27 GENNAIO 2015
Un inedito di Primo Levi
Uscirà per Einaudi il 27 gennaio, Giorno della Memoria, il volume Così fu
Auschwitz (a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, pp. 245, € 13), che raccoglie
una serie di testimonianze, in parte inedite, scritte tra il 1945 e il 1986 da
Primo Levi e dal medico torinese Leonardo De Benedetti, suo compagno di
prigionia. In questa pagina proponiamo uno stralcio del testo di
Levi, Testimonianza per Eichmann, uscito soltanto nel ’61 sulla rivista Il Ponte
e riemerso di recente.
PRIMO LEVI
Pensate: non più di venti anni fa, e nel cuore di questa civile Europa, è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri e gli schiavi ci sono stati. [...]Ma c’è stato anche di più e di peggio: c’è stata la dimostrazione spudorata di quanto facilmente il male prevalga. Questo, notate bene, non solo in Germania, ma ovunque i tedeschi hanno messo piede; dovunque, lo hanno dimostrato, è un gioco da bambini trovare traditori e farne dei sàtrapi, corrompere le coscienze, creare o restaurare quell’atmosfera di consenso ambiguo, o di terrore aperto, che era necessaria per tradurre in atto i loro disegni.
Tale è stata la dominazione tedesca in Francia, nella Francia nemica di sempre; tale nella libera e forte Norvegia; tale in Ucraina, nonostante vent’anni di disciplina sovietica; e le medesime cose sono avvenute, lo si racconta con orrore, entro gli stessi ghetti polacchi: perfino entro i Lager. È stato un prorompere, una fiumana di violenza, di frode e di servitù: nessuna diga ha resistito, salvo le isole sporadiche delle Resistenze europee. Negli stessi Lager, ho detto. Non dobbiamo arretrare davanti alla verità, non dobbiamo indulgere alla retorica, se veramente vogliamo immunizzarci. I Lager sono stati, oltre che luoghi di tormento e di morte, luoghi di perdizione. Mai la coscienza umana è stata violentata, offesa, distorta come nei Lager: in nessun luogo è stata più clamorosa la dimostrazione cui accennavo prima, la prova di quanto sia labile ogni coscienza, di quanto sia agevole sovvertirla e sommergerla. Non stupisce che un filosofo, Jaspers, ed un poeta, Thomas Mann, abbiano rinunciato a spiegare l’hitlerismo in chiave razionale, ed abbiano parlato, alla lettera, di «dämonische Mächte», di potenze demoniache. Su questo piano acquistano senso molti particolari, altrimenti sconcertanti, della tecnica concentrazionaria. Umiliare, degradare, ridurre l’uomo al livello dei suoi visceri. Per questo i viaggi nei vagoni piombati, appositamente promiscui, appositamente privi d’acqua (non si trattava qui di ragioni economiche). Per questo la stella gialla sul petto, il taglio dei capelli, anche alle donne. Per questo il tatuaggio, il goffo abito, le scarpe che fanno zoppicare. Per questo, e non la si comprenderebbe altrimenti, la cerimonia tipica, prediletta, quotidiana, della marcia al passo militare degli uomini-stracci davanti all’orchestra, una visione grottesca più che tragica. Vi assistevano, oltre ai padroni, reparti della Hitlerjugend, ragazzi di 14-18 anni, ed è evidente quali dovevano essere le loro impressioni. Sono questi, dunque, gli ebrei di cui ci hanno parlato, i comunisti, i nemici del nostro paese? Ma questi non sono uomini, sono pupazzi, sono bestie: sono sporchi, cenciosi, non si lavano, a picchiarli non si difendono, non si ribellano; non pensano che a riempirsi la pancia. È giusto farli lavorare fino alla morte, è giusto ucciderli. È ridicolo paragonarli a noi, applicare a loro le nostre leggi.
Allo stesso scopo di avvilimento, di degradazione, si arrivava per altra via. I funzionari del campo di Auschwitz, anche i più alti, erano prigionieri: molti erano ebrei. Non si deve credere che questo mitigasse le condizioni del campo: al contrario. Era una selezione alla rovescia: venivano scelti i più vili, i più violenti, i peggiori, ed era loro concesso ogni potere, cibo, vestiti, esenzione dal lavoro, esenzione dalla stessa morte in gas, purché collaborassero. Collaboravano: ed ecco, il comandante Höss si può scaricare di ogni rimorso, può levare la mano e dire «è pulita»: non siamo più sporchi di voi, i nostri schiavi stessi hanno lavorato con noi. Rileggete la terribile pagina del diario di Höss in cui si parla del Sonderkommando, della squadra addetta alle camere a gas e al crematorio, e capirete cosa è il contagio del male.
Primo Levi, pubblicato da “la Stampa ” del 21/01/2015
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Riflessioni sul giorno della memoria
a partire dal libro di Elena Loewenthal. Contro
il giorno della memoria, pubblicato
nel 2014.
“Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non
riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la
avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono
nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel
passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non
per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non
lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di
quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha
sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza
estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di
una distanza minima, ma insormontabile” [E.
Loewenthal, Contro il giorno della
memoria, p. 90].
Proponiamo il commento al libro di David Bidussa, giornalista e storico, apparso
su DOPPIOZZERO.
Sono le considerazioni conclusive con cui Elena Loewenthal chiude Contro
il giorno della memoria un
testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come
un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma,
con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta. Il
profilo della sua riflessione segue i vari tempi del secondo dopoguerra: prima
una lunga pratica di silenzio su un passato, poi la sua l’improvvisa emersione
attraverso l’istituzione del “giorno della memoria”, infine la ritualistica di
quella giornata in cui la ridondanza della parola consuma il significato di quel
passato fino a renderlo di nuovo muto.
Il silenzio all’inizio è un patto, tacito ma solido: gli ebrei prima
marginalizzati e poi espulsi, ricercati, braccati e poi in parte ritornati,
rientrano nel consorzio sociale a patto di non porre problemi alla società, in
altre parole di non chiedere della violenza subita. È il passaggio che forse in
forma esemplare ha descritto Giorgio Bassani nel suo Una lapide in via
Mazzini, terzo tassello delle sue Cinque
storie ferraresi(Feltrinelli,
pp. 85-123) e che in sede storica è stato ricostruito da Guri Schwarz nel suo Ritrovare
se stessi(Laterza).
Poi quel silenzio si fa lentamente storia, anche se con molte contraddizioni e
spesso con una narrazione di maniera e reticente (come ricostruiscono ora Mario
Avagliano e Marco Palmieri nel loro Di
pura razza italiana (Baldini
& Castoldi).
In seguito, negli anni ’90, complici molte cose, quel passato inizia emergere
prepotente nella discussione pubblica in Italia, anche se obbliga a rivedere i
modi con cui ci siamo raccontati che cosa sia stato il fascismo, quanto peso
abbia avuto nella formazione del cittadino, che cosa sia rimasto dopo,ma anche
quante cose prima favorivano quella storia, compresa la svolta verso
l’antisemitismo e il razzismo (come ha ampiamente dimostrato Riccardo Bonavita
nel suo Spettri
dell’altro,
il Mulino). È in questo scenario che fa il suo ingresso nel 2001 il “giorno
della memoria”. Una scadenza che negli anni ha significato: proposta editoriale
da parte di case editrici, numeri speciali di riviste e quotidiani, attività
scolastiche specificamente dedicate, viaggi di memoria... In breve un profluvio
di attività che contemporaneamente segnano il ritmo della vita pubblica.
È questa ridondanza a convincere Elena Loewenthal della precarietà, e forse
persino della falsità, se non dell’inconsistenza, di questa data memoriale.
Perché, si chiede, ogni anno bisogna cercare qualcosa di nuovo? Per tre motivi
sostiene: 1) perché il GdM è diventato il giorno degli ebrei morti, anziché
quello in cui al centro stanno i vivi, quelli che allora c’erano e i loro
successori. Giorno cioè in cui il soggetto non sono gli ebrei, ma coloro che con
gli ebrei si sono relazionati (in termini di persecuzione, di astio, ma anche di
soccorso, di aiuto). In altre parole il GdM nato per parlare dei vivi, si è
trasformato in una copia del 2 novembre, ossia nella commemorazione dei morti;
2) perché la memoria che deriva da quest’omaggio implica la reiterazione del
precedente paradigma che aveva chiesto il silenzio come scambio di reingresso.
Se prima era il silenzio ora è l’omaggio, ma lo scambio è identico: ciò che ti
chiedo è la normalizzazione, la cessazione della tua identità; 3) perché quella
reiterazione e la persistenza a non normalizzarsi da parte degli ebrei sono
percepite come “rendita di posizione”, come “industria”, come sfruttamento di un
senso di colpa, da cui il GdM vorrebbe essere il ticket.
Che cosa rimane dunque alla fine? Il fatto che il 27 gennaio sia un equivoco e
che come tale sia più un impedimento che non una “conquista”. Forse non ha torto
Elena Loewenthal. Il problema è che le urgenze del tempo presente obbligano a
trovare risposte diverse in un contesto in cui sono in rapido aumento la
rivendicazione delle appartenenze e le intolleranze.
Il “giorno della memoria” è in una fase di crisi. Abbiamo il problema di costruire una coscienza civile. Si è aperta una partita che 15 anni fa non era nelle cose tale costringere a ripensare un contenuto, così come l’idea di Europa deve trovare un nuovo contenuto. Il “Giorno della Memoria” parla a una generazione di ventenni che di fronte hanno la crisi dell’Europa? Se sì, in quale forma, attraverso quali parole, quali immagini? Quell’Europa di cui il “giorno della memoria” era una data significativa ora è in bilico. La crisi dell’uno rinvia alla crisi dell’altra e viceversa. Il silenzio non è una soluzione, ma la conferma di quella crisi. Un suo specchio, più che il suo superamento.
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A 70 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau uno degli interrogativi che
restano senza risposta è perché gli Alleati non bombardarono il campo di
sterminio nazista cuore della «Soluzione finale», ovvero il genocidio degli
ebrei d’Europa. A colmare il vuoto arriva Bombardare Auschwitz, un
libro, in uscita da Mondadori (pp. 120, € 17), con cui Umberto Gentiloni Silveri
esamina tutte le testimonianze, prove e supposizioni disponibili per arrivare a
tratteggiare una possibile spiegazione del «perché si poteva fare» e del «perché
non è stato fatto».
Confezionato da uno storico con la passione del reporter, il volume
accompagna il lettore attraverso il processo che portò le democrazie occidentali
a venire a conoscenza dello sterminio degli ebrei mentre era in corso. A
cominciare dalla fuga da Auschwitz, nell’aprile del 1944, di due ebrei
slovacchi, Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, che consegnano alla Resistenza
piantine, resoconti, numeri e notizie talmente dettagliate da costituire una
testimonianza diretta, inequivocabile, dello sterminio in corso. Dopo di loro
altri seguono, facendo arrivare a Londra e Washington notizie a sufficienti per
essere consapevoli del massacro di ebrei da parte della Germania nazista e dei
suoi alleati, Italia fascista inclusa.
In questa cornice il libro ricostruisce anche l’atmosfera dentro il Lager, ossia
l’attesa con cui i deportati scrutavano il cielo augurandosi un bombardamento
alleato che avrebbe potuto distruggere camere a gas, forni crematori, rampe
ferroviarie e anche le baracche, ovvero tutti gli ingranaggi della fabbrica
della morte. Le testimonianze di Piero Terracina, deportato da Roma, Shlomo
Venezia, catturato a Salonicco, e Elie Wiesel, ebreo transilvano e futuro premio
Nobel, consentono al lettore di addentrarsi nello stato d’animo di chi viveva
dentro Auschwitz, oggetto delle più brutali angherie naziste, maturando la
convinzione che poiché la morte era comunque certa, «meglio sarebbe stato morire
sotto le bombe alleate anziché nelle camere a gas degli aguzzini». Anche perché,
come Wiesel ricorda, quando alcune bombe americane caddero sul campo - forse per
errore, a seguito di un attacco contro vicini impianti industriali tedeschi -
gli aguzzini del Lager vennero travolti da una paura tale che, sebbene per poche
ore, portò sollievo ai «sommersi» di Auschwitz, come li definiva Primo Levi.
Nell’estate del 1944 i governi alleati sanno oramai dello sterminio
degli ebrei, i progressi militari della liberazione dell’Europa rendono
l’attacco fattibile e l’accelerazione dell’eliminazione degli ebrei ungheresi
pone un senso di urgenza - ricostruisce Gentiloni - creando una situazione nella
quale, per la prima volta, si ipotizza il bombardamento del Lager e delle
ferrovie che vi fanno arrivare i «trasporti della morte». È la presenza della 15
Le richieste di bombardare Auschwitz sui governi di Washington e Londra
diventano pressanti. Il 24 giugno 1944 il War Refugee Board americano invia un
telegramma con un’esplicita richiesta per l’Aviazione britannica di bombardare
almeno il tratto ferroviario fra Kosice e Presov per ostacolare la deportazione
di 400 mila ebrei ungheresi. Il 6 luglio 1944 Chaim Weitzmann, presidente
dell’Agenzia ebraica, ripete la richiesta ad Anthony Eden, ministro degli Esteri
britannico, che la presenta al premier Winston Churchill, da cui sembra arrivare
il via libera. «Richiedete il massimo sforzo alla nostra aviazione,
comunicategli che è una mia decisione» fa sapere il premier.
«Sembrerebbe l’inizio della svolta» scrive Gentiloni in uno dei
passaggi di maggiore tensione dell’appassionante ricostruzione storica. Per otto
giorni il comando della Raf, ovvero gli eroi della battaglia d’Inghilterra,
esamina il bombardamento nel comando alleato delle truppe in Europa: gli spazi
ci sono, la via è stretta ma percorribile. L’ipotesi è un attacco diurno,
affidato probabilmente ai bombardieri Usa in Sud Italia. Ma con il passare dei
giorni, delle settimane, non avviene nulla. A prendere il sopravvento sono i
dubbi convergenti del Foreign Office britannico e del Dipartimento di Stato
americano: lo stallo non si supera e la finestra si chiude perché la guerra
entra nella fase finale che vede la Germania nazista battersi con inattesa
caparbietà, dalla controffensiva sulle Ardenne alla V2 su Londra, fino ai
tentativi di sviluppare super-armi, spingendo gli Alleati a concentrare ogni
sforzo bellico sulla sconfitta finale dell’Asse.
Sul perché l’attacco non avvenne Gentiloni descrive il mosaico di
spiegazioni possibili: dalle scelte dei comandi militari all’antisemitismo che
circolava nelle grandi democrazie dell’epoca, dallo «scarto fra le informazioni
esistenti e la disponibilità a ritenerle attendibili», come osserva lo storico
Walter Laqueur, fino ai silenzi dell’Urss di Stalin che aveva le maggiori
possibilità logistiche di colpire e disponeva delle più numerose testimonianze
sull’Olocausto - per via degli ebrei che fuggivano a piedi verso la Siberia - ma
non fece nulla per fermare lo sterminio né per accelerare la liberazione di
Auschwitz. Arrivare all’ultima di pagina di Bombardare Auschwitz significa
comprendere la rabbia dei sopravvissuti per il mancato attacco - che Elie Wiesel
ha messo nero su bianco in un pannello al secondo piano del Museo della Shoah di
Washington - come anche il perché la Seconda guerra mondiale fu una guerra
combattuta dagli Alleati per sconfiggere il nazifascismo ma senza avere la
priorità di salvare le vite gli ebrei d’Europa.
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