gatti ancor senza occhi,

non avete errato di città in città

braccati dalle polizie,

non avete conosciuto le catastrofi all’alba,

i carri bestiame

e il singhiozzo amaro dell’umiliazione,

accusati di un delitto che non avete compiuto,

di un assassinio di cui manca ancora il cadavere,

cambiando nome e volto,

per non portar con sé un nome schernito,

un volto che aveva servito a tutti

da oggetto di sputo!

Verrà un giorno,senza dubbio,in cui il poema letto

 

Si troverà davanti ai vostri occhi. Non chiede

Nulla! Dimenticatelo! Dimenticatelo! Non è

Che un grido, che non si può mettere in un poema

Perfetto, avevo dunque il tempo di finirlo?

Ma quando calpesterete quel ciuffo di ortiche

Che ero stato io, in un altro secolo,

in una storia che per voi sarà desueta,

ricordatevi solo che ero innocente

e che, come voi, mortali di quel giorno,

avevo avuto, anch’io, un volto segnato

dalla collera, dalla pietà e dalla gioia,

un volto d’uomo, semplicemente!

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BRUNO VASARI

ABISSO DI MISERIA

  Per dare la misura

il suo fu un vero martirio,

la sua sola colpa l’immenso amore

per la casa, la moglie, i figli.

La nostalgia fu più forte di lui

lo portò alla follia di tentare l’impossibile fuga.

Ora penso e ripenso a quel giorno lontano

mi chiedo….

Dov’era il tuo buon Dio quel giorno di Pasqua?

Forse era a Belsen o forse ad Auschwitz?

Oppure a Buchenwald o forse a Ravensbruck?

Magari a Mauthausen o forse a Dachau?

Di una cosa sono certo

quel giorno di Pasqua,

il tuo buon Dio non era con noi.

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Quinto Osano

SOGNO

Notte buia, fredda silenziosa

ansia tormento: sonno senza riposo

vi vedo, macilenti scarni

teste insaccate sulle spalle

visi senza volto.

Uno, dieci, cento, mille:

nudi, fantasmi nella notte

braccia abbassate, mani a

difesa di dignità mai sopita

camminate lungo il viale, in fondo il crematorio, la…. Libertà.

Io, fermo come una statua di gelo

inerme impotente, guardo;

camminate sempre più lentamente, ombre nella notte

vivi già morti.

Uno, dieci, cento, mille

alla fine del viale, vi

voltate, guardate nella notte fonda

portate dal vento sento:

fievoli voci ripetere, ossessive insistenti

coraggio, forza, non cedere, combatti,

non ci tradire!

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FREDDO E FAME

  Freddo: non è… stare per ore e ore

in una plaz appel; sotto la pioggia, la neve,

il gelido vento del nord

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BAMBINA E MARTIRE

  Dolce primavera

tragica atmosfera

lo Scheissemeister

114-119

della pulizia investito

con la carriola

di scopa e badile munito

varca la barriera

di filo spinato che separa

al Revier di Mauthausen

il recinto degli uomini

da quello delle donne.

 

Lo Scheissemeister

di corsa vede attraversare

la stradina una tenera

nuda gracile bambina

in un blocco entrare

sempre di corsa scalare

la montagna di vestiti

invernali dimessi

improvvisamente

inaspettatamente

la dissenteria scaricare.

 

Il tempo trasfigura

questa cruda visione

di tanto in tanto riappare

nel culto di una santa

martire da venerare.

La mia Anna Frank

così possessivo

la chiama esclusivo

lo Scheissemeister

che mai potrà dimenticare.

 

Dolce primavera

tragica atmosfera.

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  LODOVICO BARBIANO DI BELGIOJOSO

  MAUTHAUSEN – GUSEN, febbraio 1945

  Qui spesso mi domando

se al mondo esistano ancora

giardini fioriti,

bambini paffuti e frutti canditi,

lampadari di cristallo,

carretti di arance e feste da ballo.

Se ancora ci siano

profumi e sapori,

belle ragazze e film a colori.

Suoni di campane,

vestiti di seta e musiche lontane…

Se esistano ancora

castelli incantati,

camini accesi e campi sconfinati…

O se abbiano diviso tutta la terra

in tanti quadrati,

circondati da reticolati,

dove uomini incolonnati

camminano disperati

con gli zoccoli e lo sguardo nel fango!

 

  MAUTHAUSEN – GUSEN, febbraio 1945

 

Le pietre del muro del campo

sono pietre di tomba,

senza croce, senza epitaffio:

tomba di quelli che l’hanno portate

giù dalla cava, poi sono morti.

 

Quando il campo dorme

e la luna illumina il muro,

la superficie vibra come volesse cantare.

 

N’esce un suono sottile

impercettibile,

come quello d’un cervello che pensa,

di una pianta che cresce,

d’una nuvola che si dissolve nel cielo.

 

Sono i morti che parlano:

“Eravamo stranieri

l’uno all’altro, russi, polacchi, spagnoli,

francesi, italiani, tedeschi, ungheresi,

 …………………………………………….. (dov’è la fine?????)

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  IL CANTO DEL CORVO

  “Sono venuto di molto lontano

per portare mala novella.

Ho superato la montagna,

ho forato la nuvola bassa,

mi sono specchiato il ventre nello stagno.

Ho volato senza riposo,

per cento miglia senza riposo,

per trovare la tua finestra,

per trovare il tuo orecchio,

per portarti la nuova trista

che ti tolga la gioia del sonno,

che ti corrompa il pane e il vino,

che ti sieda ogni sera nel cuore”.

Così cantava turpe danzando,

di là dal vetro, sopra la neve.

Come tacque, guardò maligno,

segnò col becco il suolo in croce

e tese aperte le ali nere.

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SHEMA’ *

09 gennaio 1946

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

 

considerate se questo è un uomo,

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un si o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

 

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi:

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

10 gennaio 1946

  * Significa “Ascolta” in Ebraico

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PER ADOLF EICHMANN

  Corre libero il vento per le nostre pianure

eterno pulsa il mare vivo alle nostre spiagge.

L’uomo feconda la terra, la terra gli dà fiori e frutti:

vive in travaglio e in gioia, spera e teme, procrea dolci figli.

 

… E tu sei giunto, nostro prezioso nemico,

tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.

Che saprai dire ora, davanti al nostro consesso?

Giurerai per un dio? Quale dio?

Salterai nel sepolcro allegramente?

O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole,

cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga,

dell’opera tua trista non compiuta,

dei tredici milioni ancora vivi?

 

O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.

Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:

possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,

e visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide

rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,

intorno a sè farsi buio, l’aria gremirsi di morte.

20 luglio 1960

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L’ULTIMA EPIFANIA

  Era la vostra terra la più vicina al mio cuore:

per questo vi ho mandato messaggio dopo messaggio.

Sono disceso tra voi sotto spoglie strane e diverse,

ma in nessuna di queste mi avete riconosciuto.

 

Ho bussato di notte, pallido ebreo fuggiasco,

lacero, scalzo, braccato come una bestia selvaggia:

voi chiamaste gli sgherri, mi additaste alle spie,

e diceste in cuor vostro “Così sia. Dio lo vuole”.

 

Da voi sono venuto quale vecchia insensata,

tremante, con la gola piena di muto grido.

Voi parlavate di sangue, della stirpe avvenire,

e solo la mia cenere uscì dalla vostra porta.

 

Orfano giovinetto della piana polacca

vi sono giaciuto ai piedi, supplicando per pane.

Ma voi temeste in me qualche vendetta futura,

e torceste lo sguardo, e mi deste la morte.

 

E venni qual prigioniero, e quale servo in catene,

di cui si fa mercato, cui si addice la frusta.

Voi volgeste le spalle al livido schiavo cencioso.

Ora vengo da giudice. Mi conoscete adesso?

20 novembre 1960

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SCACCHI

  Solo la mia nemica di sempre

l’abominevole dama nera

ha avuto nerbo pari al mio

nel soccorrere il suo re inetto.

Inetto, imbelle pure il mio, s’intende:

fin dall’inizio è rimasto acquattato

dietro la schiera dei suoi bravi pedoni,

ed è fuggito poi per la scacchiera

sbieco, ridicolo, in passetti impediti:

le battaglie non son cose da re.

Ma io!

Se non ci fossi stata io!

Torri e cavalli sì, ma io!

Potente e pronta, dritta e diagonale,

lungiportante come una balestra,

ho perforato le loro difese;

hanno dovuto chinare la testa

i neri frodolenti ed arroganti.

La vittoria ubriaca come un vino.

 

Ora tutto è finito,

sono spenti l’ingegno e l’odio.

Una gran mano ci ha spazzati via

deboli e forti, savi, folli e cauti,

i bianchi e i neri alla rinfusa, esamini.

Poi ci ha gettati con scroscio di ghiaia

dentro la scatola buia di legno

ed ha chiuso il coperchio.

Quando un’altra partita?

9 maggio 1984

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PIO

  Pio bove un corno. Pio per costrizione,

pio contro voglia, pio contro natura,

pio per arcadia, pio per eufemismo.

Ci vuole un bel coraggio a dirmi Pio

e a dedicarmi perfino un sonetto.

Pio sarà lei, professore,

dotto in greco e in latino, Premio Nobel, che

batte alle chiuse porte coi ramicelli di fiori

in mancanza di meglio

mentre io m’inchino al giogo, pensi quanto contento.

Fosse stato presente quando m’han reso Pio

le sarebbe passata la voglia di fare versi

e a mezzogiorno di mangiare il lesso.

O pensa che io non veda, qui sul prato,

il mio fratello intero, erto, collerico,

che con un sol colpo delle reni

in semina la mia sorella vacca?

Oy gevàlt! Inaudita violenza

la violenza di farmi nonviolento.

18 maggio 1984

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SIDEREUS NUNCIUS

  Ho visto Venere bicorne

navigare soave nel sereno.

Ho visto valli e monti sulla Luna

e Saturno trigemino

io Galileo, primo fra gli umani;

quattro stelle aggirarsi intorno a Giove,

e la Via Lattea scindersi

in legioni infinite di mondi nuovi.

Ho visto, non creduto, macchie presaghe

inquinare la faccia del sole.

Quest’occhiale l’ho costruito io,

uomo dotto ma di mani sagaci:

io ne ho polito i vetri, io l’ho puntato al Cielo

come si punterebbe una bombarda.

Io sono stato che ho sfondato il Cielo

prima che il Sole mi bruciasse gli occhi.

Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi

ho dovuto piegarmi a dire

che non vedevo quello che vedevo.

Colui che m’ha avvinto alla terra

non scatenava terremoti né folgori,

era di voce dimessa e piana,

aveva la faccia di ognuno.

L’avvoltoio che mi rode ogni sera

ha la faccia di ognuno.

11 aprile 1984

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  DATECI

  Dateci qualche cosa da distruggere,

una corolla, un angolo di silenzio,

un compagno di fede, un magistrato,

una cabina telefonica,

un giornalista, un rinnegato,

un tifoso dell’altra squadra,

un lampione, un tombino, una panchina.

Dateci qualche cosa da sfregiare,

un intonaco, la Gioconda ,

un parafango, una pietra tombale,

dateci qualche cosa da stuprare,

una ragazza timida,

una aiuola, noi stessi.

Non disprezzateci: siamo araldi e profeti.

Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi,

che ci faccia sentire che esistiamo.

Dateci un manganello o una Nagant,

dateci una siringa o una Suzuki.

Commiserateci.

30 aprile 1984

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 VOLENDAM

  Qui acqua cent’anni fa

ripeteva la guida Federico –

oggi polder.

Vita

tra polder e diga qui c’è posto

per la procreazione solamente

e la difesa della morte. Questo

dicono le facce arrossate dal freddo

fuori dalla messa cattolica

a Volendam, la nenia

del vento volubile tra i terrapieni.

L’amore è di dopo, è dei figli

ed è più grande. Impara.

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LA PIETA ’ INGIUSTA

  Mi prendono da parte, mi catechizzano:

il faut

faire attention, vous savez.

Et surtout si l’affaire

Doit marcher jusqu’au bout,

Ne causez pas de ces choses bien passées.

Il paraît qu’il en fut un, un SS

Qu’il a été même dans l’armée

Quoique pas allemand…

Ecco in che cosa erano

Forza e calma sospette

L’abnegazione nel lavoro, la

Cura del particolare, la serietà

A ogni costo, fino in fondo….

Intorno c’è aria di niente, mani

Sulla tavola, armi (chi le avesse)

Al guardaroba: solo adesso

Si comincia a capire – e l’affare un pretesto

Il pranzo un trucco, una messinscena

Benché non esistano dubbi sulle portate

Benché non ci siano orripilanti cataste sulla tavola né sotto

Ma in cucina, chi può dirlo?

Ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci,

matasse, matassine innocue, oro a scaglie

da coprirne un deserto di sale, nubi d’anime

esulanti – esulanti da camini

con la piena dolcezza degli stormi d’autunno

altre anche meno visibili spazzate da una raffica in un’ora di notte –

è una questione d’occhi fermi sul cammello che passa

e ripassa per la cruna in piena libertà –

e con tocchi di porpora una città

d’inverno, una città di cenere si propaga

dentro una lente di mitezza.

Solo adesso si comincia a capire.

Incredibile – dirò più tardi – le visioni

Immotivate che si hanno a volte

(e pazienza per queste

ma esserne coinvolti al di là del giudizio

fino al tenero, fino all’indebita pietà….):

le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo

ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati

facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro

un reparto in sfacelo che si sbarca, se ne fotte

della resa con dignità, ma su tutte

quella faccia di infortunio, di gioventù in malora

con la sua vampa di dispetto di bocciato

di espulso dal futuro

nell’ora già densa della campagna

verso l’estate che verrà…

tra poco sparecchieranno, porteranno

le cartelle per la firma. Si firmerà.

Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà –

E lui rimesso in sesto, risarcito di vent’anni d’amaro

Bene potue et pransus arbitro dell’affare.

Non si vede più niente. Se non – per un incauto

Pensiero, per quel momento di pietà – quella mano

Quel mozzicone di mano sulla parete.

Ci conta ci pesa ci divide. Firma.

E tutti quanti come niente – come la notte

Ci dimentica.

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NEL VERO ANNO ZERO

  Meno male lui disse, il più festante: che meno male c’erano tutti.

Tutti alle Case dei Sassoni – rifacendo la conta.

Mai stato in Sachsenhasen? Mai stato.

a mangiare ginocchio di porco? Mai stato.

Ma certo alle case dei Sassoni.

Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhasen, cosa c’è di strano?

Ma quante Sachsenhasen in Germania, quante case.

Dei Sassoni, dice rassicurante

caso mai svicolasse tra le nebbie

un ombra di recluso nel suo gabbano.

No non c’ero mai stato in Sachsenhasen.

E gli altri allora – mi legge nel pensiero –

quegli altri carponi fuori da Stalingrado

mummie di già soldati

dentro quel sole di sciagura fermo

sui loro anni aquilonari…. Dopo tanti anni

non è la stessa cosa?

Tutto ingoiano le nuove belve, tutto –

si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore.

A balzi nel chiaro di luna si infilano in un night.

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  VITTORIO SERENI

DIARIO DI ALGERIA 

“LASSU ‘ DOVE DI TORRE”

  Lassù dove di torre

in torre balza e si rimanda

ormai vano un consenso,

il chivalà dell’ora,

come quaggiù di torretta in torretta

dai vertici del campo nei richiami

tra loro le scolte marocchine –

chi và nella tetra mezzanotte

dei fiocchi veloci, chi l’ultimo

brindisi manca su nere

soglie di vento sinistre

d’attesa, chi va…

è un’immagine nostra

stravolta, non giunta

alla luce. E d’oblio

solo un’azzurra vena abbandona

tra due epoche morte dentro noi.

Sainte-Barbe du Thélat, Capodanno 1944

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  «  UN IMPROVVISO VUOTO DEL CUORE »

  Un improvviso vuoto del cuore

tra i giacigli di Sainte – Barbe.

Sfumano i volti diletti, io resto solo

con un gorgo di voci faticose.

E la voce più chiara non è più

che un trepestio di pioggia sulle tende,

un’ultima fronda sonora

su queste paludi del sonno

corse a volte da un sogno.

Sainte-Barbe du Thélat, Inverno 1944

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  «  NON SA PIU’ NULLA, E’ ALTO SULLE ALI”

  Non sa più nulla, è alto sulle ali

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.

Per questo qualcuno stanotte

mi toccava la spalla mormorando

di pregar per l’Europa

mentre la Nuova Armada

si presentava alla costa di Francia.

Ho risposto nel sonno: - E’ il vento,

il vento che fa musiche bizzarre.

Ma se tu fossi davvero

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna

prega tu se lo puoi, io sono morto

alla guerra e alla pace.

questa è la musica ora:

delle tende che sbattono sui pali.

Non è musica d’angeli, è la mia

sola musica e mi basta-.

Campo Ospedale 127, giugno 1944

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  “NON SANNO D’ESSERE MORTI”

  Non sanno d’essere morti

i morti come noi,

non hanno pace.

Ostinati ripetono la vita

si dicono parole di bontà

rileggono nel cielo i vecchi segni.

Corre un girone grigio in Algeria

nello scherno dei mesi

ma immoto è il perno a un caldo nome: Oran.

Saint-Cloud, agosto 1944

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“SOLO VERA E’ L’ESTATE E QUESTA SUA”

  Solo vera è l’estate e questa sua

luce che vi livella.

E ciascuno si trovi il sempreverde

albero, il cono d’ombra,

l’australe acqua beata

e il ragnatelo tessuto di noia

sugli stagni malvagi

resti un sudario d’iridi. Laggiù

è la siepe labile, un alone

di rossa polvere,

ma sepolcrale il canto d’una torma

tedesca alla forza perduta.

Ora ogni fronda è muta

compatto il guscio d’oblio

perfetto il cerchio.

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  ISTRUIZONI PER L’ESPATRIO CLANDESTINO

  DI DAN PAGIS

  Uomo inventato, parti.

Ecco il passaporto.

Ti è proibito ricordare.

Devi corrispondere alle generalità:

i tuoi occhi ora sono azzurri.

Non fuggire con le scintille

tra gli sbuffi della locomotiva:

sei un essere umano e siedi in un vagone. Accomodati.

Il cappotto è decoroso, l’aspetto è dignitoso,

il nuovo nome è pronto nella tua gola.

Parti, parti. Ti è proibito scordare.

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SRULIQ

  ARIEH SIVAN

  Un’ebrea, anziana, a sentirne la voce,

mi disturba al telefono con un grido disperato

“Sruliq!” – così, giorno dopo giorno.

Bialik potrebbe percepire, nella sua voce, la shekinah1

alla ricerca dei figli; Alterman

sente un urlo fervido al morto vivente

e per Amichai, è forse il memento

dei giorni della pietà. Io

sono incapace di tali voli pindarici.

Posso alzare la cornetta, mormorare

“ha sbagliato, signora”, sperando

che non rimanga bloccata la linea

e speculare, per la centesima volta,

se Sruliq, Israel, è ancora in vita

o è perito, tra i sei milioni, nella Shoah.

 

Shekinah è un termine che indica il manifestarsi di Dio

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PAPA’ E MAMMA SONO ANDATI AL CINEMA,

ILANA E’ SEDUTA SOLA IN POLTRONA E OSSERVA UN LIBRO GRIGIO.

 

DI MEIR WIESELTIER

Lei sfoglia: zii nudi

corrono spogliati, magrissimi,

e poi zie con il sedere all’aria

e gente in pigiama come a teatro

e anche stelle di Davide di stoffa.

E sono tutti così brutti e magri,

con occhi enormi,

come i polli.

Tutto è terribilmente strano e grigio. Ilana ha pastelli rossi,

azzurri, verdi, gialli e rosa.

Così, va nella sua cameretta,

si porta le belle matite

e a costoro disegna con passione

occhiali e facce da buffone.

Al bimbo pelato e magro

fa baffoni rossi per benino

e sulla punta si posa un uccellino.

Meir Wieseltier, 1941

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  ISACCO

  All’alba, il sole passeggiava nel bosco

insieme a me e a papà,

la mia destra, nella sua sinistra.

Come un fulmine fiammeggiò il coltello tra le fronde.

Quanto temo l’orrore dei miei occhi, di fronte al sangue sulle foglie.

Papà, papà, presto, salva Isacco,

affinché non manchi nessuno per pranzo.

Figlio, sono io quello macellato,

è mio il sangue sulle foglie.

Poi si ammutolì e sbiancò in volto.

Volevo urlare, mi dibattevo,

rifiutavo di credere e sgranavo gli occhi.

Mi svegliai.

Era esangue la mia destra.

Amir Gilboa, 1917 – 1984

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COMPLAINTE DE ROBERT LE DIABLE (LOUIS ARAGON)

  Tu portais dans ta voix comme un chant de Nerval

Quand tu parlais du sang jeune homme singulier

Scandant la cruauté de tes vers réguliers

Le rire des bouchers t’escortait dans les Halles

 

Tu avais en ces jours ces accents de gageure

Que j’entends retentir à travers les années

Poète de vingt ans d’avance assassiné

Et que vengeaient dèjà le blasphème et l’injure

 

Je pense à toi Desnos qui partis de Commpiègne

Comme un soir en dormant tu nous en fis récit

Accomplir jusqu’au bout ta propre prophétie

Là – bas où le destin de notre siècle saigne

 

Debout sous un porche avec un cornet de frites

Te voilà par mauvais temps près de Saint – Merry

Dévisageant le monde avec affronterie

De ton regard pareil à celui d’Amphitrite

 

E’norme et palpitant d’une pâle buée

Et le sol à ton pied comme au sein nu l’écume

Se couvre de mégots de crachats de légumes

Dans les pas de la pluie et des prostituées

 

Je pense à toi Desnos qui partis de Commpiègne

Comme un soir en dormant tu nous en fis récit

Accomplir jusqu’au bout ta propre prophétie

Là – bas où le destin de notre siècle saigne

 

Et c’est encore toi sans fin qui te promènes

Berger des longs désirs et des songes brisés

Sous les arbres obscurs dans les Champs – Elysèes

Jusqu’à l’épuisement de la nuit ton domaine

 

Oh la Gare de l’Est et le premier croissant

Le café noir qu’on prend près du percolateur

Les journaux frais Les boulevards pleins de senteurs

Les bouches du métro qui cachent les passants

 

Je pense à toi Desnos qui partis de Commpiègne

Comme un soir en dormant tu nous en fis récit

Accomplir jusqu’au bout ta propre prophétie

Là – bas où le destin de notre siècle saigne

 

La ville un peu partout garde de ton passage

Une ombre de couleur à ses frontons salis

Et quand le jour se lève au Sacré-Cœur pâli

Quand sur le Panthéon comme un équarrissage

 

Le crépuscule met ses lambeaux écorchés

Quand le vent hurle aux loups dessous le Pont-au-Change

Quand le soleil au Bois roule avec les oranges

Quand la lune s’assied de clocher en clocher

 

Je pense à toi Desnos qui partis de Commpiègne

Comme un soir en dormant tu nous en fis récit

Accomplir jusqu’au bout ta propre prophétie

Là – bas où le destin de notre siècle saigne

 

Adattata e cantata da Jean Ferrat

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AGONIA (MAX JACOB)

  Poesia scritta nel campo di concentramento di Drancy (1944)

 

Dio mio! Come son lasso di esser senza speranza,

di rotolare la botte greve del mio avvilimento

e senza possibilità di farla finita con la terra.

Trasporto Satana come un intermediario

rovino il mio blasone con i miei sussulti.

Volgo ogni notte le mie visioni verso i morti

sbatto col mio cranio alle rupi dell’inferno

e le lenzuola nel letto sono in paglia di ferro.

Sovente nel sonno la stessa isola elettrica

imprime con coltello di sangue i miei patronimici

sulla pelle. Membra, fasci di anguille

che con gaio ghigno i diavoli sfrondano.

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IL FREDDO (JEAN - PIERRE VOIDIES)

  Poesia scritta a Neuengamme, gennaio 1945

 

Lui, il freddo

blu

si stende

nel cielo

come un morto

mi schiaccia

 

Il freddo blu

già morto

nel cielo vuoto

cammina

dove cammino

e si ferma

come un male

stanco

 

Come un astro

in pieno giorno

e morto

nelle nuvole

lunghe

 

Mi schiaccia

lo sento

su di me

nella mia carne

entra

blu

 

E sono

intirizzito

intirizzito

sotto questo freddo

morto

e blu

che scende

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    ACCUSO (JEAN CAYROL)

  Sopravvissuto a Mauthausen

  In nome del morto che fu senza nome

In nome delle porte sprangate

In nome dell’albero che risponde

In nome delle piaghe, in nome dei prati bagnati

 

In nome del cielo infuocato dei nostri rimorsi

In nome di un padre che non avrà più il figlio

In nome del libro dove il saggio s’addormenta

In nome di tutti i frutti che maturano

 

In nome del nemico, in nome della vera lotta

Dove l’uccello aveva fatto il nido

In nome del gran ritorno di fiamma e di soldati

In nome delle foglie giù nel pozzo

 

In nome delle giustizie sommarie

In nome della pace così debole nelle nostre braccia

In nome delle notti vive della madre

In nome di un popolo di cui si cancellano i passi

 

In nome di tutti i nome che non han più rinomanza

In nome delle leggi commoventi, in nome delle Voci

Che dicon di sì che dicon di no

In nome degli uomini dagli occhi di preda.

 

Amore, ti abbandono ai primi furori della Gioia.

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L’ E’PITAPHE  (ROBERT DESNOS)

 

J’ai vécu dans ces temps et depuis mille années

Je suis mort. Je vivais, non déchu mais traqué.

Toute noblesse humaine était emprisonnée

J’était libre parmi les esclaves masqués.

 

J’ai vécu dans ces temps et portant j’étais libre.

Je regardais le fleuve et la terre et le ciel

Tourner autour de moi, garder leur équilibre

Et les saisons fournir leurs oiseaux et leur miel.

 

Vous qui vivez qu’avez-vous fait de ces fortunes ?

Regrettez-vous les temps où je me débattais ?

Avez-vous cultivé pour des moissons communes ?

Avez-vous enrichi la ville où j’habitais ?

 

Vivants, ne craignez rien de moi, car je suis mort.

Rien ne survit de mon esprit ni de mon corps.