La colonna infame
TITOLO ORIGINALE |
Idem |
REGIA |
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SOGGETTO |
Da Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni |
SCENEGGIATURA |
Nelo Risi, Vasco Pratolini |
FOTOGRAFIA |
Giulio Albonico (colori) |
MUSICA |
Giorgio Gaslini |
MONTAGGIO |
Gian Maria Messeri |
INTERPRETI |
Helmut Berger, Francisco Rabal, Vittorio Caprioli, Pierluigi Aprà |
PRODUZIONE |
Filmes |
DURATA |
105’ |
ORIGINE |
Italia, 1973 |
REPERIBILITA' |
Homevideo/Cineteca Pacioli |
INDICAZIONE |
Biennio-Triennio |
PERCORSI |
Cinema e Storia |
TRAMA
Milano, 1630. Mentre nella città infuria la peste e i cittadini sono vittime della psicosi degli untori, due donne accusano il commissario di sanità del rione di Porta Ticinese, Guglielmo Piazza, di avere unto i muri di una strada per spargere il contagio. Arrestato, il Piazza viene sottoposto a tremende torture, per sottrarsi alle quali, pur essendo assolutamente innocente, si confessa colpevole ed accusa come complice un povero barbiere, Giacomo Mora. Anche quest’ultimo, orrendamente torturato, confessa ciò che non ha mai commesso. I due sventurati vengono condannati a morte e arsi vivi.
Tratto dal saggio storico del Manzoni, il film di Risi costituisce una condanna dell’ arrogante crudeltà del potere, che pur di legittimarsi di fronte ad un’opinione pubblica stravolta dalla peste, ne asseconda la stolida convinzione nell’esistenza degli untori e il bisogno di capri espiatori per una catastrofe della quale sfuggivano all’epoca le reali cause.
Dalla vicenda emergono la grottesca messinscena processuale (l’esasperato formalismo, le citazioni in latino, il ritualismo spagnolesco), che fa da contraddittorio sfondo alla volontà di pervenire comunque ad una sentenza di condanna aldilà di ogni evidenza e sentimento di giustizia. Ma ciò che provoca la maggior indignazione è l’uso del barbaro strumento della tortura (infamia che verrà denunciata dal Beccaria circa un secolo dopo), attraverso la quale si estorcono ai poveri disgraziati degli imputati confessioni prive di qualunque credibilità.
Sconvolge anche la disumanità con cui agiscono gli inquisitori (specialmente il presidente del tribunale), quasi posseduti da un allucinato autoconvincimento dell’attendibilità del loro assurdo teorema processuale, mentre commuove la tragedia umana del Piazza e del Mora, vittime sacrificali di questa vergognosa pagina di Storia italiana.
Risi si impone uno stile secco e raffreddato, privo di concessioni spettacolari e teso al massimo di essenzialità (la ricostruzione della Milano secentesca è ridotta a pochi spogli esterni, mentre gli interni appaiono sobriamente arredati). Quel che sembra maggiormente interessare al regista non è la dimensione storico-ambientale (accennata e poco approfondita), quanto il significato universale di una delle tante sopraffazioni di cui il potere si è macchiato nel corso dei secoli (di qui la recitazione quasi impersonale ed estraniata, fortemente simbolica, dei rappresentanti delle istituzioni) e la creazione di un clima cupo e opprimente (claustrofobico nelle tenebrose stanze del tribunale e della prigione e apocalittico nelle scene che raffigurano le conseguenze della peste). Lo stesso andamento narrativo, piuttosto monotono e ripetitivo (si lavora sull’accumulo di atrocità e dolore), tende a comunicare allo spettatore un senso di ineluttabile e malefico progredire di morte ed orrore, in piena sintonia con quella che è l’opera più desolata e pessimistica del Manzoni.
RIFERIMENTI INTERDISCIPLINARI
Storia A) Milano e la Lombardia nella prima metà del XVII secolo
B) La peste del 1630
Letteratura italiana A) Alessandro Manzoni
B) Confronto fra il film e il saggio storico