Carlo Spartaco Capogreco ,docente di Storia Contemporanea all'Università della Calabria, presidente della Fondazione internazionale "Ferramonti di Tarsia
.Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra storia e memoria
Non appena l'Italia entrò nella seconda guerra mondiale, alcuni funzionari tecnici della Direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell'interno si rivolsero ai tedeschi per conoscere l'organizzazione dei loro campi di concentramento. In risposta, lo stesso. Reinhardt Heydrich, capo ,dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), si affrettò a scrivere al capo della polizia italiana, Arturo Bocchini, inviandogli il "regolamento" dei campi germanici ed esprimendo la sua piena disponibilità a ricevere eventualmente una "delegazione di studio" composta da funzionari italiani. Già nell'aprile del 1936, d'altra parte, il commissario capo di pubblica sicurezza Tommaso Petrillo aveva visitato il campo di concentramento di Dachau e, nel dicembre 1938, il direttore e il vicedirettore dell'Ufficio studi sulla razza. del Ministero della cultura popolare, Guido Landra e Lino Businco, .erano stati in quello di Sachsenhausen, dove avevano incontrato esponenti nazisti di primo piano. Ma tali contatti "tecnici" rimasero fatti episodici non suffragati poi da volontà e atti politici concreti. Bocchini, in particolare, lasciò cadere l'invito di Heydrich, adducendo difficoltà dovute allo stato di guerra e alla carenza di personale.
I campi di concentramento italiani della seconda guerra mondiale, a parte il nome,ebbero poco o nulla in comune con i Konzenttationslager. La "filosofia ispiratrice" dell'internamento civile fascista non mirava, in linea di principio, allo sfinimento degli individui e/o allo sfruttamento del lavoro schiavistico. L'obiettivo perseguito era la messa al bando degli elementi "indesiderabili" e "pericolosi", a partire dagli oppositori politici interni. I modelli di riferimento dei campi fascisti della seconda guerra mondiale non sono pertanto da ricercare - come, purtroppo, talvolta avviene - nei lager tedeschi, e neppure in quelli di altri regimi totalitari, ma piuttosto nella stessa prassi concentrazionaria italiana che, negli anni quaranta, aveva alle spalle una sua esperienza ben consolidata.
Le deportazioni e l'internamento dei civili erano pratiche già note all'Italia monarchico liberale , che le aveva utilizzate sia nella penisola che nei possedimenti d'oltremare. Si pensi, per esempio, alle tristi condizioni delle migliaia di libici deportati a Ustica e alle isole Tremiti dopo la rivolta di Sciara Sciat del 1911, o al terribile campo di prigionia di Nocra, istituito nel 1895 su una delle isolette che fronteggiano Massaua.
Tuttavia fu sotto il fascismo, soprattutto durante alcune particolari campagne coloniali, che i campi di concentramento vennero utilizzati dall'Italia in grande stile, e le deportazioni si spinsero ai limiti della "pulizia etnica" e dello sterminio. Nel 1930, il generale Rodolfo Graziani, divenuto governatore della Cirenaica, portava a compimento la "pacificazione" della regione mediante una campagna di deportazione in massa senza precedenti nella storia dell'Africa moderna. Al fine di creare "un distacco territoriale" tra i ribelli e la popolazione sottomessa, quasi centomila seminomadi del Gebel (un ottavo dell'intera popolazione libica di allora) vennero rinchiusi in quindici campi di concentramento contrassegnati dal vessillo tricolore, installati nella Sirtica, alcuni dei quali comprendevano fino a ventimila tende. Durante le lunghe e terribili marce di deportazione, i ritardi non erano ammessi: chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi. El.Agheila, Marsa el.Brega, Agedabia, Sidi Ahmed el.Magrun, Soluch, Ain Gazala, el Abiar: sono questi i nomi dei campi maggiori. Nel settembre 1931, sul piazzale di uno di essi, gli italiani impiccarono Ornar al Mukhtar, il leader della resistenza locale.
Durata circa tre anni, la segregazione dei libici si concluse nel settembre 1933, quando di tutti i civili deportati, ridotti all'inanizione o sottoposti al lavoro coatto, restavano in vita meno di sessantamila. Gli storici di regime definirono quella dei campi della Sirtica «una grande e singolare impresa», ma per la stampa internazionale si trattò, invece, di «una visione da incubo». Ancora oggi, purtroppo, quei nomi sono sconosciuti e distanti dalla coscienza civile degli italiani.
Nel 1935, a poche settimane dall'inizio del conflitto italo.etiopico, un grande campo di concentramento italiano veniva aperto a Danane, in Somalia. Avrebbe dovuto accogliere militari nemici; ma durante la guerra d'Etiopia, che fu un conflitto prettamente di annientamento, di prigionieri se ne fecero ben pochi. Il campo si riempì invece di civili, soprattutto a guerra finita: notabili, funzionari, monaci .copti, indovini, cantastorie ecc. Vi trovarono posto anche i resti dell'esercito imperiale etiopico e delle formazioni ribelli. Dall'ottobre 1935 al marzo 1941, si avviccndarono a Danane circa 6500 internati tra etiopi e somali; poco meno della metà dei reclusi persero li vita per la sottoalimentazione e le disastrose condizioni igienico.sanitarie.
In Italia, la possibilità di deportare gli avversari mediante il loro confinamento su piccole isole o in località sperdute e disagiate, introdotta per legge nel novembre del 1926, costituì uno degli elementi chiave del sistema repressivo e coercitivo fascista, La forzatura operata dal legislatore all'istituto del "domicilio coatto" di epoca liberale, dal quale il "confino di polizia" traeva derivazione, consistette soprattutto - come ha sottolineato Leonardo Musci - «nell'applicare in massa agli oppositori politici una misura che era stata prevalentemente destinata a un'area di emarginazione sociale oscillante fra la delinquenza comune e il ribellismo generico», ma la novità più importante rispetto alla legislazione prefascista fu rappresentata dal carattere autonomo acquisito dal "confino" rispetto alla "diffida" e all’ammonizione", che costituivano due misure di prevenzione più lievi. Da provvedimento cui ricorrere in second'ordine nel caso in cui fossero rimaste senza effetto le prime. due (questa era stata la funzione del "domicilio coatto"), il confino divenne infatti una misura autonoma e "di prima battuta".
Tuttavia, nell'Italia fascista non vi furono campagne di deportazioni di massa degli avversari come si ebbero nella Germania degli anni 1933-1934: alla fine del 1926 erano stati confinati "soltanto" 900 dissidenti; e dal 1926 al 1943 , nell'arco dei diciassette anni di applicazione del provvedimento, il numero dei confinati si aggirò sulle 17 000 unità, Sia le cifre complessive che quelle relative ai primi mesi di assegnazione al confino, . pongono il nostro paese ben lontano dall'ordine di grandezza della .deportazione politica interna avutasi in Germania, Ma, per un computo esatto della situazione italiana, alle cifre del confino politico bisogna aggiungere quelle relative all'internamento civile che, come si dirà più avanti; nella seconda guerra mondiale venne largamente utilizzato dal regime fascista con finalità di repressione politica e sociale (sono circa 7000 i fascicoli personali degli italiani internati perché "pericolosi in linea politica"). Il fascismo, sia per ragioni legate al modo in cui aveva raggiunto il potere, sia per la diversità delle forze che lo avevano appoggiato e per le mediazioni che aveva dovuto realizzare, nel comminare il confino scelse la via di una repressione "costante ma non eclatante"; tendente a isolare le avanguardie e a contenere il numero dei deportati, per non accreditare, specialmente all'estero, l'immagine di un antifascismo ancora vitale e numeroso. D'altra parte Mussolini non aveva bisogno di ricorrere a deportazioni in massa perché, di fatto, nel 1926 non esisteva in Italia lacuna minaccia insurrezionale da parte dell'antifascismo. Perciò ….a ".reprimere selettivamente", isolando, tramite il confino, i …. militanti dal resto della popolazione italiana, mentre i dirigenti,. i quadri principali dell'opposizione venivano possibilmente affidati alle cure del Tribunale speciale per la difesa dello stato.Nel famoso "discorso dell'Ascensione", pronunciato alla Camera il 26 maggio 1927, riferendosi alle recenti misure di polizia, Mussolini sostenne di aver previsto la deportazione di tutti i cittadini che fossero" sospetti di antifascismo" o dediti "ad una qualsiasi attività controrivoluzionaria". In realtà, il duce non perse occasione per raccomandare a polizia e prefetti di "non creare falsi martiri" attraverso l'uso eccessivo delle assegnazioni al confino: minimizzare la consistenza delle opposizioni era. del resto. il modo attraverso cui il fascismo preferiva rispondere alla propagano da antifascista svolta all'estero dagli esuli italiani. Analoga funzione aveva la pubblicazione in "giornali amici", italiani e stranieri, di tranquillizzanti articoli sulla vita di confino (presentata pressappoco alla stregua di una villeggiatura) mirati ad accreditare l'idea che scopo della deportazione politica fosse quello di eliminare dalla circolazione i "disturbatori" che ostacolavano il cammino dell'Italia fascista "verso un futuro radioso".
In realtà, sia per le preoccupazioni legate alla sopravvivenza materiale. sia per tanti altri fattori (come, per esempio, l'infiltrazione tra le loro fila di provocatori al servizio del regime), la condizione degli oppositori confinati sulle isole era tutt'altro che rassicurante. Inizialmente, disponendo di una mazzetta giornaliera di dieci lire, amministrando in proprio le meno se e gli spacci alimentari e organizzando "scuole" e biblioteche. essi riuscirono a salvaguardarsi dall' abbrutimento. Poi, con il di mezzamenro. del sussidio governativo avutosi dalla fine del 1930.e con la revoca di vari "privilegi", le condizioni di vita dei confinati peggiorarono a dismisura.
Ma, al di là dei problemi legati alla soddisfazione dei bisogni primari e alte tristi condizioni igienico-sanitarie (a una confinata di Ustica venne amputata una gamba per la mancanza delle appropriate cure mediche), pesarono sempre molto sui deportati il clima di continua incertezza e la consapevolezza di trovarsi alla merce dell'umore delle forze di polizia, soprattutto della milizia che - in base alla sua funzione politico. repressiva - si sentiva in dovere di far rispettare non tanto l'ordine in senso lato, ma piuttosto l'ordine fascista. «Meglio forse la prigione» affermava Carlo Rosselli nel 1929, dopo sei mesi di permanenza al confino di Lipari. «In una cella l'impossibilità di fuggire è evidente c il sacrificio più netto. Il confino è una cella senza muri, tutta cielo e mare: funzionano da muri le pattuglie dei militi. Muri di carne e ossa non di calce e di pietra. La voglia di scavalcarli diventa ossessionante».
Più tardi, in concomitanza col suo ingresso nella seconda guerra mondiale, l'Italia fascista adottò una nuova misura di deportazione. l"'internamento", sia nei confronti dei civili nemici presenti nel Regno. sia di quanti altri, italiani o stranieri, fossero ritenuti pericolosi o indesiderabili durante lo stato di guerra, Con !'internamento degli stranieri, il governo fascista perseguì principalmente quattro obiettivi: tutelare la sicurezza militare; evitare lo spionaggio; impedire
l'intelligenza con gli oppositori politici interni; bloccare il rientro in patria dei cittadini nemici "atti a portare le armi", prevenendone in tal modo l'arruolamento1. L'internamento degli italiani, che ufficialmente perseguiva finalità di sicurezza pubblica, venne in realtà utilizzato (parallelamente all'istituto del confino) come "misura preventiva" per tenere a bada e reprimere il dissenso politico vero o presunto.2Esisteva perciò, per i civili internati dall'Italia fascista, una netta ripartizione di status tra quanti erano stati fermati in base alla legislazione di guerra e quanti lo erano stati in riferimento alle norme di pubblica sicurezza. Anche la modalità pratica dell'internamento – per entrambe le categorie degli internati - si esplicava attraverso due opzioni.
1. L"'internamento libero", che obbligava a risiedere in particolari località (generalmente centri piccoli e disagiati, dove il controllo risultava perciò facilitato) nelle quali l'internato aveva come principali obblighi quelli di non oltrepassare il previsto "limite di confino", di presentarsi alle autorità per i controlli giornalieri e di non intrattenere rapporti con la popolazione locale,
2.
L"'internamento nei campi", la forma più rigida, che costringeva in un ambito ben circoscritto (un apposito edificio o, più di rado, un vero campo con baracche), vietato al resto della popolazione, dove l'internato viveva tra una comunità di persone che si trovavano nella sua stessa condizione.L'internamento dei civili e il funzionamento dei campi loro riservati erano di competenza del Ministero dell'interno, .cosi come lo fu il confino di polizia, in vigore anche durante la guerra. Del resto, l'internamento ricalcava dal confino buona parte dell'impianto normativo e organizzativo; l'unica vera novità da esso introdotta fu l'utilizzazione, al
posto delle "colonie", di quarantadue "campi di concentramento" non insulari. Ma anche sei delle vecchie colonie poste sulle isole (alcune dismesse da tempo, altre ancora in attività) vennero riclassificate, del tutto o in parte, quali "campi di concentramento",Le leggi razziste e antisemite degli anni 1938 e seguenti non ebbero formalmente alcun riferimento alla pratica dell'internamento civile, intrapresa, del resto, solo nel giugno 1940. Tuttavia, per gli ebrei stranieri" (espressione con la quale, allora, la burocrazia italiana definiva gli israeliti provenienti dagli stati ufficialmente antisemiti), i provvedimenti del periodo bellico relativi all'internamento finirono per interagite con quelli della precedente legislazione razzista (in particolare con i decreti-legge del 7 settembre 1938 n. 1381 e del 17 novembre 1938 n. 1728), vietando loro l'ingresso e la permanenza in Italia, Il 20 maggio 1940 infatti - come ha chiarito Klaus Voigt - il Ministero dell'interno ordinava ai prefetti che anche gli ebrei non italiani venissero inclusi tra i sudditi nemici da internare, mentre il 15 giugno 1940 il capo della polizia emanava l'ordine di procedere al rastrellamento degli «ebrei stranieri appartenenti a stati che fanno politica razziale», nonché degli apolidi «compresi tra i diciotto e i sessant'anni» (circolare n. 443/45626), Una successiva disposizione del 27 giugno prevedeva che gli uomini fossero internati in «appositi campi di concentramento già in allestimento», e che donne e bambini ebrei. entro un certo limite di tempo, si recassero presso le previste prefetture per .essere avviati all"'internamento libero". L'internamento nei campi, per loro, sarebbe avvenuto in un secondo tempo.
A fianco dell'internamento ufficiale e "regolare" gestito dal Ministero dell'interno (quello sin qui descritto), l'Italia fascista .ne espresse uno "selvaggio", messo in atto dalle proprie forze armate. Tale strumento si realizzò, per la sua gran parte, nei territori del regno di Jugoslavia occupati o annessi in seguito all'invasione nazifascista del 6 aprile 1941. In quelle zone - si vedano. in particolare, gli studi di Enzo Collotti, Tone Ferenc, Teodoro Sala e Giacomo Scotti -, nel quadro di un'occupazione violenta e dalle connotazioni esplicitamente razziste, l'esercito italiano e, in misura minore, le autorità, civili di occupazione, fecero frequente ricorso a metodi tipicamente nazisti, quali l'incendio di villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione in massa della popolazione in speciali campi di concentramento."
Nei territori jugoslavi, oltre all'obiettivo di allontanare dalle principali località nuclei consistenti di civili suscettibili di aiutare i partigiani o di prendere le armi contro gli italiani, il provvedimento d'internamento perseguiva quello - certamente non secondario - della "sbalcanizzazione" dei territori. Questo vecchio proposito fascista (che oggi diremmo di pulizia etnica), nella Slovenia occupata e annessa all'Italia come "provincia", si pensò di realizzarlo attraverso la sostituzione delle popolazioni autoctone con coloni italiani, provenienti da lontane regioni del Regno.
Nel Montenegro le deportazioni dei civili vennero avviate sin dal luglio 1941, nel quadro di quella" carta bianca" concessa, di fatto, dai comandi militari superiori ai vari reparti per ottenere maggiore durezza repressiva nei confronti dell'insurrezione popolare. Nelle altre regioni della Jugoslavia ciò avvenne in misura consistente a partire dal gennaio 1942, momento in cui il potere dell'esercito divenne pressoché assoluto. e i suoi vertici indicarono, tra le prime misure da adottare, l"internamento totalitario" delle popolazioni locali.
Nella famigerata "Circolare 3 C", emanata il l' marzo 1942, il generale Mario Roatta, comandante della II armata, delineò la summa tattico-operativa del comportamento delle truppe e dell'atteggiamento da tenere"verso le popolazioni sottomesse. La circolare - che in parte ricalcava misure già in vigore nel Montenegro sin dal luglio 1941, e in parte anticipava quelle adottate dal Feldmaresciallo Albert Kesselring nel 1944 per stroncare la Resistenza italiana - sarebbe divenuta la principale pezza d'appoggio in base alla quale, nel dopoguerra, la Jugoslavia avrebbe chiesto all'Italia l’estradizione per crimini, di guerra dello lo stesso generale Roatta. È in quel testo che si rinvengono le prime disposizioni scritte sull'internamento manu militari, configurato come provvedimento di primaria importanza nel quadro della lotta volta a stroncare la rivolta popolare jugoslava. Le direttive di Roatta prevedevano, nelle zone di' operazione, la deportazione di interi gruppi sociali e professionali "pericolosi", comprese quelle famiglie dalle quali, "senza chiaro motivo", risultassero assenti componenti di sesso maschile di età compresa tra i sedici e i sessant'anni. In primo luogo l'internamento era previsto pér operai, disoccupati, profughi, senza tetto, ex militari. frequentatori di dormitori pubblici, studenti disoccupati, persone senza famiglia, studenti universitari, maestri, impiegati, professionisti, operai, ex militari italiani trasferitisi in ]ugoslavia dalla Venezia Giulia dopo l'avvento del fascismo e, infine, per i "simpatizzanti del movimento partigiano". La stessa sorte (con in più la confisca del bestiame e la distruzione delle abitazioni) sarebbe toccata agli abitanti delle case prossime ai luoghi in cui venivano attuati dei sabotaggi, a meno che, entro quarantotto ore dall'attentato, non fossero stati identificati i responsabili. Quanto alle persone da internare, una prima codificazione comprendeva gli uomini dai sedici ai sessant'anni, ma questo limite venne presto superato, e il provvedimento fu esteso anche alle donne e ai bambini. Al contempo, la prevista demarcazione tra internamento "protettivo", "precauzionale" e "repressivo" diveniva sempre più labile e di fatto, difficilmente individuabile.
Durante la seconda guerra mondiale, campi per l'internamento dei civili vennero realizzati dall'Italia sia nei vecchi confini del Regno che nei territori occupati o annessi. Nella penisola funzionarono campi di due tipi: quelli sottoposti al Ministero dell'interno, destinati ai vari gruppi di "internati civili di guerra"; e quelli di pertinenza del Regio esercito. che accoglievano deportati civili jugoslavi. Entrambi furono accomunati dalla denominazione ufficiale di "campi di concentramento", qualifica che ritengo attribuibile alle sole Strutture ad amministrazione militare e non a quelle controllate dal Ministero dell'interno, da denominare, più appropriatamente, "campi di internamento", quali effettivamente essi furono,
Generalmente attrezzati in edifici preesistenti (ville, castelli, opifici. E conventi, scuole. normali abitazioni ecc.), i campi del Ministero dell'interno, nella maggior parte dei casi, ebbero una capienza media di centocinquanta posti e una dislocazione geografica che ha interessato quasi esclusivamente il Centro-Sud del1a penisola. In Toscana i campi d'internamento furono tre: Bagno a Ripoli. Montalbano di Rovezzano e Oliveto di Civitella della Chiana, Nelle Marche sei: Sassoferrato, Fabriano. Urbisaglia, Treia. Petriolo e Pollenza, In Umbria un campo del Ministero dell'interno operò a Colfiorito di Foligno. mentre nel Lazio vennero utilizzati l'ex colonia di Ponza. quella ancora attiva di Ventotene e, in scarsa misura, il "centro di lavoro" 'per confinati di Castel di Guido; campi con baraccamenti, di notevoli dimensioni, sorsero invece alle Fraschette di Alatri e a Castelnuovo di Farfa, In Abruzzo.Molise i campi furono diciannove: Civitella del Tronto. Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Tortoreto, Tossicia, Notaresco, Città Sant'Angelo, Chieti, Casoli, Marina di Istorio, Lama dei Peligni. Lanciano, Tollo, , Agnone, Boiano. Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo, Quattro in Campania: Ariano Irpino. Monteforte Irpino, Solfora e Campagna. Anche i campi pugliesi furono quattro ed ebbero sede a Manfredonia, Alberobello, Gioia del Colle e nella colonia confinaria delle Tremiti. In Lucania svolse anche funzione di campo di concentramento la colonia di Pisticci, mentre in Calabria venne costruito un campo ad boe a Ferramonti, non lontano da Cosenza, In Sicilia, infine, furono appositamente riconvertiti i locali delle ex colonie di Ustica e di Lipari, mentre nell'Emilia-Romagna funzionarono gli unici due campi d'internamento dell'Italia settentrionale: Montechiarugolo e Scipione di Salsomaggiore.
I campi di pertinenza dell'autorità militare vennero attrezzati in baraccamenti. tendopoli o caserme, ed ebbero in genere come modello di riferimento le strutture di concentramento per prigionieri di guerra utilizzate dall'esercito, Per il movimento degli internati, i campi situati in Italia dipendevano dalle armate dislocate nei territori di occupazione (in particolare dalla Seconda con sede a Susak), per i restanti aspetti essi erano subordinati ai comandi delle regioni militari territoriali nelle quali avevano sede. Nell'aprile 1943, in verità, Mussolini aveva sancito che i campi a gestione militare ubicati nei vecchi confini del Regno - con l'esclusione di quello di Visco - dovevano essere trasferiti sotto !e competenze del Ministero dell'interno. Di fatto, però, tale cambio di consegne non è mai avvenuto.
I campi ad amministrazione militare dislocati in Italia, al contrario di quelli del Ministero dell'interno, avevano una localizzazione centro settentrionale, con netta prevalenza nelle regioni del Nord Est. Ciò fu determinato dalla particolare vicinanza di quelle aree al confine con la Jugoslavia e dal fatto che, all'epoca della loro istituzione, le regioni meridionali del paese non erano più considerate "distanti" dal fronte come lo erano state due anni prima. Tra i campi di questo tipo, quello dalle maggiori dimensioni ospitava mediamente 5000 civili sloveni e croati operò, dal marzo 1942, a Gonars (in provincia di Udine), dove, in un anno e mezzo di attività, persero la vita più di 400 deportati. Nel luglio 1942, due campi di circa 3000 e 4000 posti furono attrezzati in altrettante caserme dell'esercito a Monigo di Treviso e a Chiesanuova di Padova. Tra i11942 e il 1943, altri due enormi campi di concentramento vennero istituiti a Renicci di Anghiari, in provincia di Arezzo (dal settembre 1942), e a Visco, allora in provincia di Trieste (dal gennaio 1943), Dal gennaio 1943, dopo essere stato ingrandito e risistemato; venne utilizzato per i deportati montenegrini il campo di Colfiorito, in Umbria, che sino alla fine del 1940 aveva operato come luogo d'internamento alle dipendenze del Ministero dell'interno. Nello stesso periodo veniva destinato agli "allogeni" della Venezia Giulia (come venivano indicati, con disprezzo, gli appartenenti alle minoranze slovena e croata che il fascismo, per anni, cercò rozzamente di italianizzare) l'ex campo per prigionieri di guerra n. 93, sito a Cairo Montenotte (Savona). Due campi di transito per "allogeni", capaci di circa 250 posti ciascuno, furono attivi 'dall'ottobre 1942 a Gorizia e nella vicina Poggio Terza Armata. Ubicate in un vecchio convento e in un ex stabilimento tessile. le due strutture erano a disposizione delle questure di Gorizia e di Trieste, che le utilizzavano come prigioni sussidiarie. A Tavernelle (Perugia), Fossalon di Grado (Gorizia), e Fertilia (Sassari) funzionarono, per alcuni periodi, dei campi di lavoro per internati civili sloveni e croati.
In territorio jugoslavo, sull'isola di Arbe (Rab), da poco tempo annessa all'Italia, nel luglio 1942 venne avviato l' allestimento di un campo di concentramento che - con i 16000 posti preventivati - avrebbe dovuto contribuire in modo sostanziale al previsto "sgombero totalitario" delle popolazioni slave della provincia di Lubiana, del Fiumano e del distretto di Abar. Nel campo di Arbe, per le pessime condizioni igienico
-sanitarie, la carenza di cibo e la mancanza di tutela o assistenza internazionale, sino al settembre 1943, persero la vita non meno di 1400 deportati, in maggioranza sloveni. Tra il 20 maggio e il 10 luglio 1943, in un settore del campo vennero internati protettivamente 2700 ebrei jugoslavi c di altre nazionalità, che precedentemente risiedevano o si erano rifugiati nelle zone della Jugoslavia controllate dall'esercito italiano.Nella regione di Fiume (Rijeka), i principali campi italiani funzionarono a Buccari (Bakar), a Portorè (Kraljevica) e nella stessa città di Fiume. Il grande lager della Dalmazia, che arrivò a contenere 3500 persone, venne allestito dal Governatorato nel giugno 1942 sull'isola di Melada (Molat): in un anno di attività, per la fame, gli stenti e le esecuzioni per rappresaglia degli ostaggi di sesso maschile, vi persero la vita centinaia di internati. Campi di minori dimensioni erano stati istituiti precedentemente dalle prefetture dalmate a Vodice, Osljak, Z!arin, Divulje. Uljan e in altre località.
In Montenegro i principali campi italiani furono allestiti a Bar. Prevlaka e Mamula. Ma molti montenegrini venivano deportati in Italia o nei campi albanesi di Kukes, Klos, Germ_n, Kavaje. Dalla Macedonia occidentale, ormai parte integrante della "Grande Albania", i civili venivano deportati nel campo di Porto Romano, allestito dagli italiani nei pressi di Durazzo. Nelle vicinanze di questa città funzionò anche il campo di Shijak. In Albania, altri campi italiani operarono a Lushnje, Pristina, Prizren, Puke, Scutari e Berat.
Anche in Grecia, in sostanza, gli occupanti italiani consideravano gli abitanti quali appartenenti a una razza inferiore; tuttavia come confermano gli studi di Davide Rodogno - inizialmente le truppe in grigioverde venivano richiamate all'ideale della" giustizia romana" e al rispetto degli autoctoni. Ma, non appena la Resistenza locale cominciò a dimostrare la sua determinazione, la "giustizia" e l"umanità" delle truppe di Mussolini lasciarono il posto alla brutalità della repressione.
Il campo di concentramento italiano più temuto fu quello di Larissa, in Tessaglia. Tra gli internati civili (la struttura ospitava anche prigionieri di guerra) la mortalità per malnutrizione, malaria c tubercolosi fu altissima. Dei 1100 reclusi, per la gran parte cretesi, arrestati durante la grande manifestazione di protesta svoltasi ad Atene il 16 luglio 1941, circa la metà vi perse la vita. Molti erano i civili trattenuti nel campo come ostaggi: il 6 giugno 1943, gli italiani eliminarono per rappresaglia 106 di loro. Triste ricordo conservano anche i campi italiani di Vanitsa, Corfù, Tdkala, Fanos e Nauplia. strutture "miste" che accolsero sia prigionieri di guerra che internati civili. In alcune zone della Grecia, gli italiani "internavano" i civili soprattutto nelle carceri comuni (tipico fu il caso delle prigioni di Volo), mentre nelle aree sottoposte dalle forze
armate a speciali cicli operativi, spesso venivano impiantati campi temporanei. Una struttura del genere, capace di ben 1700 persone, operò nell'ottobre 1942 a Tebe, in Attica; un' altra, di dimensioni minori, operò a Kahivryta, nel Peloponneso.Nelle isole ionie funzionò il campo di concentramento di Paxos, affiancato da "sottocampi" dislocati a Othoni e Lazarati. Le tre strutture ospitarono circa 3500 "internati politici" greci, nonché, per alcuni periodi, alcune centinaia di "sudditi nemici" inglesi e russi. Secondo varie testimonianze, in quei campi gli italiani praticarono sugli internati diverse forme di tortura fisica: dall'olio bollente versato sulle ferite, agli spilli conficcati sotto le unghie, al gonfiaggio degli intestini con pompe pneumatiche.
Sino all'8settembre 1943, nelle zone di occupazione italiana in Grecia, non si ebbero internamenti di ebrei residenti o ivi rifugiatisi, come era stato precedentemente ipotizzato. In un periodo in cui l'attività dei partigiani diveniva sempre più intensa e pericolosa, i comandi militari italiani non ritennero di dover sprecare uomini e mezzi per internare civili che, oggettivamente, non costituivano alcun problema per l'ordine pubblico.
Nelle zone della Francia occupate dalle truppe italiane, le repressioni in stile balcanico furono piuttosto eccezionali; tuttavia non mancarono le deportazioni e gli internamenti della popolazione civile. I principali campi di concentramento italiani, gestiti dalla IV armata, ebbero sede a Sospello (Sospell), Embrun, Modane e Cais. In Corsica importanti centri d'internamento vennero attivati a Prunelli di Fiumorbo, a Pontenuova e a Corte.
Il campo di Sospello (città del dipartimento delle Alpi Marittime), capace di circa 1000 posti, fu attrezzato in una caserma e accolse prigionieri politici e resistenti francesi, ma soprattutto civili stranieri. Nel maggio 1943. vi transitarono 400 ebrei stranieri in attesa di essere avviati al cosiddetto" internamento libero". Il campo di Modane (nel dipartimento della Savoia), che operò tra il maggio e il settembre del 1943, fu insediato nel vecchio forte Vittorio Emanuele c accolse resistenti francesi arrestati nel Nizzardo e nei dipartimenti limitrofi in seguito agli eccezionali rastrellamenti effettuati dai soldati italiani tra il 6 e li 10 maggio di quell’anno. Nel campo il personale di custodia era composto da carabinieri, alpini e bersaglieri. I prigionieri considerati particolarmente pericolosi, dopo poco tempo, venivano trasferiti nel campo di EmbrUn (nelle Alte Alpi). Situato anch'esso in una caserma, questo campo funzionò dal maggio 1943 e, dopo 1'8 settembre, la maggior parte dei suoi internati venne catturata dai tedeschi.
In seguito al colpo di stato che defenestrò Mussolini, il 29 luglio 1943 . il governo di Pietro Badoglio dispose la liberazione degli internati di
nazionalità italiana, con l'esclusione di alcune categorie di "politici" e degli "allogeni" della Venezia Giulia. Per non irritare gli alleati tedeschi, tuttavia. il nuovo governo non revocò l'internamento degli stranieri né la legislazione razziale. Soltanto dopo 1'8 settembre 1943, costretto dalle condizioni d'armistizio stipulate tra le potenze alleate e il Regno d'Italia (l'articolo 3 prevedeva l'immediata liberazione di tutti gli internati), il capo della polizia Carmine Senise dispose anche il rilascio degli stranieri. Ma l'atto, avvenuto il 10 settembre, giunse a destinazione quando ormai molti campi fascisti (sia in Italia che all'estero) si erano svuotati da sé, per fuga o rivolta degli internati, oppure erano caduti nelle mani dei tedeschi. Tra gli internati che erano riusciti a guadagnarsi la libertà, molti si unirono ai partigiani, scrivendo alcune pagine eroiche della Resistenza al nazifascismo.L'internamento a Ferramonti. a Campagna e in altri campi dell'Italia meridionale, oggettivamente. sa1vò la vita a molti ebrei stranieri, sottraendoli, dopo il settembre 1943, alle razzie dei tedeschi e dei "repubblichini", Per questo. dai rapporti testimoniali di questa categoria di ex internati, molto spesso, emerge un ricordo particolarmente positivo dell'internamento in Italia.
Nell'Italia centro-settentrionale, sottoposta al controllo militare tedesco, la Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò abolì l'istituto del confino, mentre ripristinò l'internamento civile, accentuandone la componente punitiva, rivolta soprattutto verso i sospetti "in linea politica" e i renitenti alla leva. Inizialmente il governo di Salò si servì di alcuni vecchi campi del Ministero dell'interno; alla fine di novembre, ne funzionavano ancora dodici: Fraschette, Scipione, Bagno a Ripoli, Montalbano, Civitella della Chiana, Fabriano, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco e Tossicia, per una capienza complessiva di circa 1700 posti. Nel corso del 1944, nuovi campi furono aperti a Pian di Coreglia (Genova), Vallecrosia (Imperia), Celle. Ligure (Savona) e Cortemaggiore (Piacenza), portando la capienza delle strutture d'internamento della RRI a oltre 8000 posti.
Con l'approvazione della Carta di Verona, avvenuta il 14 novembre 1943, che al suo settimo punto legittimava, di fatto, lo sterminio degli ebrei, nella RSI l'internamento ebraico venne finalizzato alla deportazione nei lager nazisti. Difatti, il 1 dicembre 1943, l'ordinanza n. 5 del ministro dcll'interno di Salò disponeva l'arresto e l'avvio in appositi "campi provinciali" di tutti gli ebrei, italiani o stranieri, comunque residenti sul territorio della RST. I campi provinciali erano centri di transito di breve durata, posti alle dipendenze delle varie questure. Alcuni di essi si insediarono in strutture d'internamento già esistenti, come nel caso di Bagno a Ripoli e Scipione. Di nuovi ne vennero allestiti ad Aosta, Asti,
Bagni di Lucca, Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Calvari di Chiavari (Genova), Ferrara, Forlì, Mantova, Monticelli Terme (Parma), Perugia, Reggio Emilia. Roccatederighi (Grosseto), Sondrio, Teramo, Piani di Tonezza (Vicenza), Vercelli, Verona, Vò Vecchio (Padova). In provincia di Ascoli Piceno, per ordine del locale comando tedesco, gli ebrei erano stati arrestati dal questore già dall'ottobre 1943, e vennero internati nell'ex campo per prigionieri di guerra n. 59, ubicato a Servigliano Marche.Il "campo nazionale" della RSI, al quale venivano fatti affluire gli internati ebrei provenienti dai vari campi provinciali, iniziò la sua attività nel dicembre 1943 a .Fossoli di Carpi, in provincia di Modena, nell'ambito del campo per prigionieri di guerra n. 73, costruito dall'esercito italiano nel. 1942 e capace di circa 5000 posti. L'ubicazione di Fossoli, al centro della pianura Padana e sulla linea ferroviaria per il Brennero, era particolarmente favorevole per la raccolta di prigionieri e per la loro deportazione nei lager del Terzo Reich. Il vecchio campo, svuotato dei prigionieri di guerra trasferiti in Germania, rimase sotto gestione italiana e fu utilizzato per internati civili "ariani" non destinati alla deportazione. La struttura venne quindi allargata con l'aggiunta di un "campo nuovo" che, dal 15 marzo 1944. fu direttamente sottoposto a comando tedesco. Con la sua,istituzione. anche l'Italia, come tanti altri paesi europei, veniva provvista di un campo unico di transito per gli ebrei destinati alla "soluzione finale"; ma, in settori separati, la struttura detentiva carpigiana accolse anche internati politici diretti nei Konzentrationslager. Sino alla sua evacuazione, avvenuta alla fine del luglio 1944; dal campo di Fossoli passarono complessivamente circa 5000 internati. Sul territorio della RS1 operarono inoltre in quegli anni innumerevoli campi di smistamento per civili destinati al lavoro coatto, nonché Stalag di transito per i soldati italiani deportati in Germania come "internati militari".
. Quantunque, nella seconda guerra mondiale, l'Italia fascista definisse "campi di "concentramento" tutti quanti i suoi stabilimenti .destinati all'internamento di civili, tra un campo e l'altro le differenze furono assai marcate. Non soltanto per la diversità degli edifici, ma per vari e sostanziali aspetti relativi alle condizioni di vita e allo status degli internati. Una fondamentale linea di demarcazione tra le diverse strutture, come già detto, era costituita dalla diversa appartenenza amministrativa dei campi italiani. Ma anche all'interno di questa differenziazione di fondo vi furono altre diversità.
Tra i vari campi del Ministero dell'interno le differenze erano marcate e variavano nel tempo. In. generale, la vita nei campi d'internamento minori (ubicati in strutture concepite per altri usi e, quindi, prive di particolari infrastrutture di tipo detentivo) non era tanto dissimile da quella del cosiddetto internamento libero. Diversamente stavano le
cose nei campi d'internamento maggiori, nei quali la condizione di vita degli internati era abbastanza vicina a uno stato di carcerazione.Fossero concentrati nei campi, o costretti al domicilio obbligato, i civili internati dal Ministero dell'interno non furono vittime di violenze premeditate. Peraltro, alcuni episodi di schiaffeggiamenti da parte del personale di custodia furono sempre disapprovati dalle autorità superiori. I carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza erano, in genere più corretti verso gli internati; diverso atteggiamento avevano i membri della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. che tendevano a inveire contro gli antifascisti, gli "slavi" e gli ebrei. Fino all'8 settembre 1943, neppure gli "ebrei stranieri", quantunque bollati come "elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari", furono sottoposti a misure persecutorie particolari, tant'è che le stesse organizzazioni ebraiche italiane, dopo le prime reazioni piuttosto allarmate, finirono presto per tranquillizzarsi in merito alla condizione d'internamento, Per esempio, nel campo di Ferramonti (principale luogo d'internamento di ebrei stranieri e apolidi, il tasso medio di mortalità non si discostò da quello dei paesi del circondario, e il comportamento delle autorità fu piuttosto tollerante. Tuttavia, per i diretti interessati, quella condizione fu sicuramente difficile, sia per l'incertezza del futuro che per il timore, mai sopito, di vedersi riconsegnare ai tedeschi.
Inizialmente, il sussidio di lire 6,50 fornito dal Ministero dell'interno agli internati indigenti consentiva loro di procurarsi un vitto accettabile, poiché, sul cliché di quanto sperimentato nelle colonie di confino, anche nei campi maggiori erano state realizzate delle mense cooperative che permettevano notevoli risparmi e controllo nell'acquisto delle derrate alimentari. Tuttavia il soggiorno nei campi, come scrisse uno dei primi internati, "se materialmente non era terribile, spiritualmente rappresentava una sofferenza per i disagi morali e le preoccupazioni per l'avvenire". Ma dalla fine del 1941 la penuria alimentare cominciò ad incalzare, soprattutto per quanti erano internati nei campi più grandi e avevano perciò minori occasioni di scambio con la gente del luogo e di approccio col mercato nero. Nell'inverno 1942-1943, infine. fame e malnutrizione interessavano la quasi totalità degli internati. Poteva succedere, quindi, come si legge nel rapporto di un ispettore ministeriale del 17 febbraio 1943, che alcuni internati commettessero intenzionalmente infrazioni per essere rinchiusi in carcere, dove almeno avrebbero trovato una sicura razione di pane, oppure che essi si cibassero delle carni di cani randagi per difendersi dai morsi della fame.
D'altra parte, i campi gestiti dalle autorità militari presentavano quasi tutti dimensioni considerevoli e, salvo poche eccezioni. costringevano i deportati (che non disponevano di alcun sussidio) a un sistema di
detenzione rigoroso e a dure condizioni di vita. Nel campo di concentramento di Renicci (una delle principali strutture di questo tipo tra quelle ubicate in Italia) la lotta per la sopravvivenza fu quasi costantemente all'ordine del giorno: nel breve volgere di un anno vi persero la vita, per fame e per stenti, oltre 150 deportati jugoslavi. Nel campo italiano posto sull'isola di Arbe (anch'esso amministrato dall'esercito), negli ultimi mesi del 1942, la mancanza di cibo era così grave e diffusa che anche gli internati più giovani e io pieno vigore fisico subivano in poco tempo il dimezzamento del peso corporeo. Era scena consueta, in quel luogo, l'immagine di centinaia di figure scheletriche che, sfinite dalla fame, si trascinavano nell'improbabile ricerca di qualcosa da mangiare. Il campo di concentramento di Melada, dipendente dal Governatorato della Dalmazia, venne definito "un sepolcro di viventi" dal vescovo cattolico di Sebenico; affermazione tutt'altro che metaforica, se si considera che - stando a un rapporto dello stesso direttore del campo- nel solo periodo che va dal 30 giugno al 25 novembre 1942 vi persero la vita 442 internati.Arthur Koesder, per dare un'idea delle condizioni di vita nei campi di concentramento non nazisti, ha immaginato un'unità di riferimento della quale il campo francese di Le Vernet d'Ariège (dov'egli fu recluso nel 1939) costituiva "lo zero dell'ignominia". Prendendo a misura l'ipotetica scala di Koesder, si può dire che i campi italiani gestiti dal Ministero dell'interno non sconfinarono mai nel "sottozero" mentre sconfinano. abbondantemente i campi allestiti dall'esercito italiano in Jugoslavia, in Albania e in Grecia, e anche qualcuno di quelli ubicati nei vecchi confini del Regno d'Italia, dove, in alcuni periodi, lo scenario quotidiano era dominato dalla lotta per la sopravvivenza e dalla morte dei deportati per la fame e le terribili condizioni igienico sanitarie.
Dell'intero capitolo relativo all'internamento fascista durante la seconda guerra mondiale, la parte a gestione militare fu quella numericamente più significativa (furono circa 100000 i civili jugoslavi deportati) e, sul piano del diritto, la meno giustificabile. Per via delle dure condizioni di vita degli internati, a essa furono addebitate reiterate violazioni del diritto internazionale bellico e dello stesso codice penale militare di guerra italiano. Non a caso, alla fine del conflitto, i principali responsabili e organizzatori dei campi di concentramento e del sistema di deportazione impiantato dall'esercito italiano (tra i primi, il generale Mario Roatta, solitamente ricordato come "protettore di ebrei"), vennero additati come criminali di guerra. E, quantunque la mancanza di una "Norimberga italiana" abbia fatto sì che le accuse di "internamento in condizioni disumane", come quelle relative ad altri crimini, inoltrate alle apposite commissioni internazionali dal governo jugoslavo e da quello di altre nazioni aggredite dall'Italia, siano cadute praticamente nel vuoto. è innegabile che buona parte di quegli internamenti di massa siano più assimilabili alle deportazioni arbitrarie e ai crimini di guerra che non alle tradizionali misure discrezionali adottabili, nel corso di un conflitto, nei confronti della popolazione civile.
Si può affermare quindi che l'assunto del decreto del duce del 4 settembre 1940 sul trattamento degli internati - che, riecheggiando la convenzione di Ginevra. li voleva «trattati con umanità e protetti contro ogni offesa» - venne sostanzialmente rispettato nei campi del Ministero dell'interno, ma quasi mai in quelli di competenza del Regio esercito.
La collocazione extra legem di queste ultime strutture appare del tutto evidente, se si considera inoltre che ai civili jugoslavi internati, definiti "italiani per diritto di annessione", l'Italia negò anche lo status di "sudditi nemici". Così come, in buona parte, negò quello di prigionieri di guerra ai componenti del disciolto esercito jugoslavo, rastrellati e internati dopo la conclusione delle operazioni belliche vere e proprie. In tal modo i civili jugoslavi vennero privati, sin oltre la caduta del regime fascista, persino del supporto delle organizzazioni umanitarie. Soltanto il 19 agosto 1943 il Ministero degli esteri concesse al comitato internazionale della Croce rossa la possibilità di assistere i civili ex jugoslavi internati in Italia, a condizione che tale atto non avesse «carattere ufficiale de jure, ma soltanto di pratica e umanitaria azione di soccorso».
Parlando dei campi fascisti, una questione appare ineludibile: quella del "vuoto di memoria" che ha accompagnato quei fatti per così lungo tempo nel dopoguerra; gli italiani "brava gente" si sono adagiati per anni nella presunzione che i campi di concentramento li riguardassero solo in quanto vittime, e non anche nel ruolo attivo di deportatori e costruttori di lager..cosicché quella realtà è rimasta sostanzialmente estranea alla memoria pubblica nazionale del dopoguerra.
Diversamente che in Germania, dove la riflessione e l'elaborazione sulle responsabilità del nazismo hanno interessato profondamente larghi settori della società, in Italia i conti col passato sono stati fatti in misura molto trascurabile. Peraltro, l'eccessiva insistenza sul radicamento sociale della Resistenza - come sottolinea Anna Bravo - «ha finito per avvalorare l'idea di un popolo unanimemente antinazista e perciò riabilitato in massa. Un popolo nella sostanza incolpevole, quando non vittima».
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, le cause di una rimozione tanto forte e generalizzata sono molteplici: alcune specifiche dell’internamento, altre di tipo più generale che si sovrappongono e si confondono con la questione ben più ampia della mancata elaborazione del passato fascista e coloniale italiano. Tra le prime cause c'è sicuramente la "relativizzazione" dell'internamento civile determinatasi (non soltanto in Italia) al cospetto dell'universo concentrazionario nazista. La particolare
efferatezza dei crimini commessi dai tedeschi, la drammatica forza emotiva di Auschwitz fornivano un alibi assai comodo per relativizzare e sminuire le responsabilità dell'Italia fascista di fronte all'alleato tedesco.Va poi considerato l'oggettivo interesse degli Alleati a "non colpevolizzare". alla fine della guerra, un 'Italia ormai entrata a far parte della loro orbita politico-strategica. Interesse che ha determinato, di fatto, la mancata condanna dei criminali di guerra italiani e ha ridotto a un'operazione di facciata l'epurazione del personale civile e militare coinvolto col vecchio regime. Si favorivano così l'affermarsi nel nostro paese di un senso comune largamente autoassolutorio e di una rappresentazione oltremodo "rassicurante" della storia italiana del Novecento.
Tutto ciò è potuto accadere, d'altro canto. anche perché la storiografia dominante è rimasta lungamente appiattita su una visione della seconda guerra mondiale nella quale la centralità dell'evento politico-militare della Resistenza lasciava poco spazio a esperienze diverse quali le dcportazioni, l'internamento, la Shoah e altro. E anche perché - come giustamente rammenta Alberto Cavaglion - venti-trent'anni fa non si era ancora capito quali e quanti baratri si sarebbero potuti aprire a causa degli eccessi della "memoria ideologica".
Certo, la costruzione di un'identità nazionale realmente aperta e consapevole è .compito che non spetta solamente agli storici, ma è innegabile che essi, per dirla con Claudio Pavone, possono contribuire notevolmente allo scopo «portando materiali freschi alle nuove sintesi, che la coscienza collettiva va lentamente elaborando».
Sulle probabili cause dei "vuoti di memoria" relativi alle deportazioni civili fasciste. vorrei aggiungere qualche ulteriore riferimento.
Il primo riguarda la tipologia delle strutture fisiche dei campi d'internamento italiani. Se molte di esse sono state distrutte o, comunque, non sono state socialmente riconosciute per il particolare ruolo storico che hanno svolto, ciò si deve anche, e non in piccola misura, al fatto che erano costituite da edifici realizzati per altro scopo e quindi, passata la guerra sono rapidamente tornati alla loro funzione originaria. Durante un'indagine a tappeto che ho compiuto negli anni ottanta, dopo aver completato la mappatura dei campi italiani, ho potuto verificare come, non di rado, gli stessi proprietari o inquilini degli stabili fossero all'oscuro del ruolo particolare avuto durante la guerra dagli edifici da loro successivamente abitati o gestiti.
Una seconda considerazione riguarda invece il cambio di destinazione che le strutture hanno spesso subito nel tempo, pur mantenendo la funzione di luoghi di segregazione. II caso più tipico e frequente è costituito dal "cambio d'uso" tra prigionia di guerra e internamento civile subito dai campi gestiti in Italia dal Regio esercito, che non ha
favorito certamente l'acquisizione di un'appropriata consapevolezza sulla realtà dell'internamento civile fascista. È questo il caso dei campi di Gonars, Cairo Montenotte, Renicci ecc., ma anche, successivamente all'8 settembre 1943, dei campi di Fossoli, Servigliano Marche, Sforzacosta ecc. D'altra parte, la "funzione di disturbo" che il cambio di destinazione ha esercitato 'sulla memoria e non di rado, anche sulla storiografia dei campi è un fenomeno che non si limita certo all'internamento civile e alla prigionia di guerra.L'ho potuto constatare di persona, presso i vari siti, nel corso di tanti viaggi finalizzati a fotografare lo stato di conservazione dei vecchi stabilimenti concentrazionari e a verificare la "consistenza" della memoria a essi riferita. Tra gli abitanti di Alatri, per esempio, la memoria del campo di accoglienza per profughi istriani e dalmati. che ha operato nel dopoguerra nella frazione Fraschette. aveva quasi completamente cancellato quella relativa al precedente campo fascista per internati civili che aveva utilizzato le stesse strutture fisiche. Memorie sovrapposte (e anche confuse) ho riscontrato anche a Civitella della Chiana (Arezzo), dove l'edificio che negli anni trenta aveva ospitato squadre paramilitari ustascia, nel 1940 diventò campo per internati civili di guerra; così come a Lipari, dove, nei cameroni del "castello", sede della vecchia colonia borbonica per coatti. passarono profughi serbi, confinati antifascisti, ustascia croati e internati civili jugoslavi. E molto si potrebbe dire, in tal senso, anche sul campo di Colfiorito, in precedenza sede di confino per deportati albanesi.
Ma la confusione tra i due tipi di campi e di funzioni che ha condizionato notevolmente la memoria (e l'oblio) dell'internamento civile fascista, trae origine anche dalla frequente vicinanza geografica dei campi per internati civili (sia quelli sottoposti al Ministero dell'interno che quelli sottoposti all'amministrazione militare) con i campi per prigionieri di guerra. Il caso più ricorrente è, in questo senso, quello del campo per prigionieri di guerra n. 53. situato a Sforzacosta (nei pressi di Macerata), che non sempre viene distinto dal campo d'internamento di Abbadia di Piastra. attrezzato dal Ministero dell'interno ai confini tra i comuni di Urbisaglia e Tolentino. Una confusione del genere si registra, talvolta, anche tra il campo per prigionieri di guerra n. 54 (sito a Passo Corese) e quello di internamento situato a Castelnuovo. di Farfa (Rieti).
Assai diffusa è anche una confusione che definirei ,di tipo "cronologico", L'errore viene commesso, in tal caso, quando non si fanno le dovute distinzioni tra campi istituiti dal fascismo monarchico nel periodo 1940-1943 (per esempio Ferramonti) e campi attivi durante la Repubblica Sociale Italiana, cioè nel periodo 1943-1945 (per esempio Fossoli). Errore, questo, favorito dal fatto che alcuni campi del fascismo monarchico, quasi senza soluzione di continuità, sono stati acquisiti e
mantenuti in attività dalla RSl. Ma analoga confusione si registra anche in riferimento alle zone occupate dagli Alleati, dove i vecchi campi fascisti per "internati civili di guerra" e quelli realizzati dagli Alleati per displaced persons (è il caso di Ferramonti, di Pisticci, e di alcuni campi pugliesi) si sono succeduti gli uni agli altri, negli stessi edifici, quasi senza soluzione di continuità, Molti testimoni, per esempio, raccontano fatti vissuti nel "campo di Ferramonti", ma chi li ascolta non sempre ha ben chiaro che a Ferramonti, inteso come luogo fisico, tra il 1940 e il 1945, si sono succeduti due tipi di "campi" e che, alla metà di settembre 1943, il campo fascista era stato sciolto.La stratificazione delle funzioni (e delle memorie) subita negli anni dalle strutture d'internamento, del resto, è fenomeno interessante e complesso che non riguarda solo l'Italia: basti pensare, per esempio, ai campi di Mauthausen e Theresienstadt, luoghi di prigionia di guerra della prima guerra mondiale, divenuti importanti stazioni dell'universo concentrazionario hitleriano, Oppure a Buchenwald, che da lager nazista ( 1937 -1945) è stato trasformato in quel " campo speciale" sovietico (1945 -1950) che la Repubblica democratica tedesca aveva deciso di cancellare dalla memoria,
Un'ultima annotazione, per concludere, relativa agli effetti che può produrre l'uso improprio o mistificatorio della terminologia, Sappiamo come dimostra anche, per la Shoah, un recente studio di Anna-Vera Sullam - che i nomi non si limitano solo a definire i fenomeni, ma in qualche modo interagiscono con essi e talvolta li prevaricano. Così com'è stato per altre vicende storiche, anche per l'internamento civile fascista l'analisi dell'uso improprio della terminologia può aiutare a comprendere più compiutamente i meccanismi che hanno portato alla rimozione. Questo convincimento è avvalorato anche dalla mia esperienza personale.
Ricordo che. negli anni ottanta, nel corso delle ricerche relative al campo di Renicci, mi ,colpiva il fatto che gli anziani del luogo che ricordavano quella struttura e sapevano facilmente indicarne il sito, nel riferirsi agli "internati civili" di quel campo usavano il termine "prigionieri". È ovvio che, definendo "prigionieri" (abbreviazione di "prigionieri di guerra") i civili stranieri deportati da uno stato dittatoriale aggressore (quali erano, effettivamente, gli jugoslavi internati a Renicci) si finiva con l'inscrivere inconsapevolmente una triste vicenda di deportazione nella "normale" routine dei fatti di guerra.
Vale ricordare ancora che, nel luglio 1930, con riferimento ai campi italiani della Sirtica, Mussolini raccomandava ai suoi generali di evitare accuratamente; nelle comunicazioni e nelle relazioni ufficiali, l'uso del termine "campi di concentramento", e suggeriva di usare, invece, l'espressione "campi di raccolta" o "accampamenti per popolazioni", al
fine di non allarmare le popolazioni locali e, soprattutto, la ,stampa straniera. Infine (ma l'elenco potrebbe continuare), vale segnalare il fatto che la lapide posta nel cosiddetto" cimitero degli arabi", sull'isola di Ustica, indica come" relegati", anziché come" deportati", i 132 infelici lì sepolti, che erano stati scaricati sull'isola, il 29 ottobre 1911, in seguito alla rivolta di Sciara Sciat.
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1 L'internamento dei cittadini di paesi in guerra con l'Italia fu regolato dal "Testo Unico del]e Leggi di guerra e di neutralità" (RDL 8 luglio 1938, n. 1415), che conferiva al Ministero dell'interno e, per estensione, ai prefetti, la facoltà di "disporre l'internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi o che comunque potessero svolgere attività dannosa per lo stato", e demandava a un apposito decreto del duce le modalità di trattamento degli internati. Tali prerogative furono rese effettivamente operanti dal decreto sull'"Applicazione della Legge di guerra nei territori dello stato" (RDL 10 giugno 1940,
n. 566).2 L’internamento per ragioni di pubblica sicurezza divenne possibile equiparando gli individui "pericolosi per la sicurezza pubblica" (le persone, cioè, contemplate dall'art. 181Ad RDL 18 giugno 1931 n. 773, già passibili di provvedimento di confino) ai sudditi delle nazioni in guerra con l'Italia, Questa modalità di internamento fu stabilita,. per legge, dalle "Modificazioni e aggiunte al Testo Unico delle Leggi di P.S. per il periodo dell’attuale stato di guerra (RDL 17 settembre 1940, n. 1374); ma, di fatto, essa veniva utilizzata in via amministrativa già. dal mese di giugno, grazie a due circolari (n, 442/38954, del giugno
1940,: e n. 442/12267 dell'8 giugno 1940) indirizzate al Ministero dell'interno ai prefetti del Regno e al questore di Roma alla vigilia dell'entrata in guerra della nazione.
arlo Spartaco Capogreco insegna Storia Contemporanea all'Università della Calabria ed è presidente della Fondazione internazionale "Ferramonti di TarsiaC"; .Ha pubblicato tra l'altro: Ferramenti. La vita e gli. uomini del più grande campo d’internamento fascista (1940-45), Firenze 1987; Renicci. Un campo di concentramento in riva al Tevere (1942-43), Cosenza 1988; I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista – Einaudi, Torino 2004.
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Per i riferimenti bibliografico-archivistici relativi a questo saggio rimando ,ai miei precedenti scritti: Per una storia dell’internamento civile nell’Italia fascista, in A.L. Parlotti (a.c.di) Italia 1933-1945. Storia e memoria. Vita e pensiero. Milano 1966, pp. 257-579; L’oblio delle deportazioni fasciste: una questione nazionale, in "Nord e Sud", lxv (1999), n.6 pp.92-109; Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’internamento dei covolo jugoslavi, in "Studi storici", XLII (2001) n.1,pp. 204-230: e in particolare a I campi del duce. L’internamento civile fascista nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino (in corso di pubblicazione)