Michele Sarfatti: Il fascismo e gli ebrei

 

L'1 e il 2 settembre 1938, il Consiglio dei ministri del Regno d'Italia, presieduto dal dittatore Benito Mussolini, varò un primo gruppo di decreti-legge antisemiti e razzisti. Essi istituirono il Consiglio superiore per la demografia e la razza e la Direzione generale per la demografia e la razza, ma, più che ciò, disposero l'esclusione di professori e studenti ebrei e l’avvio dell'espulsione degli ebrei stranieri dalla penisola. Il corpus legislativo creato con queste leggi e con quelle dei mesi successivi (ora riprodotto in www.cdec.it) istituì la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e assoggettò tali persone a un gran numero di esclusioni, divieti e angherie. In tal modo l’Italia fu trasformata in uno Stato razziale, uno Stato razzista, uno Stato antisemita.

Qual è il significato di ciò nella storia d’Italia? Si trattò di un evento di rilevante gravità. Di una grave ferita, inferta agli ebrei, al Paese, alla società civile tutta (anche ai non ebrei). Era la prima volta dal Risorgimento che si faceva distinzione tra cittadini e cittadini, tra italiani e italiani. Ed era la prima volta che si incardinava tale differenza sul criterio della razza, presentata come realtà scientifica esistente oggettivamente.

Si trattò di una svolta nella storia del fascismo? Esso, a differenza del nazismo, non si era costituito all’insegna dell’antisemitismo, tanto che aveva raccolto adesioni anche tra ebrei italiani. Tuttavia nei primi tre lustri di governo aveva sviluppato una politica di accettazione dell’esistenza di correnti antisemite (Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, ecc.), di allontanamento degli ebrei da determinati ruoli e incarichi rilevanti, di persecuzione della parità (religiosa) dell’ebraismo. E però la decisione di dotare il Paese di una normativa generalizzata (e pubblica), decisione maturata a mio parere tra il 1935 e il 1936, costituì indubbiamente una svolta. Essa fu uno sviluppo logico della politica del precedente quindicennio, ma non ne costituì l’esito obbligato o automatico.

L’iniziativa italiana del 1938 fu autonoma, sul piano internazionale? Nei decenni di inizio Novecento l’antisemitismo era in notevole crescita in tutta Europa e oltre Atlantico. Non va ignorato che molti europei e americani non partecipavano a tale processo, o lo combattevano nettamente. Inoltre negli anni Trenta nessuno, pensando l’antisemitismo, poteva prefigurare le camere a gas di Auschwitz-Birkenau o le uccisioni di massa nelle boscaglie dell’Europa orientale. Ma quella crescita era in atto. Nel 1933 poi la Germania nazista aveva mostrato che un Paese europeo “evoluto” poteva introdurre una legislazione antiebraica che, pur riallacciandosi all’epoca precedente la rivoluzione francese, si presentava come “moderna”. In questo contesto, senza esservi in alcun modo pressato, Mussolini decise di seguire la strada avviata da Adolf Hitler. E varò un corpus legislativo che, appunto perché similare ma autonomo, in alcuni ambiti fu più grave di quello vigente in quel settembre-novembre 1938 a Berlino (ben presto il dittatore tedesco superò in gravità quei limitati primati italiani; che però mantengono la loro rilevanza storiografica).

Quale tipo di razzismo prescelse l’Italia fascista? La risposta a questa domanda è resa complessa dallo scarso spessore dell’ideologia razzista e antisemita nella penisola. (Per inciso, ciò dimostra che non occorreva un prorompente e diffuso odio antiebraico per giungere a decidere la persecuzione). In termini schematici, possiamo osservare che nella pubblicistica prevalsero leggermente concezioni razzistiche di ordine spirituale o nazionale, connesse tra l’altro alla nuova esaltazione della “romanità”. Tuttavia nella legge la definizione di “appartenente alla razza ebraica”, sulla cui base venne deciso chi perseguitare e chi no, fu imperniata sulla concezione razzistico-biologica. In poche parole: il discendente di quattro nonni ebrei fu sempre classificato “di razza ebraica”, anche qualora lui stesso e magari entrambi i suoi genitori fossero battezzati. E una discendente di quattro nonni “ariani”, anche se convertita all’ebraismo e con prole cresciuta ebraicamente, per la burocrazia statale rimaneva comunque “appartenente alla razza ariana”. Gli italiani erano semplici trasmettitori generazionali di materiale biologico utile o disutile alla nazione.

Qual era il fine delle leggi antiebraiche? Esse avevano lo scopo diretto di separare e allontanare gli ebrei, soprattutto dal lavoro e dal tessuto sociale del Paese. Per le scuole fu concessa una limitata possibilità di creare classi-ghetto. Il fine ultimo era quello di allontanare definitivamente gli ebrei dal Paese, di arianizzare la società: l'istruzione, la cultura, le attività lavorative, etc. Insomma, le leggi avevano come scopo appunto la persecuzione degli ebrei e non – come talora si sostiene – un non richiesto e non necessario allineamento alla Germania nazista, o un avvertimento ad altri gruppi sociali italiani ‘colpevoli’ di essere o apparire autonomi dal fascismo.

Quale relazione legò la legislazione antiebraica del 1938 alla consegna degli ebrei a killers specializzati stranieri del 1943-1945? Non vi fu alcun automatismo; Mussolini non cacciò nel 1938 gli ebrei dal lavoro, dall’esercito, dalla vita culturale col fine di, o comunque prevedendo di, farli deportare ad Auschwitz-Birkenau (peraltro, come detto, ancora fuori della capacità di prefigurazione degli europei dell’epoca). Mussolini voleva “solo” disebreizzare e arianizzare l’Italia. Ma gli arresti e le deportazioni attuati cinque anni dopo dall’occupante nazista e dalla Repubblica Sociale Italiana furono facilitati dal fatto che gli ebrei erano ormai identificati, schedati, impoveriti, separati. Nonché dal fatto che Stato e società li consideravano perseguitandi. Per questo è legittimo dire che la legislazione antiebraica si rivelò utile, funzionale, in parte necessaria, allo sterminio successivamente deciso.

[Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, 2° ed., Einaudi, Torino 2007]