Alberto Cavaglion: Per un Levi mal noto. Cattiva trasmissione / cattiva ricezione
Il breve testo che qui si pubblica uscì come prefazione a un catalogo di fotografie*. La mostra si svolse nel 1987 a Trieste, per iniziativa dell’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei campi di sterminio nazisti) e del Comune di Trieste, Assessorato alle attività culturali con il patrocinio dei Civici Musei di Storia ed Arte. L’introduzione di Levi, deceduto nell’aprile di quell’anno, dunque uscì postuma. Il catalogo reca questo titolo: Rivisitando i Lager. E’ stato pubblicato nel 1987 a Firenze, Idea Books Edizioni, ma una ristampa senza varianti venne fatta nel 1991. Il catalogo comprende fotografie di Raymond Depardon (sul campo di Auschwitz), Jürgen Kahlert e Harald Nadolny (sul campo di Birkenau), Paola Mattioli (sulla Risiera di San Sabba), Bruno Fabello (sul campo di Mauthausen), Markus Hirth e Marion Schwanengel (sul campo di Majdanek). Note informative, didascalie, coordinamento editoriale sono a cura di Teo Ducci. Il volumetto comprende testi introduttivi anche dell’allora Sindaco di Trieste, Franco Richetti e del Presidente dell’ANED Gianfranco Maris.
Il testo che qui si ripropone – per gentile concessione di Renzo Levi – non è compreso fra le “pagine sparse” annesse da Marco Belpoliti ai due volumi di Opere da lui curati per Einaudi (1997), ma non è questa la ragione principale per rileggerlo oggi. Poiché risale agli ultimi anni dello scrittore torinese, presenta non poche assonanze con i ragionamenti svolti nell’ultimo suo libro, I sommersi e i salvati (1986).
L’interesse risiede in due punti. In primo luogo è notevole l’eco, si direbbe, di una lettura strutturalistica: la cattiva trasmissione/cattiva ricezione viene qui estesa, caso più unico che raro, al rapporto parola-immagine. Di immagini e di fotografie si parla di solito assai poco. Per spiegare l’irratio del Lager, il predominio della comunicazione verbale o scritta è sempre fuori discussione in Levi: da Se questo è un uomo in avanti, sia pure nella consapevolezza della babele delle lingue, sia pure nella forzata riduzione del linguaggio concentrazionario a mera emissione di suoni icastici - nelle baracche, nella piazza dell’appello o nell’infermeria della Buna – con conseguente uso di uno stile a guizzi, pieno di intermittenze, iterazioni, frasi spezzate, è convinzione di Levi che ogni “buona ricezione” non possa che nascere da una “trasmissione” di parole, non di immagini.
Poiché le fotografie esposte a Trieste sono “d’autore”, Levi è chiamato ad affrontare il tema dell’arte, e delle sue potenzialità, in un contesto, quello dell’esperienza del Lager, dove a lungo è prevalsa, a torto o a ragione, la logica della illiceità di ogni rappresentazione estetica. Qui il pensiero si concentra sul ruolo che ha l’immagine “artistica” nella elaborazione del ricordo.
Il racconto del testimone dovrebbe essere restituito così com’è, senza essere “artisticamente ritoccato” (significativo e, di nuovo, raro, il cenno al leonardesco Trattato della pittura, che sembrerebbe qui estendere all’iconologia la funzione di levatrice della storia che la Commedia dantesca ha in Se questo è un uomo). Le immagini, conclude Levi, raccontano più delle parole, “sono il migliore esperanto”: un concetto nuovo, rimasto purtroppo, allo stato nascente.
Lo scrittore non fece in tempo a sviluppare questo concetto così come soltanto può sfiorare, in questa dimenticata pagina, un secondo problema che, dopo la sua morte, è diventato per noi assillante, non solo in Italia. Il problema della conservazione dei ricordi o come più comunemente si dice, la politica dei luoghi di memoria. Esposizioni, musei, monumenti, memoriali. E lo fa ricorrendo alla sua esperienza personale, da cui emergono chiaramente due distinte fasi della sua vita: la fase della rimozione totale (“Via tutto. Spianate tutto, radete tutto al suolo”, con evidente rinvio alla poesia Il superstite: “Indietro, via di qui, gente sommersa…”) e quella successiva dove viene riconosciuta ai “monumenti-ammonimenti” una funzione etica. L’arte della fotografia, poiché possiede un valore aggiunto, potrebbe forse spiegare le singolarità della storia dei luoghi, di certi luoghi diventati non-luoghi: “la fantasia teatrale e maligna” – ad esempio - in virtù della quale un impianto per il trattamento industriale del riso come la Risiera di San Sabba ha potuto essere convertito, in una città-emporio, in cui buona parte del cereale veniva importato dall’estremo oriente, in “una fabbrica di tortura”.
Se la fotografia possa rendere “buona” la ricezione di un messaggio per definizione “cattivo” – oppure, come altri sostengono, se non vi sia nulla da fare e la verità non possa esprimersi in altro modo che con il silenzio - è questione aperta. Rimane comunque accertato – questo breve testo lo conferma - che per Levi, come per ogni altro grande autore, si deve porre il dilemma classico di come conciliare i pensieri iniziali e gli opposti rilievi dell’artista “da vecchio”. Come ogni grande scrittore, come ogni altro grande filosofo Levi rimane se stesso proprio perché contraddice il se stesso “da giovane”. I sommersi e i salvati è il libro più leviano di Levi proprio per il fatto di essere vistosamente in contraddizione rispetto a Se questo è un uomo. E’ una questione su cui si discute da tempo, soprattutto a margine del concetto di “zona grigia” e non sarà semplice venirne a capo. Sicuro è che, nell’ultimo periodo della sua vita, lo spazio riservato alle possibilità dell’espressione artistica diventa sempre più grande.
Rivisitando i Lager *
Primo Levi
In molte occasioni noi, reduci dai campi di concentramento nazisti, ci siamo accorti di quanto poco servano le parole per descrivere la nostra esperienza. Funzionano male per “cattiva ricezione”, perché viviamo ormai nella civiltà dell’immagine, registrata, moltiplicata, teletrasmessa, ed il pubblico, in specie quello giovanile, è sempre meno propenso a fruire dell’informazione scritta; ma funzionano male anche per un motivo diverso, per “cattiva trasmissione”. In tutti i nostri racconti, verbali o scritti, sono frequenti espressioni quali “indescrivibile”, “inesprimibile”, “le parole non bastano a...”, ci vorrebbe un nuovo linguaggio per...”. Tale era infatti, laggiù, la nostra sensazione di tutti i giorni: se tornassimo a casa, e se volessimo raccontare, ci mancherebbero le parole: il linguaggio di tutti i giorni è adatto a descrivere le cose di tutti i giorni, ma qui è un altro mondo, qui ci vorrebbe un linguaggio “dell’altro mondo”, un linguaggio nato qui.
Con questa mostra abbiamo tentato di adottare il linguaggio dell’immagine, consapevoli della sua forza. Si tratta, come ognuno può vedere, di fotografie sapienti, ma non ritoccate, non “artistiche”; ritraggono i Lager, in specie Auschwitz, Birkenau, e la sinistra Risiera di San Sabba, quali si presentano oggi al visitatore. Mi pare che dimostrino quanto afferma la teoria dell’informazione: un’immagine, a parità di superficie, “racconta” venti, cento volte di più della pagina scritta, ed inoltre è accessibile a tutti, anche all’illetterato, anche allo straniero; è il migliore esperanto. Non sono osservazioni nuove, le aveva già formulate Leonardo nel suo Trattato della pittura; ma, applicate all’universo ineffabile dei Lager, acquistano un significato più forte. Più e meglio della parola, riproducono l’impressione che i campi, bene o mal conservati, più o meno trasformati in alti luoghi o santuari, esercitano sul visitatore; e, stranamente, questa impressione è più profonda e sconvolgente su chi non c’era mai stato che non su noi pochi superstiti.
In molti fra noi, sulla commozione reverente prevale ancor oggi il vecchio trauma, l’ustione del ricordo, e quindi il bisogno di rimuovere. Se al momento della liberazione ci fosse stato chiesto: “Che volete farne, di queste baracche infette, di questi reticolati da incubo, dei cessi multipli, dei forni, delle forche?”, penso che la maggior parte di noi avrebbe risposto: “Via tutto. Spianate tutto, radete tutto al suolo, insieme con il nazismo e con tutto quello che è tedesco”. Avremmo detto così (molti hanno risposto così nei fatti abbattendo il filo spinato, incendiando le baracche) ed avremmo sbagliato. Non erano orrori da cancellare. Col passare degli anni e dei decenni, quei resti non perdono nulla del loro significato di monumento-ammonimento; anzi, ne acquistano. Insegnano meglio di qualsiasi trattato o memoriale quanto disumano fosse il regime hitleriano, anche nelle sue scelte scenografiche ed architettoniche: nell’ingresso al campo di Birkenau, qui così bene ritratto nello squallore della neve e nella nudità senza tempo del paesaggio, si legge un “lasciate ogni speranza” dantesco, e nulla meglio dell’immagine potrebbe rendere l’ossessione ripetitiva dei fanali che illuminano la terra di nessuno tra il reticolato elettrico ed il filo spinato.
Diverse, ma non meno suggestive, sono le fotografie della Risiera. Era proprio e null’altro che una risiera, un impianto per il trattamento industriale del riso costruito al tempo in cui buona parte del cereale importato dall’estremo oriente veniva sbarcato a Trieste; ma nella conversione di quella fabbrica in un luogo di tortura si ravvisa una fantasia teatrale e maligna. Non doveva essere stata fatta a caso la scelta di quei muri altissimi, massicci e ciechi. Visitarla oggi, od osservarne le immagini qui riprodotte, ci fa ricordare che, oltre che un fanatico megalomane, Hitler era anche stato un architetto mancato, che la scenografia delle parate oceaniche faceva parte essenziale del rituale nazista (e della sua attrattiva per il popolo tedesco), e che Speer, questo genio ambiguo dell’organizzazione, ed architetto ufficiale del Reich Millenario, era stato il più intimo confidente del Führer e l’organizzatore del feroce sfruttamento della manodopera gratuita fornita dai Lager.
* Prefazione a Rivisitando i Lager, fotografie di Raymond Depardon, Bruno Fabello, Marcus Hirth, Paola Mattioli, Harald Nadolny, Marion Schwanengel, prefazione di Primo Levi; ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi di sterminio nazisti; Comune di Trieste, Assessorato alle attività culturali; Civici Musei di storia ed arte, Civico Museo della Risiera di S. Sabba, Milano, Idea Books, 1991 (ctrl.), pp. 6-7.
in uscita su “Belfagor”, 30 novembre 2008
Primo Levi, il 1938, il fascismo e la storia d’Italia
1. In Italia gli stranieri non sono nemici
Scomparso nel 1987, Levi non ha fatto in tempo ad assistere al rinnovamento della storiografia italiana sull’antisemitismo fascista, avviatosi un anno dopo la sua morte, in occasione delle commemorazioni per il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali (1938-1988). Tale rinnovamento, davvero notevole, cercando di mettere l’accento soprattutto sulla severità delle persecuzioni non ha ritenuto necessario avvalersi delle sue pagine, forse perché sfuggivano a riletture unilaterali enon era semplice farle rientrare in uno schema prestabilito.
Fino ad oggi non disponiamo di un’indagine specifica su ciò che Primo Levi ha scritto della storia d’Italia: in modo troppo esclusivo il nostro interesse è stato assorbito dalla sua analisi del sistema concentrazionario nazionalsocialista.
Per l’Italia si tratta di un giudizio curiosamente simmetrico a quello relativo alla Germania: non vi potrebbe essere antinomia più netta. Nella premessa a Se questo è un uomo si legge: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico” (Opere, a c. di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, vol. I, p. 5). Nell’edizione scolastica, curata dallo stesso Levi, il procedimento logico che conduce al Lager è reso ancora più stringente, mediante il ricorso ad un sillogismo da manuale: “Tutti gli stranieri sono nemici. I nemici devono essere soppressi. Tutti gli stranieri devono essere soppressi” (Se questo è un uomo, ed. scolastica, Torino, Einaudi, 1973, p. 13).
Applicata alla storia d’Italia la geometria del sillogismo subito s’inceppa. “L’Italia è un paese strano”, dice Chaìm, uno dei protagonisti di Se non ora, quando?: “Ci vuole molto tempo per capire gli italiani, e neanche noi, che abbiamo risalito tutta l’Italia da Brindisi alle Alpi, siamo ancora riusciti a capirli bene; ma una cosa è certa, in Italia gli stranieri non sono nemici. Si direbbe che gli italiani siano più nemici di se stessi che degli stranieri: è curioso ma è così” (Opere cit., vol. II, pp. 489-490, il corsivo è mio).
Ogni volta che parla della situazione venutasi a creare in Italia fra settembre 1938 e febbraio del 1944 (cioè fra emanazione delle leggi sulla razza e la sua deportazione da Fossoli verso Auschwitz) Levi ci mette in guardia contro i rischi dell’anacronismo. La storia, come la vita, ha delle asimmetrie che in Italia diventano dei paradossi.
Senza oscillazioni, pur non citando mai De Felice, Levi colloca il fascismo “fuori del cono d’ombra nazionalsocialista”, in ciò rivelando una determinazione che nemmeno i più devoti discepoli di scuola defeliciana hanno manifestato. Si veda quanto dice in una conferenza pronunciata a Bologna proprio nel 1961, anno della prima edizione del libro di De Felice: “Quando furono proclamate le leggi razziali avevo diciannove anni. […] Fra gli studenti i fascisti entusiasti erano pochi e non erano pericolosi, in generale. Anch’essi erano rimasti piuttosto perplessi davanti a quelle nuove leggi, che apparirono fin dall’inizio una stupida scimmiottatura delle analoghe e ben più feroci leggi tedesche; ma dominava un generale scetticismo da cui io stesso ero stato contagiato” (questo testo, non raccolto nelle Opere, è in appendice al mio articolo Deportazione e sterminio di ebrei, in “Lo Straniero”, XI, 85, luglio 2007, pp. 7-12).
Una riflessione decisamente inattuale rispetto ai nostri odierni parametri. Giudizi sulla “stupida scimmiottatura delle analoghe e ben più feroci leggi tedesche” ritornano nella prefazione alle memorie del partigiano Marc Hermann (Diario di un ragazzo ebreo nella seconda guerra mondiale, Cuneo, L’arciere, 1984 ora in Opere cit., pp. 1242-1244), ma le parole più chiare sono nel romanzo del 1982, Se non ora, quando?
Ci hanno aiutati non benché fossimo ebrei, ma perché lo eravamo. Hanno aiutato anche i loro ebrei; quando hanno occupato l’Italia, i tedeschi hanno fatto tutti gli sforzi che potevano per catturarli, ma ne hanno preso ed ucciso solo un quinto; tutti gli altri hanno trovato rifugio nelle case dei cristiani, e non solo gli ebrei italiani, ma molti ebrei stranieri che si erano rifugiati in Italia. […] Che cosa sia un pogrom, spiega Chaim, in Italia, non lo sa nessuno, neppure che cosa voglia dire la parola. E’ un paese-oasi. Gli ebrei italiani sono stati fascisti quando tutti gli italiani erano fascisti e battevano le mani a Mussolini; e quando sono venuti i tedeschi, alcuni sono scappati in Svizzera, alcuni sono andati con i partigiani, ma per la maggior parte è rimasta nascosta in città o nelle campagne, e sono stati pochi quelli che sono stati scoperti o denunciati, anche se i tedeschi promettevano molto denaro a chi collaborava con loro (Opere cit., vol. II, pp. 489-490).
Se parole come queste fossero scritte oggi da un ricercatore alle prime armi, subito qualcuno inviterebbe a firmare un appello sdegnato contro le pericolose derive del revisionismo. In verità il giudizio di Levi sul fascismo, come su tutta la storia d’Italia, per la ricchezza dei suoi riferimenti culturali, va preso sul serio e, soprattutto, tenuto fuori dai sofismi sulla naturale bontà o sulla congenita perfidia del popolo italiano di cui spesso ci serviamo utilizzando la ricerca storiografica come una prosecuzione, in altro campo, della lotta politica.
2. Una più facile, duttile e blanda dottrina
La prima osservazione di Levi riguarda la percezione dell’antisemitismo che si aveva in Italia fra 1938 e autunno 1943 . Questa percezione non può essere la stessa che aveva Levi quando scrive Se questo è un uomo (e abbiamo noi leggendolo).
Oltre che un aristotelico mite, Levi era un fedele lettore di Manzoni, convinto che “al di qua delle Alpi” vigesse “una più facile, duttile e blanda dottrina, secondo la quale, fra l’altro, non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto altro cielo” (Opere cit., vol. I, p. 35). Sono concetti enunciati, in forma embrionale, in Se questo è un uomo, di contro alla logica teutonica di Steinlauf, poi sviluppati nei libri successivi. Secondo Levi la travagliata storia d’Italia avrebbe favorito la maturazione di una specie di vanità collettiva, che spinge a inghiottire i rigidi sistemi morali altrui, smorzandone gli estremi. Non la disposizione al compromesso, derisa da Ernesto Rossi o da Gaetano Salvemini, ma una forma di superiore saggezza, mascherata da alterigia: una virtù-vizio. Nella sua forma compiuta questo pensiero trova armonica definizione in un articolo proprio a Manzoni dedicato, Il pugno di Renzo, dove si chiarisce che la duttile dottrina rinfacciata a Steinlauf altro non sarebbe se non il “viluppo di pietà, tolleranza e cinismo” descritto nei Promessi sposi (Opere cit., vol. II, p. 702).
Pietà, tolleranza e cinismo. Senza variazioni, rimangono queste le tre categorie che regolano, senza ondeggiamenti, il giudizio di Levi sul 1938 e le leggi razziali: “Tra i compagni studenti e tra i professori”, si legge in quella dimenticata conferenza bolognese del 1961, “non incontravo manifestazioni né di solidarietà, né di ostilità. Tuttavia, ad una ad una le amicizie ariane si andarono liquefacendo, eccetto per quei pochissimi che non temevano di passare per pietisti o per ‘ebrei onorari’, come suonava la terminologia fascista ufficiale. Ma, in privato, gli stessi gerarchetti del Guf ci guardavano con una certa aria di imbarazzo colpevole” (La deportazione e lo sterminio degli ebrei cit. , p. 7).
Una volta formulata una diagnosi di questa natura, appare esercizio arduo districare il viluppo, indicare dove la pietà sconfini nel cinismo, uno sforzo immane che esige dallo storico pazienza, serenità d’animo, ironia, disponibilità a comprendere la realtà fuori da pregiudizi schematici.
Come sempre Levi parte dall’esperienza personale. Nell’aprile del 1978 un suo amico fraterno, Eugenio Gentili Tedeschi, aveva scritto un articolo intitolato La Resistenza è incominciata in via Roma. Si faceva cenno all’episodio di manifesti antisemiti affissi per le strade del centro a Torino nel 1941. I giovani che si recarono a strappare quei manifesti sarebbero stati, secondo Gentili Tedeschi, i primi partigiani. Con il garbo che lo contraddistingueva, Levi replica, non accontentandosi di una ricostruzione unilaterale degli eventi, anzi ricordando la presenza delle stesse autorità fasciste rionali in quel gesto di ribellione, arrivando a sostenere un’ ipotesi sorprendente: “E’ probabile che l’episodio vada inquadrato nel profondo disaccordo che esisteva fra fascisti e nazisti sulla questione razziale”. Le forze dell’ordine non manifestano fanatismo antisemita, ma una “debolezza rivelatrice”, “un vistoso timore di possibili complicazioni” (Lettera a Euge in Opere cit., vol. I, pp. 1233-1235). Pietà e cinismo, cinismo e pietà.
3. L’altro Ferro
Dei due mesi che precedettero l’arresto, avvenuto all’alba del 13 dicembre 1943, e la prigionia nel carcere di Aosta durata fino al 20 gennaio 1944, Levi parla in più occasioni: nella conferenza di Bologna del 1961, nel racconto Oro del Sistema periodico (1975), in una lettera privata a Paolo Levi Momigliano, da ultimo nel capitolo “Intellettuale ad Auschwitz” dei Sommersi e i salvati. Qualche mese fa è ritornata alla luce una testimonianza resa per il processo Eichmann, dove Levi ritorna sulle modalità del suo arresto e sulla detenzione ad Aosta (la deposizione, datata 14 giugno 1960, è stata pubblicata, con titolo Odissea Auschwitz, dall’”Espresso”, 27 settembre 2007, pp. 49-53).
La figura su cui Levi si concentra – e a noi qui interessa - è quella di Fossa, il centurione Fossa, il milite che lo interroga dopo l’arresto. Fossa è il prototipo del viluppo pietà-cinismo descritto da Manzoni. Innanzitutto va osservato che il suo vero nome era Ferro. Ennesima asimmetria della vita: Ferro è anche Sandro Delmastro, simbolo per eccellenza della guerra di liberazione, il partigiano fucilato dai nazifascisti nel 1944, descritto nel racconto omonimo, “Ferro”, del Sistema periodico. Per evitare legami pericolosi, Levi muta il nome del suo grigio inquisitore, cui non s’addice la durezza del ferro. Mentre Ferro-Sandro è simbolo dell’eroe che non vuole monumenti, Ferro-Fossa lo è del viluppo che tentiamo di districare:
Fossa era un esemplare d’uomo che non avevo mai incontrato, un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi (aveva combattuto in Africa e in Spagna e se ne vantava con noi) aveva cerchiato di solida ignoranza e stoltezza, ma non corrotto né reso disumano. Aveva creduto e obbedito per tutta la sua vita, ed era candidamente convinto che i colpevoli della catastrofe fossero due soli, il re e Galeazzo Ciano, che proprio in quei giorni era stato fucilato a Verona: Badoglio no, era un soldato anche lui, aveva giurato al re e doveva tener fede al suo giuramento. Se non fosse stato del re e di Ciano, che avevano sabotato la guerra fascista fin dall’inizio, tutto sarebbe andato bene e l’Italia avrebbe vinto. Mi considerava uno sventato, guastato dalle cattive compagnie; nel profondo della sua anima classista, era persuaso che un laureato non poteva essere veramente un ‘sovversivo’. Mi interrogava per noia, per indottrinarmi e per darsi importanza, senza alcun serio intendimento inquisitorio: lui era un soldato, non uno sbirro. Non mi fece mai domande imbarazzanti, e neppure mi chiese mai se ero ebreo (Opere cit. , p. 854).
Il centurione Ferro è il nemico interno dell’altro Ferro-Sandro (ovvero gli italiani sono nemici a se stessi). Ferro è stupido e coraggioso, la sua solida ignoranza non lo ha reso però disumano, interroga per noia, ma anche per darsi importanza, soprattutto non chiede mai se il prigioniero sia ebreo, domanda che reputa “imbarazzante”. Evocando quei tragici momenti, Levi sa di affrontare un nodo non risolto della sua esperienza di prigioniero; noi giudichiamo con il senno del poi, ma il nodo da sciogliere anche per lo storico riguarda le priorità persecutorie del centurione Ferro.
Per essere chiari fino in fondo, come lo è Levi: che cosa sapeva Ferro-Fossa, in quell’istante, del futuro di un ebreo italiano catturato in valle d’Aosta? E che cosa sapeva l’inquisito-Levi? Che grado di conoscenza avevano, l’uno e l’altro, delle conseguenze che avrebbe avuto il dirsi ebreo o il dirsi partigiano?
Dire di essere ebreo non era la peggiore delle ipotesi. Dire di essere partigiano voleva dire esporsi a immediata fucilazione; dirsi ebreo spalancava uno scenario che oggi non è lecito semplificare con uno schema unilaterale.
Levi è perfettamente consapevole di quanto sia cruciale quel dialogo in carcere: per osservare retrospettivamente la sua reazione, ma anche, su un piano più generale, per dire la sua sulla natura dell’antisemitismo italiano. Per questo ritorna di continuo sulla conversazione con Ferro-Fossa. Non si spiegherebbe altrimenti l’ossessivo e non sempre lineare ritorno a quella scena–madre, nel Sistema periodico e in altre sedi.
Avevo documenti falsi e avrei forse potuto nascondere di essere ebreo, dice per esempio nella conferenza bolognese, tuttavia lo ammisi, al secondo o al terzo interrogatorio. Fu certamente un errore grossolano da parte mia, giudicando col senno del poi, ma in quel momento mi parve quella la miglior giustificazione al fatto di essermi dato alla macchia. E inoltre mi sembrava in qualche modo un disonore rinnegare la mia origine (come vedete, ero molto giovane e ingenuo!) (La deportazione e lo sterminio cit., p. 8, il corsivo è mio).
Di Ferro, della sua stessa fine verranno date da Levi due versioni divergenti. Al termine del racconto Oro genericamente si osserva come sia “strano, assurdo e sinistramente comico, data la situazione di allora, che lui giaccia da decenni in qualche sperduto cimitero di guerra, ed io sia qui, vivo e sostanzialmente indenne, a scrivere questa storia”. Nella deposizione al processo Eichmann senza giri di parole veniamo informati che Ferro “fu poi ucciso dai partigiani nel 1945” (Odissea Auschwitz cit., p. 50).
Nello studiare i giudizi di Levi sulla storia d’Italia, ci si dovrebbe a questo punto chiedere se la genesi della “zona grigia” non sia da connettersi con lo studio del fascismo italiano. L’origine di questa controversa categoria storiografica, andrà forse restituita alla più ampia ricerca antropologica con cui lo scrittore torinese, per tutta la vita, senza soste, ha tentato di decifrare, talora a proprie spese, l’enigmatico volto degli italiani.