A_B_C

 

  a.a.v.v. Dall’Impero austro-ungarico alle foibe

 Conflitti nell'area alto-adriatica

 Torino, Bollati Boringhieri, 2009

 Contributi di Alessandra Algostino, Gian Carlo Bertuzzi, Franco Cecotti, Enzo Collotti, Vanni D’Alessio, Enrico Miletto, Raoul Pupo, Fabio   Todero, Nevenka Troha, Marta Verginella, Anna Maria Vinci

 

 

L'istituzione, con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, del Giorno del Ricordo, ha riportato all’attualità le vicende della Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale e nel primo dopoguerra.
Le tematiche legate alla definizione dei confini fra Italia e Jugoslavia, all’esodo dei giuliano-dalmati, alle deportazioni e alle foibe sono diventate oggetto di attenzione pubblica, veicolate da differenti canali di comunicazione, in un generale risveglio di curiosità. In realtà quel campo della storia era, da lungo tempo, ampiamente frequentato dagli studiosi dell’area giuliana e non solo da loro, ma il nuovo contesto ha favorito i momenti di approfondimento, dibattito e divulgazione.
Nei giorni dal 17 al 20 ottobre 2005 si è svolto a Torino il Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla storia della frontiera orientale, a cura della Scuola superiore di studi di storia contemporanea dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia – con il sostegno della Compagnia di San Paolo di Torino – e della Regione Piemonte. L’organizzazione scientifica è stata curata dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia e dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
Si è trattato di un corso residenziale intensivo che ha visto una folta partecipazione di docenti e ricercatori. Da quelle giornate di lavoro nasce questa raccolta di saggi, costruita sulla base delle lezioni dei relatori. La vicenda della frontiera orientale vi è analizzata a partire dalle sue premesse storiche locali e contestualizzata in una diacronia di dimensione europea, mentre il saggio di chiusura tratta dal punto di vista giuridico la condizione della profuganza.
In appendice è riportata la Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, che sintetizza il lungo lavoro condotto – su incarico dei governi di Italia e Slovenia – da quattordici studiosi italiani e sloveni in merito ai rapporti intercorsi fra le due popolazioni dalla fine dell’Ottocento al 1956. Consegnato dalla Commissione nel 2000, questo importante documento merita di essere riproposto poiché ha avuto, specialmente in Italia, un’eco assai scarsa.

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Abécassis Eliette

 Sefardita

 Tropea  (collana I narratori) 2010

 

 

Esther Vital, ebrea sefardita, francese e nata a Strasburgo, è portatrice di un'identità multipla che la conduce ad una ricerca esistenziale originata nella sua infanzia, sempre in bilico tra la fedeltà alla tradizione e l'istinto libertario. Una volta adulta, sceglie per sé l'amore come unica possibilità di evasione e parte alla volta di Israele per sposarsi; una volta giunta lì si troverà però nuovamente invischiata nella complicata storia familiare e in tutto quello che le sue origini comportano. Ormai alle soglie del matrimonio scoprirà le lotte interne, le voci insinuanti e l'ombra del maleficio. Gli antichi segreti di due famiglie verranno rivelati e i loro destini si incroceranno. Dall'Inquisizione ai giorni nostri, la storia degli ebrei marocchini ci viene proposta in una narrazione fresca e sincera

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ACERBI GIUSEPPE

Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi

giuffrè 2011

 

 

Numerosi sono stati gli studi e i contributi dedicati alla normativa degli anni 1938-1945, ma il presente volume si propone di analizzare, sotto forma di analitico saggio storico, in particolare le 'leggi della vergogna' che, muovendo dalla negazione radicale di quelle regole basilari e punto di partenza della legislazione di ogni paese civile, hanno scosso le fondamenta dell'ordinamento giuridico italiano dell'epoca. Oggetto d'indagine dell'opera sono, perciò, le leggi razziali, vale a dire le leggi emanate contro gli ebrei, ma anche quelle riguardanti il trattamento dei cosiddetti nativi delle colonie africane dell'Italia. Leggi al servizio dello Stato, proposte e scritte da un nugolo di 'giuristi di regime', disponibili a tradurre in un linguaggio 'tecnico' le direttive del partito.

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Aldo Adorno

 trentadue mesi

 Joker, 2012

 

 

Trentadue mesi” è la storia della vita di un uomo in particolari condizioni di cattività, dove le regole sono imposte da altri, in dipendenza di fatti ed eventi eccezionali, dove la personalità individuale viene totalmente annullata, dove le uniche cose che rimangono all’individuo  sono il pensiero, la memoria e lo spirito di sopravvivenza perché questi sentimenti non possono essere aboliti. Dal 4 gennaio 1943 al 12 settembre 1945, per oltre 32 mesi, Aldo Adorno ha unicamente dovuto ubbidire, tacere, soffrire la fame, la sete, il sonno, il lavoro, le fatiche, la paura. Prima a Matelica (Marche), poi in Grecia e, successivamente, a Luckenwalde, nei pressi di Berlino e, ancora, nel lager di Dieffenbachstrasse 60, a Berlino, infine la regione dei Sudeti: sono questi i luoghi attraverso i quali Adorno accompagna il lettore in un viaggio-ricordo, con cui rivive la drammatica esperienza che lo segnò per tutta la vita, la guerra e l’internamento militare.

Aldo Adorno (1923 - 2009) è nato e vissuto a Canelli e  le sue memorie, a volte “nude e crude”, permettono di arricchire le conoscenze della storia locale e aiutano ad avvicinare nel tempo e nello spazio vicende che a volte si sentono come estranee. Ricco di particolari e di riferimenti dall'indubbio valore storico, l’autore appassiona il lettore con i propri ricordi, sentimenti e giudizi: ne emerge un quadro umano, credibile, molto vicino alla gente comune.

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Agnon Shemuel Yosef

 Appena ieri

 Einaudi Collana Letture 2010     
 

 

 

 

Isacco è poco piú di un ragazzo, vive con la povera famiglia in un paesino della Galizia. Sono gli anni che si affacciano sulla Grande Guerra e come molti ebrei sceglie l’avventura della Terra promessa. Ma in Palestina le difficoltà dell’inserimento sono enormi. Isacco è di famiglia contadina e vorrebbe lavorare la terra, ma i proprietari ebrei preferiscono far lavorare gli arabi, che possono pagare pochissimo. Cosí, all’inizio, Isacco fa letteralmente la fame. Poi, per caso, s’improvvisa imbianchino e comincia a sfangarsela, fino ad acquistare un certo benessere. S’innamora di una ragazza russa molto colta e un po’ capricciosa, ma poi sposa la figlia di un rabbino... Yehoshua, Oz e Grossman ritengono Agnon il loro maestro (Oz racconta quando lo incontrò da bambino in Una storia di amore e di tenebra, Yehoshua inserisce persino la sua casamuseo nel plot di La sposa liberata). Con questo romanzo, uscito nel 1945, Agnon si dimostra capace di descrivere con straordinaria precisione le sottigliezze sentimentali, i drammi e i dubbi esistenziali dei suoi personaggi. La sua è una narrazione classica, tolstojana, dalla scrittura particolarmente i

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Janine e Vahram Altounian

Ricordare per dimenticare.

Il genocidio armeno nel diario di un padre e nella memoria di una figlia

Donzelli, 2007.

 

Tra i tanti massacri e genocidi che tristemente si sono succeduti nel secolo appena concluso, quello del popolo armeno ha forse avuto un risvolto drammatico in più: è stato negato, cancellato, coperto dall'oblio. Negli ultimi anni, però, coloro che sono sopravvissuti, i loro figli o i loro nipoti, hanno iniziato un importante, faticoso e dolorosissimo lavoro di scavo per portare alla luce la memoria della tragedia.
Janine Altounian, una delle più importanti studiose francesi di psicoanalisi e traduttrice di Freud, figlia di genitori sopravvissuti al genocidio del 1915, a questo lavoro ha dedicato un’intera vita. Uno dei primi passi nella direzione del recupero della memoria del genocidio è stato il ritrovamento del diario che il padre scrisse nel 1921, subito dopo il suo arrivo in Francia, raccontando gli avvenimenti vissuti nel momento della deportazione.
Si è trattato per la Altounian di una vera e propria scoperta, perché fino ad allora, pur essendo a conoscenza dell'esistenza di quel documento, non aveva avuto il coraggio di leggerlo. Il diario, qui pubblicato per la prima volta in traduzione italiana, testimonia quanto la riflessione storica sul dramma vissuto dal popolo armeno sia in questo caso connessa in maniera strutturale con l’esperienza vissuta e con il lavoro di elaborazione su di essa svolto. La necessità di sopravvivere, come già per i genitori sfuggiti al genocidio, è alla base della ricerca e del lavoro di scrittura di Janine Altounian: dare voce a un mutismo traumatico e iscriverne «da qualche parte» la memoria, nella consapevolezza che solo attraverso il difficile pro­cesso del ricordare è possibile dimenticare, elaborare il lutto, rinascere dal dolore.
Sulle pagine del diario di Vahram e sulle riflessioni della figlia si interroga in chiusura del volume una delle massime psicoanaliste italiane, Manuela Fraire, che riprendendo il filo del lavoro di Janine Altounian, di cui è interlocutrice privilegiata, sottolinea come in esso sia centrale non tanto la ricostruzione quanto una costruzione di senso inedita delle vicende personali e familiari. Solo ciò che ha trovato un suo spazio nella scrittura può essere rimosso, mentre il trauma che non trova rappresentazione continua a contaminare l’esperienza umana.

Janine Altounian, intellettuale, studiosa di psicoanalisi e traduttrice, è responsabile della supervisione alla traduzione delle opere complete di Sigmund Freud in francese.

Vahram Altounian, nato a Bursa, in Turchia, nel 1915 viene deportato insieme alla famiglia. Dopo aver perso il padre, è ospitato con la madre da un arabo e riesce a sopravvivere. Nel 1921 si rifugia in Francia, dove vivrà fino alla sua morte.

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Alberto Burgio
 Nonostante Auschwitz
 Il «ritorno» del razzismo in Europa
 ed Deriveapprodi

 

Il libro
Il libro nasce dalla constatazione della evidente ripresa del razzismo in Europa. Il tabù del razzismo può dirsi ormai rimosso: si può ricominciare a dirsi razzisti, senza mascheramenti o pretesti. La domanda che si pone è dunque: perché ci ritroviamo in questa situazione, a soli settant’anni dai campi di sterminio nazisti? Perché, nonostante Auschwitz, non siamo guariti dal razzismo? La risposta deve coinvolgere la storia della modernità, la sua genesi, i suoi caratteri costitutivi. Tra razzismo e modernità sussiste un nesso strutturale, al punto che il razzismo deve essere considerato un ingrediente costitutivo della modernità europea. Tesi che viene documentata sul piano storico e argomentata sul piano teorico.
Il libro analizza alcune tappe cruciali del processo di formazione delle ideologie razziste: il nesso con la cultura dei Lumi, l’intreccio con le ideologie nazionaliste, l’acme della violenza razzista nella distruzione degli ebrei in Europa. Da qui scaturisce un’analisi sul dispositivo ideologico che accomuna le diverse manifestazioni concrete del razzismo nel corso del tempo. L’invenzione dell’«altro» – nemico, infedele o deviante da escludere, perseguitare o sterminare – nasce dalla stigmatizzazione della diversità e conduce alla creazione della «razza maledetta» attraverso la naturalizzazione delle identità stereotipate.

Alberto Burgio
Alberto Burgio insegna Storia della filosofia all’Università di Bologna. Tra i primi in Italia a occuparsi di razzismo, nel 1995 ha fondato il «Seminario permanente per la storia del razzismo in Italia». Su questo argomento ha pubblicato Studi sul razzismo italiano (Clueb 1996, in collaborazione con Luciano Casali), L’invenzione delle razze (manifestolibri 1998) e La guerra delle razze (manifestolibri 2000). Tra i diversi libri pubblicati presso le nostre edizioni ricordiamo, tra i più recenti, Per Gramsci (2007) e Senza democrazia. Un’analisi della crisi (2009).

 

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allert tilman

Heil Hitler! Storia di un saluto infausto

Il Mulino

 

 

 

Un patto per l'inferno. Storia del saluto nazista di Susanna Nirenstein

Durante un viaggio in Germania nel 1937, Samuel Beckett, arrivato a Ratisbona, in Baviera, scrisse nel suo diario «Passo davanti alla chiesa dei domenicani.., e noto che sul cartello sopra la porta nord Grüss Gott (Che Dio ti saluti) è stato cancellato e sostituito con Heil Hitler!!!»). Quei tre esclamativi rendono speciale l´annotazione (cogliendo immediatamente lo scandalo della sostituzione del Führer a Dio), ma non era la prima volta che Beckett era arretrato di fronte all´uso onnipresente del saluto hitleriano: è un «HH senza fine» aveva annotato, «perfino i custodi delle latrine salutano con Heil Hitler». Parte di qui Tilman Allert per chiedersi nel suo Heil Hitler, Storia di un saluto infausto (il Mulino, pagg. 98, euro 10) cosa significò per la Germania cancellare ogni forma tradizionale di comunicazione tra chi si incontra. Per Allert, che insegna sociologia all´università di Francoforte, l´adozione di quel saluto proclama, da sola, la disponibilità a «sacrificare ogni interesse e valore in favore del regime», e a far sì che il proprio comportamento nella vita quotidiana sia parte di «una missione sacra e transtorica», rovesciando il significato stesso del gesto e delle parole con cui normalmente si accoglie o si avvicina un´altra persona, sovvertendo dunque le basi stesse della comunicazione, distruggendo dall´interno il parlare, preparandosi così ad accogliere e incarnare l´energia distruttiva sprigionata dal nazismo. In altri termini, il degrado morale del Terzo Reich, dice Allert, «non arriva di colpo e da non si sa dove, ma è il risultato di una perdita di sovranità su se stessi», linea in cui il rigetto di un atto sociale universale come il saluto, un buongiorno o un salve che auguri il bene all´altro, ben rappresenta la notte a cui si abbandonarono i tedeschi. Dell´importanza della sacralizzazione della politica e dei suoi gesti, dei riti adottati dai totalitarismi e della loro capacità di trasformare la mentalità, il carattere e il costume dei cittadini fino a generare "l´uomo nuovo" che si affida in toto alla religione del regime, hanno già scritto molti, basterà citare George Mosse con La nazionalizzazione delle masse (il Mulino) fin dagli anni '70, e più tardi, per quel che riguarda il fascismo, Emilio Gentile per il suo Culto del littorio (Laterza). Ma certo è la prima volta che qualcuno dedica un intero libretto ai significati della modificazione del saluto nel nazismo, un saggio al quale forse manca un raffronto con quel che avvenne nel comunismo e con Mussolini. Da pronunciare col braccio destro teso in avanti e alzato fino all´altezza degli occhi, il palmo della mano aperto, quel giuramento di fedeltà a Führer che vigila come un dio sul buon andamento dell´incontro tra umani, fu reso obbligatorio con uno dei primi atti del governo del Partito Nazionalsocialista. Lo fecero più circolari del 1933. Chi non aderiva al "saluto tedesco" (lo chiamarono subito così) poteva essere multato, portato in tribunali speciali, perfino mandato in campo di concentramento. Era un attestato di lealtà, e fu largamente accettato, anche se certo non mancarono i refrattari, i distratti, gli indifferenti. Victor Kemplerer, nel suo diario (Testimoniare fino all´ultimo, Mondadori, a pagina 76) annota come si ritrovi lui stesso ad alzare il braccio in avanti, e a dire «Heil», ma «Heil Hitler non riesco proprio a pronunciarlo». Eppure all´estero non fece scalpore questo stravolgimento del linguaggio sociale: nei giochi olimpici a Berlino per esempio, nel 1936, la squadra francese e quella inglese entrarono nello stadio salutando a braccio teso in segno di rispetto verso il paese ospitante. «Heil Hitler» invade dunque il vivere comune, fa sì che il singolo percepisca, anche quando entra dal tabaccaio «di fare comunque parte d´una sfera d´azione pubblica». Come è potuto accadere che quel gesto ridicolo così ben interpretato da Charlie Chaplin nel Grande dittatore, si sia subito imposto negli ambiti privati dei tedeschi? Per Allert, lo si può capire solamente se si vede il "saluto tedesco" «non solo come un prodotto di quei tempi oscuri e sinistri, ma come un tassello che ha contribuito a instaurarlo», proprio perché «segnò la regressione della Germania in uno stato di noncuranza morale in due modi: impresse sull´atto della comunicazione il marchio del fallimento del dialogo, e segnò il trionfo del radicalismo sociale sullo spazio fragile della dignità e delle interazioni sociali». Tappa necessaria dell´analisi è chiedersi se l´«Heil Hitler» fosse veramente un saluto, ovvero quel qualcosa in grado di creare socialità, di far nascere quella reciprocità basilare che è fondamento e strumento dell´incontro. La risposta lungamente articolata, come si intuisce, è no, se si considera appunto che il consueto augurio di un «Buongiorno» è il primo regalo a chi si saluta. Nelle forme più tradizionali, ricorda il sociologo tedesco, la comunicazione a volte chiamava anche un terzo a presiedere l´avvicinamento e l´augurio iniziale tra due persone, «Che Dio ti conceda un buon giorno» si diceva (Gott wnscht Dir einen guten Tag), «Gruss Gott» («Che Dio ti saluti»), due forme per accogliere chi si è salutato nella sfera morale di un potere ultraterreno che definisce la comunità a cui si appartiene. Evidente che i nuovi valori accolti dall´«Heil Hitler» costringono i tedeschi a definire se stessi e i valori di riferimento in rapporto al Führer, innalzandolo al ruolo di terzo preposto ad ogni interrelazione. Ma c´è di più, il saluto nazista promette di semplificare il rapporto sociale, «spiana una strada apparentemente senza fronzoli verso l´interlocutore, neutralizza le pretese di classe (abolendo ogni ruolo). e rimuove le complicate regole delle buone maniere» che comunque prima facevano appello al concetto di sé e alla morale personale: il regime si infiltra in ogni minimo aspetto della vita quotidiana. Il saluto tedesco si appropria perfino della Bella addormentata del bosco, raccontata ai bambini delle scuole: il principe quando bacia la donzella alza il braccio destro, diventando così «l´eroe che ha liberato il nostro popolo dal sonno mortale» come recita un testo di pedagogia del '36. Allert ci racconta come l´«Heil Hitler» prese piede tra i ragazzi, per strada, ovviamente nei luoghi pubblici e negli uffici, chiarendo così il suo senso, che Joachim Fest inscriverebbe nella psicologia delle religioni (Hitler, Garzanti): creare una pratica comunicativa travestita da saluto, che in realtà era «una specie di fascia parlante da portare al braccio, un documento di appartenenza», niente a che fare con la nota accogliente che vuol indurre l´altro a parlare. Con l´«Heil Hitler» al contrario si sacralizza la dimensione terrena: il Führer viene invocato a tutelare l´incontro, «e non basta: l´elemento sacrale, prende vita nelle relazioni tra le persone, diviene un mezzo di comunicazione che trascende la realtà» e non prende in considerazione l´altro. Anche il gesto è trascendente: la direzione del braccio travalica chi viene salutato, che non viene toccato ed anzi è tenuto a una certa distanza, mentre la concentrazione militaresca del corpo evoca il giuramento, la promessa, la disponibilità alla morte. Proprio per preservare il carattere sacro del saluto, nel '37 agli ebrei venne vietato di usarlo: per tutti gli altri quel gesto diventa magico, come magica è la forza che evocano e «che li porta a incrociarsi da estranei in un luogo dove regna la grandiosità», lontani da ogni identità individuale. E´ questo il punto, se ci si spoglia della propria individualità, dei valori che ognuno di noi porta iscritti nel cuore e nella mente per come, dove e da chi siamo nati e siamo cresciuti, cade il pensiero, cadono i dubbi faticosamente coltivati, si apre spazio all´indifferenza e alla delega. Naturalmente ci fu chi disse che il «saluto tedesco» era uno scimmiottamento del saluto fascista: Mussolini, ricorda Allert, l´aveva scelto per «esprimere un atteggiamento antiborghese e cercarvi un richiamo gestuale all´impero romano, sottolineando così la rivendicazione di un dominio imperiale transtorico» e fu Rudolf Hess stesso a scrivere che se anche il saluto proveniva dai fascisti la cosa non era deleteria: «Il bolscevismo ha diffuso i suoi simboli in tutto il pianeta. Coloro che combattono per il nazionalismo, allineati sul fronte dei rispettivi paesi, dimostrano con l´affinità del saluto di avere un punto in comune nella lotta contro i comuni nemici internazionali» dice un suo articolo del 1928. Poi vi fu l´inserimento verbale, e che inserimento, Hitler! In conclusione, secondo la visione di Allert, il pathos cosmico e fideistico introdotto dall´«Heil Hitler», il suo rituale obbligatorio, se da un lato consolidarono la religione nazista, dall´altro aumentarono la diffidenza, il sospetto, la dissimulazione che permearono la società tedesca, in mezzo alla quale prese vita e prosperò quella indifferenza morale, quel «peccato di omissione del bene» che altro non fecero se non aprire la strada alla costruzione dei campi di sterminio.

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  avagliano m. - palmieri m.

 gli internati militari italiani

 ed. einaudi 2009

 

 

 

Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 centinaia di migliaia di militari italiani furono disarmati dai tedeschi e posti di fronte ad una drammatica scelta: continuare la guerra sotto le insegne nazifasciste o essere deportati nei campi di concentramento? La gran parte di loro – circa 650 mila, tra cui 30 mila ufficiali e 200 generali – rifiutarono di continuare a combattere al fianco dei tedeschi e scelsero di non aderire alla Repubblica di Salò. La conseguenza del loro “no” fu la deportazione e l'internamento nei lager nazisti, non come prigionieri di guerra ma con lo status fino ad allora sconosciuto di IMI, Internati Militari Italiani, voluto da Hitler per sottrarli alla Convenzione di Ginevra e sfruttarli liberamente.Questa pagina sconosciuta della seconda guerra mondiale, della guerra civile tra italiani tra il 1943 e il 1945, della Resistenza e della Guerra di liberazione italiana ed europea, è stata a lungo trascurata e dimenticata nel dopoguerra. Ora torna a rivivere in un libro che la ricostruisce e la racconta attraverso la voce e gli occhi dei protagonisti, grazie a centinaia di lettere (sottoposte a censura e talvolta mai recapitate) e diari (spesso clandestini) scritti nei lager in quei drammatici giorni, rimasti fino ad ora inediti e “sepolti” in archivi pubblici, privati e di famiglia. Il libro è “Gli Internati Militari Italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945”, di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Einaudi). I diari e le lettere degli IMI, inquadrati da una corposa introduzione storica, sono raccolti in nove capitoli, dal viaggio in tradotta verso i lager al ritorno a casa dei sopravvissuti, con un’appendice di foto e disegni dai campi. Ne emerge un affresco quanto mai nitido e dettagliato della vita (e della morte) nei campi di concentramento nazisti. Una sorta di storia “dal vivo” e “in presa diretta” della fame, del freddo, del lavoro coatto, delle violenze, dei crimini di guerra e degli altri avvenimenti che costarono la vita a circa 50 mila internati e segnarono per sempre tutti gli altri. Dagli stratagemmi per aggirare la censura e le riflessioni segrete sui taccuini di fortuna (dalle minuscole agendine tascabili alla carta igienica tenuta insieme con lo spago) emerge inoltre come la scelta di non aderire – compiuta in massa da una generazione nata e cresciuta sotto il fascismo – fu un vero atto di resistenza (il segretario del partito comunista Alessandro Natta, ex internato, parlò di “altra resistenza” ma il suo libro fu rifiutato nel 1954 e pubblicato solo quarantadue anni dopo da Einaudi), che contribuì al riscatto dell’Italia e degli italiani verso la democrazia e la libertà. “La rivendicazione della Resistenza antifascista – come scrive lo storico Giorgio Rochat nella prefazione del volume – si è ridotta per decenni al dibattito politico sulla guerra partigiana. Negli ultimi anni registriamo il recupero di una dimensione più ampia. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate all'8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione politica e razziale nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi: le centinaia di migliaia di militari che invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager”. In seguito a questa scelta gli IMI andarono incontro – “volontariamente”, come scrisse nel suo diario clandestino Giovannino Guareschi, l’autore di Don  Camillo e Peppone all’epoca giovane sottotenente, a venti mesi di prigionia, lavoro coatto, sofferenze e morte. Altri duecentomila (ai quali è dedicato un capitolo) fecero invece la scelta opposta e decisero di aderire alla Repubblica Sociale, per motivazioni ideologiche, ma anche per paura, ricatto, incertezza e confusione. L’esperienza dei lager riguardò (e segnò) anche alcuni tra i più importanti esponenti della cultura, dell’arte, della politica e delle professioni del dopoguerra (come l’attore Gianrico Tedeschi, i senatori Paolo Desana e Carmelo Santalco, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella, il manager d’industria Silvio Golzio, l’intellettuale cattolico Giuseppe Lazzati, il pittore Antonio Martinetti, il pittore e caricaturista Giuseppe Novello, il filosofo Enzo Paci, il musicista Mario Pozzi, il poeta  Roberto Rebora, gli scrittori Mario Rigoni Stern e Giovannino Guareschi).

Il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri riporta in piena luce, attraverso gli scritti dei protagonisti, questa pagina importante di storia italiana

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Baldassini Cristina

L'ombra di Mussolini

L'Italia moderata e la memoria del fascismo (1945-1960)

 

 

Dopo il 1945, che cosa pensavano di Mussolini i milioni di italiani che non condannavano il fascismo ma neppure lo rivalutavano? Come giudicava il recente passato quell’Italia moderata che guardava con poca simpatia alla Resistenza ma non aveva apprezzato la Rsi?
Gli orientamenti di questa ampia fascia di opinione pubblica sono per la prima volta organicamente ricostruiti in questo volume attraverso l’esame della stampa a larga diffusione. Dalle pagine di rotocalchi popolari come «Oggi» e «Gente», ma anche del «Borghese» di Longanesi o del «Tempo» di Angiolillo, emerge una memoria indulgente del regime fascista, considerato come una dittatura non priva di aspetti positivi. Ma ne emerge anche un insieme di timori, idiosincrasie, sentimenti di ostilità verso l’Italia repubblicana che avrebbe condizionato per anni la nostra vita politica.

 

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Lidia Beccaria Rolfi , Anna Maria Buzzone

Le donne di Ravensbrueck .Testimonianze di deportate politiche italiane.

Einaudi 2003

 

 

 

 

DaDalla prefazione della storica Anna Maria Buzzone:

“Quanto a me, ho vissuto  nei primi tempi di stesura e di elaborazione del testo una doppia vita; quella di sempre e quella delle ore che trascorrevo con la mente a Ravensbrueck. A poco a poco il confronto con la vita nel campo di sterminio ha occupato tutta la mia giornata. Non sarò mai più quella di prima, ma tanto Lidia quanto io saremo contente se questo libro…potrà indurre anche  soltanto qualcuno a riesaminare e criticare, per mutarlo, il nostro tempo attuale, così  legato ancora a quel tempo.”

 A Ravensbrück, campo di concentramento destinato, almeno nominalmente, alla rieducazione delle prigioniere (testimoni di Geova, zingare, antinaziste di vari paesi) e via via trasformato in campo di sterminio, morirono novantaduemila donne. La cifra è approssimativa.
Lidia Beccaria Rolfi (che là fu deportata e sopravvisse) e Anna Maria Bruzzone hanno raccolto le testimonianze di alcune prigioniere in un libro che è bene non dimenticare. Lidia Beccaria Rolfi, Bianca Paganini Mori, Livia Borsi e le due sorelle Lina e Nella Baroncini raccontano la loro esperienza di deportate, coperte di stracci, divorate dai pidocchi, piagate dall'avitaminosi, sfinite dalla denutrizione, dalle botte, dai bestiali turni di lavoro, sporche, lacere, senza denti. Eppure la loro opera corale è un'esortazione alla speranza perché sostenuta dalla fiducia che «saremo in tanti a capire e a resistere».

 

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Bensoussan Georges
 Genocidio. Una passione europea
 i nodi, pp. 464

 

 

 

Come è stato possibile che il Novecento sia stato il secolo dei genocidi di massa, dello sterminio degli ebrei, dei gulag, delle carneficine delle guerre mondiali?
Chi ha reso possibile la formazioni intellettuale degli architetti dell’annichilimento? Chi furono i maestri dei medici nazisti? In quale brodo culturale sono stati immersi coloro che hanno concepito l’assassinio di massa?
Dal momento che gli uomini sono nutriti dalle credenze delle generazioni precedenti, si deve procedere a un’archeologia intellettuale del disastro del secolo appena trascorso, non mettendosi nei panni di un giudice o di un procuratore (e contro chi istruire il processo?) ma adottando l’andatura di un passante qualunque.
Convinti che la cultura era sinonimo di “progresso” e di “ragione”, abbiamo occultato l’immensa storia dell’ anti-illuminismo, quella parte della cultura europea che si dedicò a fare degli ebrei una questione. L’immaginario antiebraico non si limita a qualche figura rinomata, ma impregna la storia dell’intera Europa. Chi potrebbe negare che l’antiebraismo, mutato in “antisemitismo”, costituisca il sottofondo di questa catastrofe? Ma lo sfondo non esclude una cerchia più ampia: come poter capire le leggi di Norimberga prescindendo dagli statuti di limpieza de sangre del XV secolo spagnolo? Come poter capire il comportamento genocida dell’autunno 1941 senza correlarlo al programma “T4″ nazista di soppressione dei malati mentali? Gli anni 1880-1914 sono stati la matrice di una brutalizzazione della società che la Grande Guerra avrebbe esacerbato con una morte di massa, riducendo i corpi ad avanzi umani e degradando il nemico al rango di parassita.
Privata del suo terreno di coltura, la storia senza precedenti ma non senza radici della Shoah rischia alla lunga di apparire come un incidente nella “marcia continua del progresso”. La messa in luce delle sue origini culturali e politiche contribuirà, al contrario, ad ancorare questa tragedia nella storia di lungo periodo.
Georges Bensoussan, professore di storia, è responsabile editoriale al Mémorial de la Shoah (Parigi). In particolare, è l’autore di una Histoire de la Shoah (PUF 1996; 2006), di Une histoire intellectuelle et politique du sionisme (Fayard 2002) e di Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire (Mille et une nuits 1998; 2003). In Italia ha pubblicato L’eredità di Auschwitz (Einaudi 2002), Il sionismo. Una storia politica e intellettuale (Einaudi 2007) ed è prevista la traduzione italiana di Un Nom impérissable. Israel, le sionisme et la destruction des Juifs d’Europe (1933-2007) presso UTET. 

 

 

bensoussan georges

juifs en pays arabes. le grand déracinement 1850-1975

editions tallandier, paris 2012

 

 Si intitola: Ebrei nei paesi arabi. Il grande sradicamento 1859-1975 (Juifs en pays arabes. Le grand déracinement 1850-1975) l’ultimo grande lavoro dello storico Georges Bensoussan, appena uscito nelle librerie francesi.  Già autore di una monumentale storia del sionismo (Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940, Einaudi, 2007) e di numerosi saggi sulla Shoah, Bensoussan firma un saggio di ampio respiro, ricostruendo con pazienza una storia complessa e dolorosa, smontando idee comuni e mitologie e soprattutto rompendo il silenzio che ha avvolto per lungo tempo il destino di queste comunità.

Fin dall’antichità, ovvero ben prima della conquista araba e della nascita dell’Islam, le comunità ebraiche erano presenti in tutto il Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente, dal Marocco all’Egitto, dalla Libia allo Yemen, senza dimenticare l’Irak e la Tunisia. L’analisi di Bensoussan parte dalla metà dell’Ottocento quando, sotto l’influenza del colonialismo europeo, gli ebrei d’Oriente, a maggioranza sefardita, erano riusciti ad accedere a una forma di modernità culturale, spesso, anche a un reale sviluppo economico che li aveva affrancati, almeno in parte, dalla condizione servile di dhimmi imposta dall’Islam, ovvero da secoli di sottomissione arabo-musulmana all’insegna della paura, della fame e di una povertà materiale e culturale. Quello apportato dagli europei in queste terre fu un illuminismo moderato, sinonimo di istruzione, sviluppo culturale ed emancipazione ma incapace, tuttavia, di eliminare del tutto l’assoggettamento degli ebrei a innumerevoli umiliazioni pubbliche, spoliazioni e angherie di ogni tipo.

Pochi decenni dopo, il conflitto attorno alla Palestina e la collusione di alcuni leader arabi con i paesi dell’Asse finiranno per dissolvere gli ultimi legami che una lunga coabitazione aveva contribuito a tenere in vita. La decolonizzazione e la nascita dello Stato di Israele, tra altre concause, resero le condizioni di vita degli ebrei residenti nei paesi arabi sempre più difficili, per l’intensificarsi di misure discriminatorie e umilianti, nonché di minacce e violenze sempre più pesanti, inclusi alcuni episodi di pogrom come quello particolarmente efferato di Bagdad del giugno 1941 (pogrom “fahrud”).

Conseguenza del radicarsi dell’ostilità araba-musulmana e di condizioni di vita sempre più precarie sarà la disgregazione di tutte le comunità ebraiche del Nord Africa e Medio Oriente, letteralmente sradicate, costrette all’emigrazione e, dunque, distrutte nell’arco di appena una generazione.

Costretti a fuggire abbandonando tutto, spesso espulsi o cacciati, gli ebrei d’Oriente – quasi un milione di persone -se ne andarono una comunità dopo l’altra, in un esodo massiccio che ha costituito un’altra diaspora nella storia del popolo ebraico. Da allora su queste minoranze ebraiche è calato un silenzio imbarazzante, sia da parte della storiografia che dello stesso mondo ebraico sopravvissuto alla Shoah, un mondo a predominanza askenazita e unito dall’ombra schiacciante della memoria del genocidio.

 Un libro, dunque, che fa luce su una storia a lungo occultata, oppure spesso riletta superficialmente secondo stereotipi e luoghi comuni che ne hanno ora trasfigurato il passato, attraverso i ricordi delle stesse comunità ebraiche chiuse in una visione idilliaca all’insegna del mito della simbiosi giudeo-araba, ora interpretato forzatamente e ideologicamente tutta la storia della presenza ebraica in questi territori come un unico periodo di persecuzione e di oppressione totale.

Bensoussan rifiuta una storiografia redentrice e consolatoria, narra queste vicende con pazienza, mettendone in rilievo tutta la complessità e senza cedere a facili visioni di parte. Perché non si tratta di scrivere una storia comunitaria e nemmeno la storia di una comunità, ma piuttosto di tentare di comprendere come la modernità culturale e laicizzante abbia obbligato a ridefinire le identità. Si tratta anche di capire i fondamenti psichici dei conflitti politici di oggi, la dimensione nascosta dell’asservimento che è tuttora presente nell’antagonismo giudeo-arabo.

Dal 1850, in fondo, il destino così rapidamente segnato delle antiche comunità appare al contempo come lo specchio dei fallimenti e dei modesti successi della modernità in Oriente. 

Una ricostruzione rigorosa e appassionante, estremamente documentata grazie allo spoglio di una voluminosa documentazione e di fonti diverse, in gran parte inedite.

 Georges Bensoussan, uno dei maggiori storici contemporaneisti a livello internazionale, è autore di numerosi saggi sull’ebraismo, il sionismo e la Shoah, tra cui L’eredità di Auschwitz. Come ricordare (Einaudi, 2002), Genocidio. Una passione europea (Marsilio, 2009) e Israele, un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei d’Europa (Utet, 2009). Dirige dal 1993 la Revue d’histoire de la Shoah ed è responsabile editoriale delle pubblicazioni del Mémorial de la Shoah. Ha curato insieme a Jean-Marc Dreyfus, Edouard Husson e Joël Kotek il Dictionnaire de la Shoah (Larousse, 2009). Nel 2008 gli è stato conferito dalla Fondation Jacob Buchman di Parigi il Prix Mémoire de la Shoah.

 

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Bernas Jan

Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti

Mursia 2010

 

 

 

Alla fine della Seconda guerra mondiale migliaia di italiani di Istria, Fiume e Dalmazia si trovarono senza alcuna difesa di fronte all'odio etnico-nazionalista del regime di Tito, deciso a jugoslavizzare quei territori. In 350mila fuggirono, per essere accolti in Italia tra diffidenza e indifferenza. Altri decisero di rimanere, riscoprendosi giorno dopo giorno stranieri a casa propria. A questi si aggiunsero gli italiani del controesodo: comunisti partiti alla volta della Jugoslavia per costruire il Sol dell'avvenire: un sogno finito nei campi di concentramento titini. Paradossalmente, tutti subirono la stessa accusa: "Fascisti!". Gli esuli, perché in fuga dal paradiso socialista; i rimasti, perché italiani. In questo libro sono raccolte le testimonianze dei protagonisti di questa odissea: le loro parole prendono per mano il lettore e lo accompagnano lungo tutto il cammino che condusse un popolo con lingua e tradizioni comuni a dividersi irrimediabilmente. Un cono di luce che si accende su una pagina di storia italiana troppo spesso dimenticata o raccontata solo attraverso gli opportunismi della politica.

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Josef Bor
Il Requiem di Terezín
Traduzione di Bruno Meriggi
Passigli Narrativa 2014

 


Il pianista e compositore cecoslovacco Rafael Schächter arrivò nel campo di concentramento di Terezin nel novembre 1941 con il trasporto H-128. Aveva con sé una valigia contenente effetti personali e alcuni spartiti, in particolare quello del Requiem di Verdi. Quando trovò un pianoforte in un magazzino abbandonato ebbe un’idea folle, l’esecuzione del Requiem da parte dei prigionieri per annunciare in qualche modo il Giorno del Giudizio anche ai carnefici. Terezin era il così detto ‘lager degli artisti’, dove Hitler obbligava le famiglie degli intellettuali ebrei a fingere di vivere in un mondo normale, quando in realtà si trattava solo di una tappa verso la destinazione finale di Auschwitz. Per questo motivo la richiesta dell’esecuzione del Requiemcon orchestra e coro composti dagli internati fu accolta ed ebbe luogo nel luglio del 1943 alla presenza di Eichmann. Pochi giorni dopo tutti i coristi vennero deportati e Schächter fu ucciso all’arrivo ad Auschwitz.
Dal libro: “Proprio lì, nel ghetto di Terezín, Schächter doveva preparare il Requiem di Verdi. Se ne era reso conto in maniera sempre più chiara, capiva che quell’occasione unica non si sarebbe presentata forse mai più. In quale altro luogo avrebbe avuto la possibilità di scegliere senza alcuna limitazio- ne, e affidandosi esclusivamente al proprio gusto artistico, un gruppo di musicisti così colti e raffinati? In quale altro luogo avrebbe trovato ascoltatori così sensibili? Tutti, lì, erano assetati di arte, tutti desideravano ardentemente di sperimentare almeno un palpito di profondi sentimenti umani, con tanta più passione e fervore quanto più insensato, ributtante e crudele era il mondo nel quale erano stati gettati con la violenza.” 
La città ceca di Terezín fu inglobata nel Reich tedesco nel 1938 e nel 1941 l'intera cittadina fu circondata da un muro e adibita, come un grande ghetto, a campo di concentramento per gli ebrei. Intere famiglie vi furono trasferite: il campo, progettato per ospitare settemila internati e settemila militari, arrivò a ospitare cinquantamila internati, con una forte presenza di bambini. La propaganda nazista lo presentò come modello di insediamento della popolazione ebraica, ma in realtà si trattava soltanto di un 'serbatoio' di raccolta degli internati, che via via venivano trasferiti ad Auschwitz e ad altri Lager per la 'soluzione finale'. In particolare a Terezín fu internato il fior fiore degli intellettuali ebrei mitteleuropei, pittori, scrittori, musicisti, e a Terezín, caso unico in un campo di concentramento e di sterminio, si manifestarono episodi di ribellione e di resistenza organizzata condotti con le uniche armi possibili, l'intelligenza e la forza morale, com'è testimoniato dal museo delle opere d'arte realizzate in quel periodo.

La manifestazione più clamorosa fu l'esecuzione da parte di musicisti e cantanti ebrei del Requiem di Verdi, della quale fu organizzatore il direttore d'orchestra Rafael Schächter e alla quale partecipò come spettatore il fior fiore delle SS capitanato da Adolf Eichmann, non capendo che i destinatari di quel Requiem non erano gli ebrei, che a poco a poco sarebbero stati trasferiti nei campi di sterminio, ma gli stessi tedeschi, che oramai, nell'estate del 1944, vedevano le proprie armate ritirarsi e le loro città ridursi progressivamente in macerie. E agli stessi tedeschi erano indirizzati il 'Libera me Domine' e il 'Confutatis maledictis' del Requiem a ristabilre la giustizia tra perseguitati e persecutori.

Quella rappresentazione ha segnato uno degli episodi più clamorosi della storia della Shoah e Il Requiem di Terezín, con la cronaca della sua difficilissima preparazione e dei personaggi che a quell'esecuzione parteciparono, al di là del valore letterario, storico ed emotivo del testo, costiuisce una delle testimonianze più alte e commoventi sui campi di sterminio.
Il volume è arricchito da una riflessione di Eliška Borov, nuora di Josef Bor.

Josef Bor (1906-1979), influente giurista di nazionalità ceca, fu internato nel campo di Terezín nel 1942 a seguito di un attentato al gerarca nazista Reinhard Heydrich. Nell’ottobre del 1944 fu trasferito ad Auschwitz, dove perse nelle camere a gas madre, moglie e due figli. Fu trasferito successivamente a Buchenwald, dove nel 1945 fu liberato dalle forze alleate. Nel 1963 pubblicò Il Requiem di Terezín.

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Bravo Anna e Cereja Federico  (a cura di),

Intervista a Primo Levi, ex deportato

Torino, Einaudi, 2011

 

 

Più che un’intervista un’analisi, sorprendente a volte perfino per lui stesso, che cerca di farsi chiarire il senso di alcune domande, forse stupito, appunto, di non essersele ancora poste, nei lunghi anni di riflessioni, di percorsi interiori esplicitati nei suoi libri, ai quali crede, lo dice chiaro, di non avere più nulla da aggiungere.

Ma la funzione maieutica dell’intervista è proprio quella, e se a condurla sono due personalità di grande caratura umana e culturale come Federico ed Anna ecco che il trattare si fa impegnativo, anche per chi legge, quando l’analisi si fonde con la filosofia.

Parlando con persone terze Primo pare farsi terzo a se stesso, si analizza nei suoi coinvolgimenti personali durante e dopo l’esperienza del Lager, vissuta, lo ribadisce sempre, laicamente, dunque sostanzialmente confidando su se stesso, attivando all’estremo i suoi talenti umani, le sue conoscenze, le sue capacità di osservatore e soprattutto quelle di reazione intelligente al caso, il caso che in gran parte era l’unico arbitro della possibilità di sopravvivere.

Ecco un dialogo emblematico della difficoltà del ragionare, ma anche del rendere per iscritto il pensiero parlato: riguarda la sua malattia, definita da Primo provvidenziale perché manifestatasi nei giorni in cui iniziano le terribili “marce della morte” e inopinatamente i nazisti abbandonano ad Auschwitz senza sopprimerli i malati più gravi che vengono liberati e, fortunatamente, in gran parte salvati dall’esercito russo molto prima dei compagni che vagheranno disperatamente per mesi ancora di Campo in Campo:

“LEVI: mi sono ammalato quando era giusto ammalarsi, quando era …fortuna ammalarsi, perché i tedeschi, imprevedibilmente, hanno abbandonato i malati al loro destino

BRAVO: sembrerebbe adesso, questa, una notazione un po’ estemporanea, che in certi casi la fortuna consiste nel permettersi di ammalarsi quando si può, nell’ammalarsi solo quando…. Cioè il corpo, come se il corpo reggesse come per una sua autoregolazione fino al momento in cui ci si può concedere di lasciarsi andare…

LEVI: questo avviene.. questo avviene.

BRAVO: è una cosa che ogni tanto sì.. leggendo le storie di vita… o forse è un modo di raccontare, questo.

LEVI: mah…

BRAVO: è un modo come la memoria ha strutturato questa esperienza

LEVI: ma guai, se fosse così si salverebbero tutti

BRAVO: no, dicevo in alcuni casi

LEVI: in alcuni casi”

Il ritorno sui passi percorsi, quale è la riproposizione di questa intervista del 1983, mi sembra quanto mai opportuna.

Il molto lavoro fatto, soprattutto in Piemonte, quando l’attenzione era bassa e le frustrazioni dei sopravvissuti profonde, opportunamente divulgato, costituisce un preziosissimo giacimento cui attingere, soprattutto in futuro, ad esempio per chi volesse risalire alle testimonianze, anche inedite, contenute in estratto ne La vita offesa, Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Angeli, Milano, 1986, ma non solo lì.

Ai tempi dell’intervista il compianto Federico Cereja, uomo di sottile sensibilità, e l’acuta intelligente Anna Bravo, erano già ricercatori consapevoli, dunque questo volume è costituito da tre parti di pari importanza, perché l’intervista è introdotta da un breve saggio di Federico Cereja sul valore delle testimonianze, soprattutto di quella di Primo Levi ma non solo, mentre il contributo di Anna Bravo, molto più recente, ci guida nell’analisi di due questioni profonde, affrontate da Levi ma non sempre comprese e presentate rispettando l’ortodossia del suo pensiero: il “potere” e la cosiddetta “zona grigia”.

Alla luce degli accadimenti successivi a questa intervista, credo sia inevitabile per la nostra mente cercare di leggervi in controluce i germi della tragica fine di Primo Levi, per favore, non fatelo, provate a pensare, come faccio io da sempre, che quella tragedia sia stata in ogni caso un incidente, un capogiro, un cedimento fisico

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Edith Bruck
Il sogno rapito
garzanti 2014

 






Poche semplici parole, solamente sussurrate, possono scuotere nel profondo più di un violento terremoto. È quello che impara Sara in una mattina che sembra uguale a tutte le altre e che invece cambia ogni cosa. "Presto sarò padre" le dice Matteo, suo marito, lasciando che la porta di casa si chiuda alle sua spalle come se nulla fosse. Ma quella frase è una pugnalata. Perché lui non ha mai voluto un figlio da Sara, e ora lo aspetta da un'altra donna. La disperazione si fa strada dentro di lei. Lei che ha convissuto sin da piccola con l'idea di sofferenza, con l'idea che la gioia è solo un frammento. Nelle sue vene scorre il sangue di un popolo che ha pagato alla Storia un prezzo altissimo: il popolo ebraico. Sua madre ancora adolescente ha conosciuto l'orrore dei campi di concentramento. Parte del suo passato vive in Sara. Per questo quando Matteo le dice che la madre di sua figlia è palestinese, il dolore per un semplice tradimento si accende di un significato più profondo. Un significato che affonda le radici in scontri e guerre che si protraggono da centinaia di anni. Eppure Sara non vuole rimanere imbrigliata in questa spirale di odio. Sente il bisogno inspiegabile di conoscere quella donna, come se il loro incontro potesse aggiungere un granello di sabbia nel deserto della pace. Come se la bambina che la donna ha partorito potesse non solo unire le loro vite, ma costruire un ponte immaginario tra due culture e due religioni. Ma ci sono distanze che non si possono colmare
Il sogno rapito è un altro piccolo gioiello che Edith Bruck regala ai lettori. L'autrice pluripremiata affronta con forza e sensibilità un problema attuale in una fusione di cuore e ragione.

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SILVIA BUZZELLI - MARCO DE PAOLIS - ANDREA SPERANZONI
la ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in italia Questioni preliminari 2012
 
 
 
 
 
 
 
In questo volume si è cercato di impostare una riflessione sul tema della ricostruzione giudiziale dei crimini di guerra nazifascisti in Italia che ponesse in evidenza tre aspetti fondamentali: in primo luogo, la genesi e lo sviluppo (nonché il mancato sviluppo) dell’attività giudiziaria italiana sui crimini di guerra del secondo conflitto bellico mondiale, dall’immediato dopoguerra ad oggi. 
Quindi, l’analisi e la valorizzazione delle figure del testimone-persona offesa, anche in rapporto al problema del risarcimento del danno (come può essere definito e calcolato un danno che consiste nello sterminio di intere comunità, compresi giovani, bambini e neonati, e a cui si associa la devastazione e distruzione di interi villaggi o insediamenti rurali?). Infine, il collegamento con l’attualità dell’odierno diritto internazionale e umanitario, che riflette una realtà inquietante e tragicamente ricorrente, alla stregua della quale il passato sembra periodicamente rivivere offrendo inediti strumenti di cognizione ed interpretazione.

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calimani Riccardo

Il mercante di venezia

ed. mondadori

 

E' il 1508, in una laguna avvolta dalla nebbia un gruppo di ebrei in fuga attende l'arrivo di un'imbarcazione. Puntano dritto su Venezia, la patria di mercanti e commerci che li proteggerà. A condurli è Moses Conegliano, un riflessivo e insieme votato all'ottimismo, pronto a fare da guida e consigliere, a consolare e spronare. La città che li accoglie è spregiudicata e tollerante, spensierata cinica e mondana come. Non per questo però è sorda agli echi imperiosi delle battaglie di religione, degli scontri tra luterani e cattolici, né immune dal fanatismo dell'inquisizione che avanza e condiziona gli equilibri politici. E anche la Repubblica Serenissima deve prendere posizione, correre ai ripari per salvaguardare la fede cristiana minacciata. Così, mentre un violento terremoto scuote la città, l'Arsenale prende fuoco e a Rialto bruciano le botteghe, mentre sfilano processioni di angeli e flagellanti e i predicatori annunciano la fine del mondo per mano degli infedeli ebrei, i serenissimi patrizi decidono l'istituzione del Ghetto. Il dramma della Storia si intreccia indissolubilmente alla vita di Moses Conegliano e della sua famiglia. A quella dell'adorato figlio Davide, che partirà mercante in Oriente. Di Gabriele, il primogenito insofferente e ribelle, che ripudierà la religione del padre per farsi cristiano, senza trovare mai pace. Di Stella, la figlia dolcissima legata al potente patrizio Francesco Sebastiano Giustiniani, ma separata da lui dalle invalicabili leggi della società civile.
L’autore, Riccardo Caimani, con lo sguardo lucido dello storico e la voce appassionata del romanziere, ci restituisce un mondo fatto di agguati e tradimenti, raffinate attività commerciali e disinvolte alleanze

 

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Casellato a. (a cura)

Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956)

di Piero Calamandrei e Franco Calamandrei

Laterza,

Piero, il giurista liberal-socialista che era stato amico dei fratelli Rosselli e che battezzerà la Costituzione repubblicana. Franco, il gappista che aveva comandato il gruppo di fuoco di via Rasella e che diventerà un dirigente del Pci. Sembra una storia ispirata alla continuità dei sentimenti e delle memorie, tra generazioni diverse, all’interno di una delle famiglie protagoniste dell’Italia del Novecento. Invece è una storia di incomprensioni, lacerazioni, sofferenze, vicenda privata che diventa vicenda politica, specchio ideale di un conflitto tra generazioni che ha plasmato la sofferta transizione dal regime alla Repubblica. Questa è la storia raccontata da Una famiglia in guerra, così come emerge da un’ampia selezione di documenti inediti. Le parole di Piero e Franco Calamandrei scrivono e descrivono pagine decisive per l’Italia, dal comunismo ‘esistenziale’ della guerra partigiana alla difesa degli ideali della Resistenza nel dopoguerra, dalla crisi del ’56 al disciplinamento delle coscienze attuato all’interno del Pci.

Indice
Introduzione. Il figlio comunista di Alessandro Casellato -Nota ai testi - PARTE PRIMA Lettere - Piero, Ada e Franco (1939-1944) - Franco, Teresa, Piero e Ada (1944-1956) - PARTE SECONDA Scritti - Storie naturali. Meditazioni di Piero Calamandrei - Generazioni. Discorsi di Piero Calamandrei - Congedi. Racconti di Franco Calamandrei - Disciplina. Esercizi di Franco Calamandrei - Indice dei nomi

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CATTARUZZA MARINA 

 L'Italia e il confine Orientale, 1866-2006

 Bologna, Il Mulino, 2007 

 

 

 

 

 

Il libro. Nella storia d'Italia il confine orientale ha sempre costituito una zona di scontro: prima luogo simbolico in cui doveva compiersi l'azione risorgimentale tesa al raggiungimento dell'unificazione nazionale, poi confine fra mondi e ideologie negli anni della guerra fredda. A partire dalla disastrosa guerra del 1866 per arrivare alla situazione attuale, l'autice ricostruisce con puntualità la storia di questo confine contestato e conteso: lo sviluppo dell'irredentismo, l'intervento nella Grande Guerra, la sistemazione postbellica del territorio (con la clamorosa protesta dell'occupazione di Fiume), l'aggressiva politica fascista, la tragedia delle foibe, la durissima contesa con la Jugoslavia, la spartizione del territorio nel dopoguerra in seguito al trattato di pace del febbraio 1947, il ritorno di Trieste all'Italia nel 1954 e infine i decenni della guerra fredda.

 

Marina Cattaruzza è professore ordinario di Storia contemporanea generale presso l’Historisches Institut dell’Università di Berna.
Si occupa principalmente di storia sociale, di storia dei territori dell’Adriatico nord-orientale, di nazionalismo, di storia della Shoah.

Tra le sue pubblicazioni più recenti:

Trieste nell'Ottocento. Le trasformazioni di una società civile (Del Bianco, 1995); Trieste, Austria, Italia tra Settecento e Novecento (a cura di) (Del Bianco, 1996); Socialismo Adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica (Lacaita, 2001); Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo (a cura di, assieme a Marco Dogo e Raoul Pupo) (Edizioni Scientifiche Italiane, 2000); Nazionalismi di frontiera. incontri e scontri di identità sull'Adriatico nordorientale 1850-1950 (a cura di) (Rubbettino, 2003);

L’Italia e il confine orientale. 1866-2006, (il Mulino, 2007).

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Alessandra Chiappano

Memorialistica della deportazione e della shoah. bibliografia ragionata

Unicopli 2009

 

 

 

Si tratta di uno strumento agile, ma rigoroso dal punto di vista scientifico, che consenta a studenti, insegnanti e a tutti coloro che desiderano approfondire questo tema, di confrontarsi con le letture indispensabili per comprendere quello che è stato definito un mondo fuori dal mondo. Tutti i volumi sono accompagnati da una scheda sintetica e sono stati segnalati facendo riferimento all'anno di pubblicazione in modo da rendere più agevole la consultazione. Si è scelto di suggerire in particolare i volumi che danno conto dell'esperienza italiana, con qualche eccezione rispetto a volumi ritenuti di assoluto valore.

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Alessandra Chiappano

la shoah. bibliografia ragionata

Unicopli 2008

 

 

Lo studio della Shoah è divenuto centrale nella riflessione sulla storia del Novecento e ogni anno vengono pubblicati decine di volumi che con diversa angolatura affrontano questa tematica, rendendo non facile orientarsi in questa ormai sterminata produzione scientifica. Si è dunque pensato ad uno strumento agile, ma rigoroso dal punto di vista scientifico, che consenta a studenti, insegnanti e a tutti coloro che desiderano approfondire questo tema, di confrontarsi con le letture indispensabili per comprendere quello che è stato definito da Primo Levi il buco nero di Auschwitz. Tutti i volumi sono accompagnati da una scheda sintetica e sono stati suddivisi in categorie così da facilitarne la consultazione. Si è scelto di suggerire in particolare i volumi reperibili in lingua italiana, anche se si è cercato di dar conto il più possibile del dibattito storiografico internazionale.

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Alessandra Chiappano

I lager nazisti. Guida storico-didattica

 Giuntina 2007

 

 

 

Centinaia di giovani, insegnanti, familiari di ex deportati, operatori culturali, persone sensibili alle tematiche della memoria e alla sua trasmissione visitano ogni anno i campi dove sono stati rinchiusi e hanno perso la vita milioni di cittadini europei, tra cui migliaia di italiani. Spesso queste visite avvengono senza una informazione adeguata sul piano storico. Questo libro si propone di ricostruire la storia, le condizioni di vita, i sacrifici e le sofferenze di coloro che la barbarie nazista aveva deportato da ogni paese d'Europa. Dopo una introduzione generale in cui si ripercorre la storia del sistema concentrazionario voluto dal nazismo, viene esaminata la vicenda di ciascuno dei principali campi, senza dimenticare alcuni sottocampi divenuti tristemente famosi. Una particolare attenzione è stata dedicata ai due maggiori campi situati in Italia: Fossoli, presso Carpi, e la Risiera di San Sabba a Trieste.

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Alessandra Chiappano

Voci della resistenza ebraica italiana. Mila Momigliano, Franco Momigliano, Ada Della Torre, Eugenio Gentili Tedeschi, Silvio Ortona, Annamaria Levi

 Le Chateau 2011

 

 

 

Dal termine della Seconda guerra mondiale la storia e le storie degli ebrei sono state in larga parte studiate e descritte riferendo vicende legate alla Shoah. La scelta, inevitabile per la gravità dei fatti e per l’offesa subita da tutta l’umanità, ha tuttavia costruito nell’immaginario collettivo lo stereotipo dell’ebreo inerme sotto il giogo dei suoi persecutori. Questo lavoro di Alessandra Chiappano aiuta a sfatare questo luogo comune, i casi di ebrei che hanno deciso di resistere non sono più increspature nel grande mare delle persecuzioni e del genocidio, ma una parte non trascurabile di iniziative che hanno punteggiato la storia di quei terribili anni. I racconti, alcuni dei quali inediti, ci riportano ai luoghi e agli eventi della guerra partigiana ebraica, attraverso le voci di Mila Momigliano, Franco Momigliano, Ada Della Torre, Eugenio Gentili Tedeschi, Silvio Ortona e Anna Maria Levi testimoni e partecipi delle vicende di Resistenza, di persecuzione razziale e politica in Italia.
I testimoni descrivono una Resistenza viva e non appesantita dalla retorica, nella quale la provenienza dei protagonisti non è significativa, lo è invece ai nostri occhi che, in ogni resistenza ebraica alla barbarie del nazifascismo, riconosciamo il riscatto per tutte le vittime nei lager nazisti.

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Luciana Nissim Momigliano

Ricordi della casa dei morti e altri scritti

A cura di: A. Chiappano

giuntina 2008

 

 

 

Luciana Nissim Momigliano, partigiana ebrea, viene arrestata e deportata ad Auschwitz-Birkenau, insieme a Primo Levi e Vanda Maestro, con il trasporto che parte da Fessoli il 22 febbraio 1944. Sopravvissuta, nel 1946, subito a ridosso della liberazione, pubblica la sua testimonianza "Ricordi della casa dei morti", uno dei primi scritti sulla realtà dei campi nazisti. Questo volume, che esce a dieci anni dalla scomparsa di Luciana Nissim Momigliano, riprende il testo pubblicato nel 1946 e mai più edito autonomamente, arricchito da uno scritto autobiografico della Nissim sulla sua famiglia e da alcune lettere inedite scritte prima e dopo la liberazione a Franco Momigliano, noto economista e partigiano, a cui la Nissim si unirà in matrimonio nel 1946. Il volume contiene un ricordo di Trude Levi, compagna di Luciana nel campo di Lichtenau, da una prefazione di Gianni Perona, da una introduzione di Alberto Cavaglion e da uno studio sulla specificità della deportazione femminile e sulla figura di Luciana Nissim a cura di Alessandro Chiappano.

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A. Chiappano - F. Minazzi (a cura di)

Il ritorno alla vita e il problema della testimonianza

giuntina 2007

 

 

 

 

In questo volume si raccolgono studi e riflessioni concernenti la galassia della Shoah considerata sia dal punto di vista del ritorno alla vita dei deportati, sia dal punto di vista della testimonianza di questa drammatica esperienza. La testimonianza è così indagata nei suoi molteplici aspetti: come fonte per la ricostruzione storica, documentazione di un'esperienza esistenziale estrema, strumento per la conoscenza e lo studio della Shoah. Indagando questi diversi aspetti emerge il rapporto profondo, ma anche conflittuale, che può instaurarsi tra la memoria e la storia, nella convinzione che dai vissuti occorra poi pervenire ad un approfondimento critico della conoscenza storica. In secondo luogo, il volume affronta il problema del ritorno alla vita dei sopravvissuti alla Shoah, prendendo in considerazione, in particolare, alcuni casi nazionali: dall'Unione Sovietica alla Polonia, dalla Germania all'Italia, precisando anche il ruolo dei sopravvissuti nella nascita di Israele. La considerazione di questi diversi temi consente di enucleare una serie di problemi aperti sui quali la riflessione storica, culturale e filosofica contemporanea sta approfondendo la percezione del paradigma dell'annientamento nazista.

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A. Chiappano, F. Minazzi (a cura di)

Il paradigma nazista dell'annientamento. La Shoah e gli altri stermini.

Giuntina 2006

 

 

 

 

Oggi occorre approfondire lo studio della Shoah attraverso una lente multifocale, in grado di mettere in evidenza anche gli altri olocausti e aspetti poco noti dello sterminio ebraico. Tali stermini meno noti si intrecciano con la criminale logica del nazismo. In questo volume viene analizzata l'articolazione complessiva del mondo nazista, la sua struttura, il suo significato, nonché la sua struttura legale e giuridica. Ma vengono studiati anche gli stermini dei sinti, dei rom, degli omosessuali e degli oppositori politici, prestando attenzione anche alle conseguenze psicologiche dei danni procurati dai Lager ai sopravvissuti. Una particolare attenzione è inoltre prestata al ruolo della Chiesa cattolica.

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Chiappano Alessandra

Prefazione: Anna Bravo

ESSERE DONNE NEI LAGER

ed, la giuntina  2009

 

Essere donne nei Lager è il tema di questo volume che si propone di fare il punto sulla storiografia sulla condizione femminile nei campi di sterminio nazisti. Si è cercato, attraverso la presentazione della ricerca complessiva sulla deportazione, di configurare esattamente l'ordine di grandezza numerico delle deportazioni femminili mentre la specificità dell'ottica di genere è stata indagata attraverso l'analisi di un corpus specifico di testimonianze provenienti dall'Archivio della deportazione piemontese.
I vari contributi, proposti in gran parte durante i lavori di un seminario che si è svolto per iniziativa dell'INSMLI e dell'Istituto storico della resistenza e dell'età contemporanea in Ravenna e provincia nel gennaio 2008, non sono circoscritti solo all'indagine storica, ma nei vari saggi di cui si compone il volume viene presa in considerazione anche la memorialistica femminile, il ruolo delle sorveglianti SS all'interno dei Lager, il rapporto tra la testimonianza e la costruzione letteraria, i luoghi in cui è stata più consistente la deportazione delle donne.
Conclude il volume una sezione dedicata a una serie di studi e di testimonianze volti a presentare alcune figure emblematiche di deportate.

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 Chiappano Alessandra

 Luciana Nissim Momigliano. Una vita

 Firenze, Giuntina, 2010.

 

 

 

La vita di Luciana Nissim Momigliano attraversa tutto il Novecento, e del secolo breve la Nissim conosce una della pagine più oscure: quella della persecuzione e della deportazione nel campo di sterminio di AuschwitzBirkenau, vissuta insieme ad alcuni amici carissimi: Vanda Maestro, che non fece ritorno, e Primo Levi, a cui Luciana sarà legata da un sentimento di amicizia per tutta la vita. Sono estremamente fecondi gli anni della formazione, a Torino, mentre frequenta la facoltà di medicina. Con l'avvento delle leggi razziali Luciana Nissim si incontra con i "ragazzi della biblioteca ebraica" e, insieme a Vanda Maestro, Ennio ed Emanuele Artom, Giorgio Segre, Lino Jona, Franco Momigliano Primo ed Annamaria Levi, Luciana si interessa di ebraismo, di filosofia, di letteratura. Lentamente Luciana si forma una coscienza civile che la condurrà, dopo l'8 settembre 1943, insieme a Primo e a Vanda a formare una piccola banda legata a Giustizia e Libertà, in Valle d'Aosta. L'esperienza partigiana dura pochissimo, poi la cattura e la deportazione. Al suo ritorno nel luglio 1945 Luciana si getta nel lavoro e nella scrittura: testimonia anche per Vanda che non è tornata. Poi la vita riprende il sopravvento: Luciana si sposa con Franco Momigliano e intraprende la carriera di psicoanalista. Auschwitz sembra lontano. E Luciana non ne parla mai. Ma dopo la morte di Primo Levi, nel 1987, riprende a testimoniare e continuerà a farlo fino alla morte, avvenuta nel 1998.

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Carla Cohn
Le mie nove vite. Attraverso il retrospettoscopio
castelvecchi 2014


 



Nata a Berlino, deportata ad Auschwitz e poi «ebrea errante» tra la Palestina, gli Stati Uniti e infine l’Italia: Carla Cohn ha attraversato il mondo  il Novecento, ha dovuto passare il confine estremo del dolore e della perdita di sé, ed è riuscita a raccontarlo.
Nove vite, «come il gatto dei proverbi», che diventano nove capitoli di un’esistenza messa a confronto con l’orrore della Storia, quello più grande e indicibile, e poi con i tanti piccoli orrori quotidiani prodotti dall’ignoranza, dall’indifferenza, dalla mancanza di comprensione.
I suoi non sono semplicemente i ricordi di una sopravvissuta – strappata alla camera a gas per un fortuito scambio di persona – ma la storia di un’identità ricostruita, con fatica, dolore e coraggio, nel corso degli anni. Ha dedicato gran parte della sua esperienza professionale ai traumi infantili, Carla Cohn tesse la cronaca del proprio percorso di autoanalisi e della lotta senza fine contro la rimozione della memoria e del senso di colpa che abita i «salvati» della Shoah. Il lavoro su di sé – quel modo di ripercorrere il passato che Carla chiama -retrospettoscopio – diventa, inevitabilmente, continua rilettura della Storia e sguardo senza veli sulle mutazioni dell’Occidente, le sue ripetute ingiustizie e le sempre risorgenti ombre del razzismo e di ogni forma di esclusione.
Cresciuta a Berlino, nel 1942 Carla Cohn viene deportata con la sua famiglia nel campo di Terezín, per poi essere trasferita ad Auschwitz-Birkenau e quindi a Mauthausen. La liberazione è l’inizio di un’odissea che la porta in Italia, Palestina, Stati Uniti e poi ancora Italia, dove vive tuttora. Si è occupata principalmente della terapia dei traumi infantili.

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Consenti Stefania ,

Binario 21: un treno per Auschwitz

ed.Paoline, 2010

prefazione di Ferruccio De Bortoli

 

Il libro racconta, come in un reportage giornalistico, il viaggio degli studenti e dei pensionati lombardi che in treno raggiungono i campi di concentramento in Polonia. Questo viaggio e già alla quinta edizione di una iniziativa voluta dalla Provincia di Milano. Il treno della Provincia di Milano e stato gemellato con quello dei sindacati Cgil e Cisl di altre Province italiane: in tutto 1200 fra studenti, lavoratori e pensionati, oltre ai giornalisti al seguito. Venti ore di lentissimo viaggio, sulle tracce dei deportati (605 ebrei che partirono dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano il 30 gennaio 1944). E' un lungo viaggio attraverso l'Europa che scava in tutti un segno indelebile. Assieme ai ragazzi viaggiano, oltre ai pensionati e ai giornalisti, anche musicisti, studiosi e insegnanti. Il viaggio è voluto per costruire la Memoria delle atrocità del nazifascismo e contribuire a porre le premesse, coinvolgendo in questo compito i giovani in prima persona, perché ciò che è accaduto non accada mai più. L'assenza della Memoria è perdita dell'identità, con il rischio che prevalga quella che Primo Levi ha definito "zona grigia", cioe quella parte del nostro animo che cerca di sfuggire alle responsabilità.

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Czech Danuta,

 Kalendarium

 Gli avvenimenti del campo di concentramento di Auschwitz-  Birkenau 1939-1945,

 2007, 

 

Danuta Czech (1922 - 2004), ricercatrice del Museo Statale Auschwitz-Birkenau, ha raccolto per decenni tutti i documenti esistenti sul lager, ordinandoli per data. Il risultato è questo imponente Kalendarium, che racconta giorno dopo giorno la vita della più terribile fabbrica di morte del nazismo e che documenta implacabilmente la progettazione e la realizzazione dello sterminio di centinaia di migliaia di ebrei di tutta Europa, degli zingari, dei prigionieri di guerra sovietici, della classe dirigente polacca, degli antinazisti, di uomini, donne e bambini a vario titolo considerati nemici del “Reich millenario”. Un libro universalmente considerato come fonte fondamentale per ogni ricerca sul Lager.
“A modo suo, il Kalendarium degli avvenimenti nel campo di concentramento Auschwitz-Birkenau non è solo uno strumento per lo studio della storia del campo e del destino degli internati, un aiuto per le istruttorie penali, ma anche un epitaffio, un libro per ricordare gli uomini che ad Auschwitz-Birkenau e nei sottocampi hanno sofferto e lottato, coloro che (…) sono morti di una morte senza nome”.