Un uomo chiamato cavallo

TITOLO ORIGINALE

A Man Called Horse

REGIA

Elliot Silverstein

SOGGETTO

Da un romanzo di Dorothy M. Johnson

SCENEGGIATURA

Jack DeWitt

FOTOGRAFIA

Robert Hauser (colori)

MUSICA

Leonard Rosenman

MONTAGGIO

Philip Anderson

INTERPRETI

Richard Harris, Judith Anderson, Jean Gascon, Manu Topou

PRODUZIONE

Sandy Howard per National General Pictures

DURATA

114’

ORIGINE

USA

REPERIBILITA'

Homevideo/Cineteca Pacioli

INDICAZIONE

Biennio-Triennio

PERCORSI

Civiltà pellerossa

Ottocento/Cinema e storia

 

TRAMA

Sud Dakota, 1825. Un nobile inglese, John Morgan, ha lasciato la Gran Bretagna per visitare gli Stati Uniti. Mentre è impegnato in una battuta di caccia in territorio indiano, viene catturato dai sioux, che lo portano come prigioniero nel loro villaggio. Qui è adibito al ruolo di cavallo da lavoro al servizio della madre del capo del villaggio. Quando due guerrieri shoshone si avvicinano in perlustrazione al villaggio, John li affronta uccidendoli e conquistandosi così l’ammirazione dei sioux. Con il rito d’iniziazione entra a far parte della tribù e sposa la sorella del capo. Dopo un attacco dei shoshone, nel corso del quale i sioux subiscono gravi perdite e muoiono sua moglie e il capo tribù, John abbandona il villaggio per tornare in patria.

 

TRACCIA TEMATICA

Un uomo chiamato cavallo opera un rovesciamento dell’ottica con cui il western tradizionale aveva considerato i pellirosse, cioè come dei selvaggi incivili, bellicosi ed ostili nei confronti dei coloni bianchi che si insediavano all’ovest. Si tratta di una mistificazione storica che è servita per occultare la realtà del genocidio del popolo indiano da parte della nazione americana.

Il film di Silverstein, prodotto durante quella stagione della New Hollywood che ha rivisitato criticamente buona parte della storia statunitense, cerca di porre rimedio a quest’ingiustizia, rivalutando la cultura pellerossa, che viene presentata non come inferiore o superiore a quella dei colonizzatori bianchi, ma semplicemente come diversa e, come tale, degna di rispetto. Di qui la dimensione etnografica del film, proteso a descrivere in modo attento ed accurato gli usi e costumi della società indiana (molti attori sono pellirosse autentici che usano la loro lingua), senza esprimere alcun giudizio morale nei suoi confronti (pensiamo all’usanza di abbandonare a se stesse le madri rimaste senza figlio).

L’altezzoso gentiluomo inglese John, inizialmente sprezzante nei confronti degli indiani, comincia ad apprezzarli e ad amarli finendo per diventare uno di loro. Quando, alla fine, saluta la moglie morta rivolgendole un significativo Addio, mia piccola libertà, sembra ribaltarsi il suo atteggiamento precedente. La libertà, cui tanto aspirava, non si trova fuori dal villaggio, ma in esso, e capisce che, tornando fra i bianchi, la perderà definitivamente.

 

VALUTAZIONE CRITICA

Sin dall’inizio il film sottolinea l’aspetto di rumorosa e disturbante estraneità che l’intrusione bianca assume in un paesaggio incontaminato, dove la natura domina sovrana, non ancora deturpata dall’arrivo della civiltà. E’ il manifestarsi della vocazione ecologista presente nella New Hollywood degli anni settanta, espressa con quel tanto di nostalgia per una specie di paradiso perduto che l’emergere delle prime problematiche ambientali giustificava. L’accento posto sul succedersi delle stagioni e sull’ineluttabilità della lotta per la sopravvivenza con suggestive immagini di squarci naturali e di vita animale è finalizzato alla sottolineatura dello stretto legame della vita della comunità indiana con l’ambiente circostante.

Attraverso il meccanismo della focalizzazione interna lo spettatore è messo nelle condizioni di identificarsi totalmente nel personaggio di John (come del resto risulta assolutamente naturale per dei bianchi di cultura europea), di cui condividiamo la sorte e insieme al quale penetriamo gradualmente nel mondo dei sioux. La mancanza di una traduzione in forma di didascalia della lingua dei pellirosse accentua questo posizionamento spettatoriale a fianco del protagonista (per lui, come per lo spettatore, è tutto una rivelazione: pensiamo solo alla suspense della prova di iniziazione).

Silverstein dimostra di saper coniugare con equilibrio l’esigenza spettacolare, giocata in chiave avventurosa, con il contenuto antropologico-storico, secondo uno schema che verrà ripreso anni dopo da un altro grande film filoindiano, Balla coi lupi (1990) di K. Costner.

 

RIFERIMENTI INTERDISCIPLINARI

Storia                    A) Gli Stati Uniti nella prima metà del XIX secolo.

B) La civiltà dei pellirosse d’America.

C) Le guerre indiane e il genocidio del popolo pellerossa.

Geografia             Lo stato del Sud Dakota.